Capita a Monteverde
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Book preview
Capita a Monteverde - Nina Quarenghi
info@arkadiaeditore.it
introduzione
Come una storia d’amore
Monteverde mi ha adottata da adulta. È accaduto per caso. Il mio sposo mi ha portato qui senza che io sapessi dove sarebbe caduto il mio paracadute; poi l’amore si è dilatato a dismisura fino a lambire i confini dell’intera città.
Monteverde non mi ha dato i natali, ma pasquette e primi di maggio tra i prati di Villa Pamphili, dove c’è sempre posto per tutti. Mi ha dato via Carini, che porta dritta alla scuola Crispi; l’abbiamo percorsa per più di dieci anni io e i miei figli, uno nel passeggino e l’altro attaccato di lato, poi tutti e due per mano, sotto i petali di via Dezza in primavera, inciampando negli ombrelli se pioveva. Su questa strada abbiamo ripassato le tabelline, I am you are, i Greci, gli Etruschi e i Romani; e ci siamo raccontati i sogni freschi freschi della notte appena passata.
Mi ha dato Villa Sciarra che vedo ogni giorno mutare colore, mentre il mio cane annusa il suo percorso e mi conduce sempre nel punto pericoloso e franabile in cui si scorge tutta Roma, ambrata sotto il cielo chiaro, che si stropiccia gli occhi al risveglio, tra pinnacoli di fumo, tetti e cupole. Villa Sciarra, e il giallo sfavillante del ginkgo biloba in novembre, il friccicore delle cince a febbraio, il picchio intermittente e invisibile, foglie in volo e alberi caduti, crisalidi di cicale, odore di bosco.
Monteverde mi ha dato mille storie, attraverso i libri, le lapidi, le mura e la terra stessa, ma soprattutto per bocca dei suoi abitanti, che donandomi ogni volta piccoli tasselli di esistenza, mi hanno invogliato a comporre un quadro più ampio. E io ho cercato di farlo, prima con la caparbietà della storica, poi con la libertà della narratrice, per definire il tessuto dell’aria che respiravo e leggere tra le righe dei muri e le rughe dei volti; per carpire segreti chiusi dentro a registri di classe o a fotografie scoperte in album polverosi, scrigni sepolti nei magazzini delle scuole, delle chiese e nei piccoli templi delle vite degli altri.
Le storie di Monteverde mi sono entrate nella pelle, hanno scavato percorsi nell’anima e ancora continuano a farlo. In questo libro ne ho raccolte alcune. Ogni vicenda mi è stata suggerita da qualche riga letta in un documento, da una parola ascoltata su una panchina o davanti a un caffè. Poi l’immaginazione ha fatto il resto, come spesso accade nella narrativa: il dato reale si impasta con le emozioni e viene restituito cambiato nelle forme, ma non nel nocciolo. Questi racconti sono dunque reali e fittizi al tempo stesso; differenti sono le voci narranti, diverse le epoche storiche, ma tutte convergono verso il cuore di questo quartiere di Roma, emblema di ogni crocevia di incontri, spazio di vita che pulsa calda, nello scorrere del tempo.
Monteverde mi ha adottata da adulta e ha accolto la mia storia tra le altre; e questo è accaduto per caso, come una storia d’amore.
Dedico questo libro a Camilla e Riccardo.
Lame di luce
Una lama di luce tagliava la polvere e colpiva il pavimento di marmo cosparso di calcinacci e vetri. Andrea stava seduto sotto la finestra del primo piano, con le macerie tra gli stivali. Le spalle al muro, il cuore nelle tempie, le mani strette al fucile. Intorno a lui gli altri soldati ansimavano, sporchi di polvere, i capelli sudati appiccicati alla fronte.
Era stata una conquista disperata, ma ora Villa Corsini la occupavano loro, sparpagliati tra le siepi esterne e le stanze fino al primo piano. Sopra non si poteva più salire perché il cannone aveva distrutto tutto. Ma erano pochi, lo sapevano. Ed era questione di attimi: i francesi sarebbero tornati in tanti e più forti di prima.
«Pegorin, vai all’ambulanza», disse Manara al giovane veneziano che si stava stringendo un brandello di stoffa sulla gamba insanguinata.
Il ragazzo scosse la testa.
«Va’, è un ordine. Così conciato non servi a niente.»
«Mi lasci stare colonnello. Almeno fazo numero.»
Ci fu un boato. Tutti piegarono la testa. Il sibilo passò sopra la villa. Poi un altro e la palla colpì la stanza vicina; caddero delle macerie, gli uomini urlarono.
Il cannone smise, ma non era buon segno.
«Colonnello! Là!», gridò il bersagliere di vedetta alla finestra sopra Villa Pamphili.
La carica della cavalleria francese arrivò come una tempesta, facendo vibrare il pavimento sotto gli stivali.
«Fuoco!», urlò Manara.
I soldati scattarono alla finestra e scaricarono i fucili verso la marea polverosa di cavalli e uomini che risaliva la china tra i pini marittimi, un vortice informe di teste braccia gambe bandiere, lampi di baionetta, frastuono montante di grida barbare, nitriti, squilli di tromba.
Andrea esitò, il sudore gli entrava negli occhi, la vista gli si appannava; quando si decise a sparare nel mucchio, i primi erano già entrati a piano terra. Le grida rimbombavano nei saloni, la battaglia infuriava, saliva per le scalinate, invadeva ogni stanza. Non ci fu tempo per ricaricare il fucile; Andrea staccò la baionetta, sentì il colonnello urlare «Carica!» e lo seguì con gli altri.
I francesi nel corridoio arrivarono come una mandria inferocita. Andrea vide Pegorin che correva zoppicando davanti a lui e cadde nell’impatto.
Da lì tutto fu deformato, accelerato, a tratti rallentato. Andrea si buttò nella mischia fendendo alla cieca colpi a destra e a sinistra, infilzando corpi, calpestandone altri. Occhi sbarrati, denti digrignati e sangue, tanto sangue, lucido sulle spade, schizzato sui muri, sulle facce distorte. L’odore della carne lacerata, le grida assordanti, il rumore di ossa rotte gli davano alla testa; era una belva, tutti loro erano belve, un fascio di istinto e feroce disperazione nel disumano tentativo di salvarsi uccidendo.
Un francese, con un colpo di spada, lo disarmò. La sua baionetta roteò nell’aria e Andrea si bloccò a guardarla; seguì la lama luccicante che saliva in alto e rivide in quell’abbaglio il volto di Patrizia, la donna che amava e che lo aveva lasciato prima di partire, spezzandogli il cuore.
In quell’attimo di distrazione il francese lo colpì: la spada gli bucò il polmone destro, lo passò da parte a parte. Andrea restò boccheggiante per terra, vomitò sangue, poi tutto fu buio e silenzio.
Quando riaprì gli occhi c’era solo nebbia; un’ombra si avvicinò al suo viso. Dopo qualche istante riuscì a metterla a fuoco: era lei, il suo volto, la cornice dei suoi capelli, le labbra morbide. Patrizia era tornata da lui, gli teneva la mano. Volle avvicinarsi al suo viso.
«Shh, sta’ bono», fece la ragazza e gli passò un fazzoletto bagnato sulla fronte.
Lui mosse le labbra e le disse che l’amava. Non emise suono, ma lei capiva. I suoi occhi belli capivano. Volle chiederle se anche lei lo amava. Lei si avvicinò e gli diede un bacio sulle labbra screpolate. Poi restò vicina alla sua bocca e raccolse il suo ultimo respiro.
La ragazza stava china su Andrea, quando passò il medico, con le braccia imbrattate di sangue fino al gomito. Indossava un grembiule da macellaio su cui ondeggiava lo stetoscopio.
«Dottore.»
«Eccomi.»
Il medico auscultò il cuore di Andrea e scosse la testa.
«Porello», mormorò la ragazza.
«Lo conosceva?»
«No, ma so’ tutti fratelli per me.»
«Venga, mi deve aiutare con questi che sono ancora vivi. Porti un secchio d’acqua.»
«Subito.»
La ragazza lasciò la mano di Andrea e gli chiuse gli occhi con un ultimo tocco delle dita; si alzò, prese il secchio e passò tra decine di feriti verso l’uscita di San Pietro in Montorio; di tanto in tanto si fermava ad accarezzare chi si lamentava.
Una lama di luce tagliava la polvere della chiesa e colpiva il marmo lucido del sangue degli ultimi difensori della Repubblica Romana, mentre il cannone rimbombava ancora sulle alture tra il Gianicolo e Monteverde.
Là dove c’erano solo pecore
Il calesse uscì dai vicoli di Trastevere e cominciò ad arrancare su via Garibaldi. Suor Teresa si teneva aggrappata al bracciolo. Aveva mal di testa, forse per la stanchezza del viaggio, il caldo, la tensione per il colloquio della mattina. Ma non era solo quello: suor Teresa era preoccupata.
Aveva visto strade brulicanti di bambini, seduti