La terra è rossa. Un racconto di guerra
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La terra è rossa. Un racconto di guerra - Valentino Appoloni
GUERRA
BOMBARDAMENTO SUL PASUBIO
Le lingue di fuoco inondano il cielo di scintille. La notte è azzerata dalla prepotenza delle artiglierie. Stiamo stretti nei ripari, muti e tremanti. Abbiamo vent’anni e la paura ha già fatto dare di stomaco a più d’uno. Ma è la terra stessa a tremare come se mandrie gigantesche di animali impazziti corressero a pochi metri dai nostri orecchi. Boati e ancora boati; non è possibile distinguere i diversi calibri perché le detonazioni sono troppo ravvicinate. Altri rumori e nuove lacerazioni di fiamma nella tela del buio; è come se forze oscure volessero sfogare tutta la riserva di violenza accumulata prima che il giorno arrivi.
Già si intravedono i primi chiarori senza che i tiri rallentino; ogni rumore è come se trapassasse i corpi di chi sta in trincea lasciando ferite che presto si rimarginano per far posto ad altri tagli. C’è da ammattire sotto questi colpi; un ragazzo struscia la testa contro la parete della trincea, poi si toglie l’elmetto e ci nasconde dentro la faccia. Poi ridacchia, alzando nervosamente le spalle.
Cala finalmente l’intensità del cannoneggiamento. Penso e dico a me stesso: Sei sopravvissuto a questi tiri e sei ancora vivo
.
Il ragazzo di prima è sempre agitato, non avverte che si spara meno.
Tra i tanti dei nostri che hanno sopportato il bombardamento, c’è chi aveva ancora negli occhi il biondo dei capelli dell’amica salutata a casa pochi giorni prima, c’è chi ha pianto non credendo che l’inferno fosse qui su questa terra rossa; qualche commilitone forse ha pensato per un momento di scappare ma i corpi dei compagni vicinissimi l’hanno trattenuto; altri hanno parlato o biascicato nel loro dialetto per tutto il tempo del cannoneggiamento. Guardo i più anziani e noto la loro sobria compostezza; forse qualcuno che non è più ragazzo si è sentito trafiggere da ogni boato, ha sofferto sulla carne ogni devastante detonazione, ma ha poi scoperto con meraviglia di essere più forte dei più giovani. Rimanendo immobile nonostante l’uragano di fuoco, ha trattenuto in sé le risorse migliori.
Cerco di capire gli effetti morali del bombardamento, guardando proprio i più esperti; in molti di loro ogni ferita inferta dalla paura nell’animo resta in superficie e tutto il loro spirito si ringagliardisce, scoprendo energie mai impiegate prima. E ora che si aspetta di andare all’assalto, forse c’è chi sente di essere pronto ben più dei ventenni e pensa perfino che quel momento sia la grande ora che dà valore a una vita grama fatta di piccole ore in qualche ufficietto.
Io non sono né tra i temerari e nemmeno tra i pavidi; voglio agire bene ma senza eroismo, perché per essere un eroe bisogna avere buone ragioni che io non ho ancora trovato in me.
Da una feritoia malconcia un soldato guarda il paesaggio devastato e mi indica, in mezzo ai mucchi di terra che si sollevano, un uomo che corre tenendo le mani sull’elmetto. Si sposta tra le colline artificiali create dalle bombe, sprofonda nelle pozzanghere e poi si rialza e riprende a muoversi, senza una meta precisa. È un nemico? È un ferito impazzito per il dolore?
Non si può aiutarlo
, dice con fermezza un caporalmaggiore.
Un sergente scosta certi soldati, arrabbiato perché non stanno bene al riparo. Osserva fuori per mezzo minuto; sembra far fatica a vederlo, poi probabilmente lo nota perché piega il capo in avanti come per essere certo di quello che vede.
Lo hanno preso alla testa, ecco perché si tiene le mani sull’elmetto che fa da coperchio. Se gli cade l’elmetto, scommetto che gli uscirà fuori tutto il cervello come minestra da una pentola
, spiega.
È spacciato, sembra aggiungere.
Non si può far nulla?
, chiede un ragazzo.
Il sergente si volta a guardare chi ha parlato, sospira e poi vedendo la giovane età dell’altro, assente come per dire avevo visto giusto
; quindi gli fa un cenno e si fa consegnare il fucile.
Cade della terra dall’alto dopo una piccola esplosione. Il sergente si tocca i baffi e poi mira con lentezza; spara una sola volta. Poi butta il lungo fucile verso il ragazzo con un gesto di impazienza e si ritira come se lo avessero chiamato solo per quella mansione. Una volta fatto quanto necessario, non serve né commentare e nemmeno restare lì.
Ma anch’io voglio guardare il cielo violentato dai colpi in questa notte chiarissima. Come Ulisse che voleva ascoltare il canto delle sirene, ci tengo a sentire e vedere tutto, nonostante schegge e proiettili volino ovunque. La guerra deve essere conoscenza del mondo nuovo e terribile creato dalle macchine, penso.
Guardo gli uomini accanto a me; non voglio sforzarmi di ricordare i loro nomi. Meno so di chi sta intorno, meno soffrirò quando la morte prenderà uno di loro.
Come sarà l’alba? Mi chiedo se sarà come una donna gentile e sorridente; ci verrà incontro e ci accompagnerà a morire regalando il piacere di vederla un’ultima volta, questo potrebbe accadere.
Vorrei guardare giù per scrutare da dove arriveranno gli austriaci. Ma è ancora presto, i devoti a Santa Barbara sono ancora infervorati. Poi ecco che il bombardamento si attenua, perde intensità, regala qualche decina di potenti colpi isolati e poi cessa del tutto; come se qualcuno avesse premuto un interruttore. E si resta a bocca aperta davanti all’improvviso silenzio, proprio come il bambino che non si spiega come un pulsante significhi dare o togliere la luce a una stanza. Nel silenzio tornano le domande. E quell’uomo che correva come un pazzo, è davvero stato abbattuto dal sergente? E le vedette saranno polverizzate o ancora vive? Questo silenzio porta tutto il dolore per le tante sparizioni di uomini.
Il capitano ha premura; manda fuori un plotone verso la prima linea aspettandosi presto l’assalto nemico.
Quaranta uomini escono mentre tutto si rischiara. La luce sembra baciarli e prosegue il miracolo di un silenzio che meraviglia ancora. Residui di umidità stanno su una roccia vicina, bassa e irregolare, mai esposta al sole.
Bevo dalla borraccia. Non faccio in tempo a deglutire che quattro o cinque colpi cadono davanti a noi! Il fumo si mescola a un gran polverone. Spara l'artiglieria italiana e ora il silenzio è spezzato per sempre.
E il plotone, dove sarà? Il capitano balbetta qualcosa e poi fa un cenno brusco a un caporale che di malavoglia striscia avanti. Non voglio sapere i nomi di nessuno, mi ripeto. Non si può piangere chi non conosci per nome o almeno lo si può dimenticare prima. Il cielo è pieno di nuvole che sembrano correre veloci, come spaventate dalla brutalità dei boati.
Il caporale torna strisciando, ma resta fuori dalla trincea, come se temesse di contaminare gli altri. Guarda il capitano e scuote la testa più volte.
Non si poteva aspettare a mandare fuori il plotone? Il caporale ha visto la morte da vicino. L’ufficiale fa un gesto netto con la mano come per distogliere gli sguardi da sé e si riprende subito: Allora nessuno vuole vendicarli?
Bisogna raggiungere la prima linea dove a breve gli austriaci attaccheranno. Gli uomini si buttano avanti. In fila indiana si muovono gli addetti delle sezioni mitragliatrici. Finalmente si può guardare giù verso le scarpate, i reticolati, le mille ombre scure dei cespugli che forse già nascondono dei corpi. Ecco alcuni alberi piegati dalle bombe. Un mondo storto diventato la normalità. Un insieme di sambuchi spunta con vigore dal torrentino secco. Guardo alla ricerca di particolari unici del paesaggio; guardare fuori significa non pensare a chi stava in questa trincea imbrattata di sangue. Un denso fumo si alza dal residuo di un boschetto di betulle che si inerpica per un tratto verso la linea.
Gli alberelli sembrano muoversi, spostarsi, avvicinarsi a noi. Anche un sottotenente sta osservando la stessa scena e anzi la indica agli altri.
Macbeth
urla. Gli alberi, la foresta che si muove come nella tragedia di Shakespeare. È un sottotenente di Belluno, soprannominato il tedesco da qualche graduato. Macbeth, ripete ancora e tanti pensano che parli straniero.
A proposito di stranieri, sono proprio austriaci quelli che salgono protetti dal fumo e, in effetti, alcuni si confondono con la ramaglia che devono essersi legati alle braccia e alle spalle.
Fuoco! Si spara con una certa precipitazione.
Appena scossi dalle fucilate, dall’alto si vedono affrettarsi a salire, come se non temessero di morire.
Si tira verso quelle figure sottili simili a grandi fiammiferi che puntano al pendio. Le mitragliatrici li inchiodano; un reticolato non visto ne smorza l’impeto e il gruppuscolo sparisce tra polvere e fumo. Tra i miei piedi sento che c’è uno dei poveri ragazzi del plotone. Vendicati! Sono stati vendicati subito.
Riprende più tardi il cannoneggiare, ma senza un criterio facile da individuare. Pare che i nemici stiano aggiustando il tiro; forse hanno artiglieria di nuova immissione e i serventi devono prenderne confidenza. Colpi pesanti aggrediscono il settore vicino. Hanno lasciato davanti un pugno di vedette, una squadra di probabili morituri.
Un sergente accovacciato mastica una galletta e dice: L’alba è donna
.
Da quella frase un soldato sorridendo esclama: Pensate se mandassero all’attacco delle donne!
.
A quelle parole gli occhi di tutti si accendono e ciascuno ha qualcosa da dire. C’è chi sostiene che su altri fronti gli austriaci mandino le donne in guerra. È vero, aggiunge un romano che è al fronte da appena due settimane. Parla il sergente di prima: Macché, sono i russi che hanno dei battaglioni femminili e noi siamo alleati dei russi
.
La perentorietà delle sue parole ammutolisce il gruppo e la voce del cannone torna a rinvigorirsi. Che mestizia … il sergente ha rattristato tutti quando l’argomento si faceva appetitoso. Ma ci sono pure dei russi che combattono con gli austriaci, insiste un altro mettendo la testa fuori da un camminamento malconcio.
Basta questa frase provvidenziale buttata lì a caso, per ridare fiato alla fantasticheria. Vogliamo pensare che verranno all’assalto delle donne, alte e bionde, prosperose; forse dispiacerà doverle ammazzare, penso io. Forse ne terremo alcune come prigioniere.
Passa un altro giorno.
In una pausa dei tiri bisogna scendere giù con alcuni plotoni, cercando un sentiero poco battuto. Soffia un vento triste che porta un odore di cenere e gas; le narici si irritano facilmente. Tengo un fazzoletto bagnato sul naso e la bocca. Cammino quasi appoggiato a chi mi precede che continua a scivolare senza però cadere. È la paura che fa scendere in fretta prima di essere in piena luce. Passano due uccellini veloci come saette; qualche istante dopo arriva uno stormo, in formazione a punta. I primi volatili erano in avanscoperta, come i nostri plotoni. Bisogna arrivare ai primi reticolati e valutarne lo stato. Ci distribuiscono intorno a un piccolo fossato e gli ufficiali cominciano a dare istruzioni. Bisogna individuare i varchi nella linea e possibilmente rattoppare col filo di ferro. Sono bastate poche settimane di estate e un po’ di pioggia per far crescere la vegetazione che in alcuni tratti si fa intricata. Ogni giovane si infila tra piante e piccoli arbusti strozzati dai cavalli di Frisa. Siamo come sartine! Parla così il sergente che ieri parlava di donne. Ma nelle orecchie vive l’eco delle fucilate. Tirano sempre, ma non a noi qui.
Qualcuno lavora con i fili con la celerità di certi contadini stanchi ma contenti di stare all’aperto. È innaturale stare chiusi e nascosti, bisognerebbe vivere con il sole sopra la testa. Non siamo fatti per vivere nell’oscurità, penso. Quattro o cinque vigne selvatiche, piegate dal vento, fanno pensare a lontane esperienze in campagna, quando si era bambini. Il tenente che comanda il reparto ordina di tagliare proprio quelle piante, nel timore che gli austriaci le usino per scavalcare