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Di sangue e di ferro
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Di sangue e di ferro

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About this ebook

Una storia che accende la luce sulle mille menzogne che formano la nostra identità, su tutto quello che abbiamo bisogno di raccontarci e di farci raccontare per proteggerci dalla forza travolgente della realtà.
Nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Gli inquirenti sospettano alcuni militanti di Lotta Continua. Due di loro, un ragazzo e una ragazza che frequentano la facoltà di sociologia a Trento, finiscono con l’automobile nel lago di Levico, cercando di sfuggire all’arresto. Il figlio di tre anni rimane orfano. Alcuni mesi dopo vengono arrestati sei balordi goriziani che non c’entrano nulla con l’attentato. Poi vengono scarcerati. Per dieci anni le indagini brancolano nel buio, depistate dagli inquirenti che le conducono. Che ruolo hanno avuto i genitori del piccolo? E i nonni che si sono presi cura di lui? Sono stati vittime o sono stati colpevoli? Il velo comincia a sollevarsi nel 1986, quando Vincenzo Vinciguerra racconta al giudice Felice Casson i retroscena dell’attentato e le trame più oscure della destra eversiva degli anni settanta. Ma purtroppo non basta. Il mistero della morte dei due ragazzi non riesce a squarciarsi.
Un romanzo sulle oscurità della Storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, anche per quanto riguarda le vicende personali.
LanguageItaliano
Release dateApr 2, 2020
ISBN9788833861197
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    Di sangue e di ferro - Luca Quarin

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    di sangue e di ferro

    Fonti

    Ringraziamenti

    scafiblù

    ( 11 )

    © 2020 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    In copertina: disegno di Walter Bortolossi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di aprile 2020

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Materica Acqua 180 gr

    Prima edizione digitale: aprile 2020

    isbn

    978-88-3386-119-7

    Prima edizione cartacea: aprile 2020

    isbn

    978-88-3386-117-3

    A Matilde,

    perché non abbia paura

    il numero dei percorsi è infinito

    infiniti percorsi di parole

    in cui siamo entrati senza saperlo

    e da cui non sappiamo se usciremo

    Nanni Ballestrini

    di sangue e di ferro

    ascolta su spotify la playlist di tutte le canzoni citate nel libro

    Ricordava davvero qualcosa?

    Ricordava un braccio meccanico che aveva afferrato i rottami e li aveva scaraventati in un container, accanto alla rete che divideva il deposito dalla strada. Ricordava il fragore delle lamiere che erano rimbalzate sulle pareti del cassone, nella luce livida del mattino. Ricordava una nuvola di polvere che si era sollevata dai detriti e si era dispersa oltre la siepe, nella quiete della campagna. Poi ricordava l’anziana che, camminando sul bordo del marciapiede, gli aveva chiesto se pensava che fosse sufficiente essere lì e lui che le aveva risposto che non lo sapeva, era troppo giovane per sapere una cosa del genere. Dopo un attimo, il frastuono metallico aveva coperto di nuovo il brontolio dell’automobile e il corteo si era fermato in prossimità di uno spiazzo, come se stesse aspettando qualcuno.

    – Mi piace guardare le cose che crescono – aveva detto la vecchia, accarezzando una pianta selvatica che spuntava dall’asfalto – le cose che crescono, e sbocciano, e svaniscono, e muoiono, e si trasformano in altre cose.

    Poi gli aveva chiesto che fiore avrebbe voluto essere,

    se avesse potuto scegliere, e lui le aveva risposto una margherita.

    – Perché una margherita?

    – Perché sono tutte quante uguali – aveva detto lui, continuando a osservare la benna che afferrava gli scarti e li lasciava cadere nei cassoni – perché stanno tutte quante insieme.

    La vecchia aveva sfregato la scarpa sul terriccio e aveva detto che alcune margherite erano più grandi, altre erano più piccole, alcune piegavano il capo verso destra, altre si appoggiavano allo stelo, alcune erano bruttine perché avevano perduto i petali, altre invece erano perfette, ma in ogni caso erano tutte diverse una dall’altra, tutte avevano una loro caratteristica.

    – Sai, Andrea – aveva aggiunto – secondo me questa è la causa di molti mali del mondo. Quando le persone che sono diverse permettono alle altre persone di considerarle uguali.

    Poi aveva puntato il dito oltre il cofano dell’automobile e lui aveva visto le lapidi che risalivano il fianco della collina, tutte perfettamente allineate, centinaia di rettangoli bianchi che trasformavano il verde del prato in una scacchiera ordinatissima. Il corteo era andato avanti e poi il carro funebre si era fermato accanto a una tomba, una delle tante, e un uomo vestito di nero aveva sollevato il portellone del veicolo, come il coperchio di una scatola di cioccolatini. La voce di Cat Stevens aveva cominciato a intonare « Father and Son », all’inizio quasi sussurrando e poi in modo sempre più deciso, finché i becchini avevano afferrato la bara e l’avevano sistemata sul carrello.

    Perché una bara soltanto?

    – « It’s not time to make a change – aveva canticchiato la vecchia – just relax, take it easy / you’re still young, that’s your fault / there’s so much you have to know ».

    E l’altra bara dov’era finita?

    Ferro aprì gli occhi e pensò che non sarebbe mai riuscito a ricordare il funerale dei suoi genitori. Non ce l’avrebbe mai fatta. Ci aveva provato mille volte.

    Quella che aveva appena ripercorso era la scena di un film americano, Harold e Maude, che aveva visto molti anni prima al cineforum della scuola. Ma nemmeno quel ricordo era esatto. La canzone di Cat Stevens non era « Father and Son » e la scena del carro funebre era in un altro punto del film, molto più avanti, poco prima della fine. O forse era addirittura in un altro film.

    Chiuse gli occhi e tentò di ricordare di quale pellicola si potesse trattare. Forse era Il grande freddo di Lawrence Kasdan. Ma in quel caso la canzone era « You Can’t Always Get What You Want » dei Rolling Stones. Oppure era la scena finale di American Sniper, di Clint Eastwood, anche se in quel film il corteo avanzava in mezzo alla pioggia e la canzone era l’inno americano, suonato da una tromba.

    Continuò a scavare nei suoi ricordi ma il cervello seguitò a girare a vuoto, come se i suoi genitori non fossero morti quarant’anni prima e lui non fosse vissuto nella voragine della loro assenza, in quell’interstizio buio dove non c’era modo né di andare avanti né di ritornare indietro, ma solo di girare attorno allo stesso punto, il buco più profondo della terra.

    Possibile che non ricordasse nulla della loro morte?

    Era cominciato tutto quanto alcuni minuti prima, quando il telefono lo aveva fatto sobbalzare.

    – Andrea Ferro?

    – Sì?

    – Sono Monica, l’infermiera di Antonia.

    – Monica?

    – Sì, Monica. Perché? – domandò una voce giovane e squillante all’altro capo del telefono.

    Si era addormentato sulla poltrona del soggiorno leggendo un poeta polacco del diciannovesimo secolo, la sera prima, e non aveva idea di che ora fosse. Era mattino, su questo non c’erano dubbi. Una linea di luce congiungeva il suo alluce con lo spigolo della portafinestra e le campane della Grande Madre rintoccavano in lontananza. Il bicchiere si era rovesciato sul pavimento e la birra aveva lasciato un alone biancastro sul parquet, come la bava di una lumaca.

    – Monica. Sei lettere. Nome proprio di persona. Femminile. Viene dal greco uno, solo. Da cui monaco, solitario, eremita. Mai sentito prima?

    – Sì, certo – rispose Ferro, esitante.

    – Ok, dunque sono Monica, la nuova infermiera di sua nonna. Posso parlarle? È collegato?

    Ferro tacque e così la ragazza proseguì.

    – Dovrebbe venire a Udine – disse lapidaria.

    – Perché? – chiese lui, raccogliendo le lattine sparpagliate sul tappeto e appoggiandole sul piano di vetro – È successo qualcosa?

    – Certo che no – replicò lei – se fosse successo qualcosa le avrei detto che era successo qualcosa. Dovrebbe venire a Udine proprio perché non è ancora successo nulla. Le è chiaro il concetto?

    Prima che avesse il tempo di risponderle, l’infermiera disse che i fatti erano i fatti, e su quello non c’era niente da discutere, ma che i fatti erano sempre preceduti da qualcos’altro, nel caso di sua nonna da parafasie sempre più frequenti, da crisi di pianto immotivate, da difficoltà di coordinamento dei movimenti, insomma da alcuni segnali che indicavano un rapido peggioramento della malattia, un’accelerazione che non lasciava nessuna speranza per il futuro, ancora qualche settimana e non ci sarebbe stato più nulla di volontario in lei, nulla di identitario, soltanto una reazione automatica agli stimoli che riceveva, come qualsiasi altro organismo vivente, animale o vegetale che fosse.

    – Siamo qualcuno finché abbiamo un nome, finché riusciamo a dire il nostro nome. Io sono Monica perché le ho appena detto che mi chiamo Monica, perché le ho appena imposto di chiamarmi Monica, perché l’ho costretta ad ascoltare la mia voce. Prima ignorava chi fossi. Prima ignorava addirittura che esistessi. Adesso invece lo sa. Capisce cosa intendo dire?

    – Certo – disse Ferro, annuendo.

    – Dunque, dovrebbe sbrigarsi a venire da queste parti. Sua nonna dice che sono anni che non la vede.

    – Non sono anni che non mi vede, sono venuto sei mesi fa, a ottobre.

    – Ero sicura che non avrebbe capito – replicò la ragazza, con il tono seccato di chi ha appena detto a un bambino di soffiarsi il naso e quello è ancora lì con il moccio che gli penzola dalla narice.

    – Non ho detto che sono anni che non viene a Udine. Ho detto che sua nonna dice che sono anni che non la vede. Conosce la differenza tra oggettività e soggettività?

    Poi, dopo una breve pausa, l’infermiera gli disse:

    – Fossi in lei, verrei prima possibile. Io gliel’ho detto. Per il resto faccia come vuole. Se ha capito ha capito e se non ha capito tanto peggio per lei.

    La ragazza interruppe improvvisamente la conversazione e Ferro si lasciò cadere sulla poltrona.

    Che cosa voleva da lui quella stronza?

    Come si permetteva di usare quel tono?

    Ma soprattutto che cosa ne sapeva di sua nonna, di quella vecchia ostinata che non si era mai occupata di nessuno, se non di rispondere male e di accumulare oggetti in ogni angolo della casa.

    Lo stendardo delle Fiamme Nere, la medaglia della falange di Primo de Rivera, il ritratto di José Sanjurjo, la fotografia del colonnello Moscardó, l’incrociatore di bronzo che celebrava l’occupazione di Ferrol, la targa per la proclamazione dell’impero, la decorazione dell’aquila tedesca, il manifesto dei balilla, tutti ricordi che Antonia aveva allineato con precisione sul tavolo del salotto, sulla libreria nello studio, sulle vetrine nella sala da pranzo, accanto ai cimeli fascisti che ricordavano i valori in cui aveva creduto da giovane e che, stando ai discorsi che aveva sempre fatto con suo nonno, erano stati traditi dalla Repubblica.

    Non c’erano tracce di suo figlio né di sua nuora. Non c’erano tracce nemmeno di lui. Non c’erano foto di nessuno. Perché doveva preoccuparsi per lei?

    Andrea Ferro era nato a Udine nel luglio del 1969 e all’età di tre anni aveva perduto entrambi i genitori in un terribile incidente stradale. La loro automobile era precipitata misteriosamente in un lago, incendiandosi nell’impatto, fatto che non aveva trovato alcuna spiegazione logica, perlomeno stando ai periti che se ne erano occupati. Quando si era ripreso dallo shock, Ferro aveva avuto prima la parotite, poi la rosolia, poi il morbillo, poi la varicella e alla fine la sesta malattia, dopo di ché si era rifiutato di ritornare all’asilo e qualche anno dopo aveva tentato di fare la stessa cosa anche con le elementari, gesto che i nonni paterni erano stati irremovibili nell’impedirgli, soprattutto Antonia, sua nonna, e così il primo giorno di scuola non aveva trovato di meglio se non innamorarsi di Michela, la sua compagna di banco. Poi era arrivato il terremoto del 1976 e le sue preghiere erano state esaudite: la scuola era stata chiusa e i quaderni erano finiti sotto la credenza, accanto alla scodella di Minou, la gatta siamese di sua nonna, l’unico essere vivente che la tollerasse e che lei tollerasse.

    Le giornate di Ferro si erano trasformate in un allegro peregrinare in mezzo alle tendopoli, che in quei giorni erano sorte in ogni angolo della città, nelle aiuole spartitraffico, nei cortili degli edifici pubblici, nei parcheggi dei supermercati. Le persone che non correvano alcun pericolo alloggiavano dentro enormi tende marroni, piene di comodità, come al campeggio, mentre le persone che erano in pericolo continuavano a rifugiarsi nelle loro case inagibili, sotto le tettoie che minacciavano di crollare da un momento all’altro, incapaci di allontanarsi da un’esistenza psichica che aveva smesso di essere unitaria e si era frantumata per sempre. Anche la vita quotidiana si era frantumata per sempre. Da una parte c’era la tragedia dei paesi distrutti dal sisma e delle centinaia di persone che dovevano ancora essere estratte dalle macerie e dall’altro l’allegria degli accampamenti cittadini, dove Ferro trascorreva le giornate in compagnia degli altri bambini, una grande famiglia che si era trovata dal lato giusto della storia, quello dei sopravvissuti, senza avere fatto nulla perché questo accadesse.

    A ottobre Ferro aveva cominciato la seconda elementare e a novembre era già perdutamente innamorato di Elisabetta, una ragazzina bionda con una bellissima fessura tra gli incisivi, che lui amava molto mentre lei invece detestava e voleva eliminare con l’apparecchio. Ne era scaturita una contesa odontoiatrica che aveva avuto effetti piuttosto negativi sui suoi risultati scolastici, passati da deludenti a molto deludenti per arrivare a pessimi poco prima di Pasqua. In terza elementare era stata la volta di Anna, in quarta di Elena e in quinta di un’altra Elisabetta, un po’ più piccola della prima, una bambina con due grandi occhi azzurri striati di bianco, che sembravano la terra vista dall’Apollo 16. Anche lui aveva cominciato a somigliare a un astronauta dell’Apollo 16. Aveva frequentato le medie fluttuando a molti metri da terra, con gli occhi sbarrati e le parole che non volevano più uscire dalla sua bocca, un silenzio siderale che nemmeno Roberta, la sua nuova compagna di banco, era stata in grado di interrompere, benché fischiettasse le canzoni di Patty Pravo e di Anna Oxa che amava anche lui.

    Era ritornato sulla superficie del pianeta al terzo anno del liceo, quando una nuova professoressa di lettere, una cieca con due tette piccole e appuntite come chiodi conficcati nella parete, gli aveva parlato di Fichte, di Heine, di Hölderlin, ma soprattutto di von Kleist, di cui conosceva La marchesa di O… come se l’avesse scritta lei.

    Ferro era turbato dalle vicende del conte russo che veniva allontanato dalla marchesa di O… senza riuscire a rivelarle il suo segreto, che era lui il padre del bambino che lei portava nel grembo, ma soprattutto era turbato dal comportamento della cieca, che sembrava consapevole del modo con cui lui le fissava le tette, anche se non poteva vederlo, e pareva godere di quella mancanza di reciprocità, lui guardava e lei veniva guardata, lui vedeva e lei non poteva vedere, come se il non vedere fosse all’origine delle relazioni tra gli esseri umani, soprattutto di quelle tra i maschi e le femmine.

    Quando Ferro ritornava da scuola si chiudeva subito nella sua camera, masturbandosi ferocemente. Immaginava la cieca che veniva scopata dal russo, in uno stato di semincoscienza, la schiena inarcata, le spalle frustate dai lunghi capelli castani, come se non fosse l’uccello del conte a martoriare le sue viscere ma un terribile sogno di morte, dove lei lottava con tutte le sue forze per sopravvivere e una mano cupa e feroce cercava di farla soccombere. Mentre la cieca ansimava scuotendo la testa, il bacino che sembrava spezzarsi ad ogni colpo del russo, Ferro soffiava nuvole di vapore sullo specchio della sua camera, come un vulcano un attimo prima dell’eruzione.

    All’esame di maturità aveva ovviamente portato von Kleist ma la cieca si era data malata e al suo posto era venuta una veneta enorme, che faticava a stare seduta sulla seggiola, e lo aveva interrogato sul Ruzante, sul Magagnò, sul Varotari, evitando accuratamente l’Aretino e il Venier, e più lui taceva, non avendo mai sentito parlare di quei poeti, più lei declamava i loro versi in dialetto, a voce sempre più alta, con un tono sempre più stizzito, sovrastando tutti gli altri insegnanti della commissione. Alla fine lo aveva promosso con il minimo dei voti, raccomandandogli di considerare le attività manuali per il suo futuro, l’edilizia, la meccanica o l’agricoltura, perché l’Italia era una repubblica fondata sul lavoro, non sullo studio.

    In quel momento aveva deciso di lasciare per sempre il Friuli, i capezzoli appuntiti della cieca, i nonni che non avevano mai avuto una parola di conforto per lui, le colline che invece lo avevano sempre confortato ma che non gli avevano mai consentito di vedere l’orizzonte, la tomba dei suoi genitori morti molti anni prima, di cui non sapeva nulla, le dicerie che avevano accompagnato la loro scomparsa, di cui invece sapeva tutto, gli improvvisi viaggi in Spagna di suo nonno, i borbottii rancorosi di sua nonna, per ricominciare da capo dall’altro lato della pianura, in un’altra città, a Torino, dove aveva deciso di iscriversi alla facoltà di lettere.

    Dunque, adesso si trattava di stabilire le tappe attraverso le quali il romanticismo di Mickiewicz era diventato quello di Miłosz. Come si era passati dalle Liriche di Losanna del 1839 a La fodera del mondo del 1966.

    Ferro scorse l’elenco che aveva buttato giù nel pomeriggio. Per il momento si trattava solo di domande.

    Per quale ragione il romanticismo europeo non era finito nel ripostiglio della storia ma era sopravvissuto fino alla fine del millennio?

    Quali erano state le virtù atletiche che gli avevano permesso di schivare i colpi del realismo, del decadentismo, dello strutturalismo, dell’esistenzialismo, del decostruttivismo, rimanendo uguale a sé stesso, seppure cambiando pelle?

    Dove aveva trovato la vitalità per sopravvivere alle aggressioni del pensiero moderno, inclusa la scuola di Francoforte, e arrivare immacolato fino a Visegrád?

    Si trattava soltanto di tribalismo?

    Ferro tracciò un cerchio attorno alla parola Visegrád. Era meglio lasciare perdere la politica.

    – Rimaniamo alla letteratura polacca – disse tra sé, come se si rivolgesse all’allievo che gli aveva commissionato il lavoro di ricerca.

    Si trattava di un ragazzo che aveva frequentato il suo corso sul Don Carlos di Schiller e che aveva colto al volo la sua precisazione sulla professionalità con cui era necessario redigere l’elaborato di tesi, prima di sottoporlo al suo giudizio.

    – Cazzo! – esclamò, guardando l’ora sul telefono – le diciannove a trenta!

    Alle venti cominciava la serata al Bum Bum, un locale di Pozzo Strada dove una volta alla settimana cantava cover di Bruce Springsteen, di Johnny Cash, di Pete Seeger, di Willie Nelson, di Ricky Skaggs, di Sera Cahoone, per arrotondare il magro compenso che gli erogava, sempre con un certo ritardo, l’università.

    Spense il computer e corse a vestirsi. Indossò un paio di jeans sdruciti, una camicia dello stesso tessuto e un cinturone di cuoio, tempestato di rettangoli azzurri.

    – Merda! – disse, guardando di nuovo il telefono – non riesco a farmi neanche un bloody mary per schiarirmi la voce!

    In verità ne aveva già bevuti tre nel corso del pomeriggio ma il suo tasso alcolemico non era ancora arrivato al livello che considerava minimo per sentirsi a suo agio con le persone.

    Quando le porte dell’ascensore si chiusero dietro a lui, Ferro pensò che qualcuno avrebbe potuto definire il suo odore stantio, qualcun altro malsano, qualcun altro addirittura caprino, e che sarebbe stato meglio mettere una camicia pulita, lavata un po’ più di recente, se voleva che il pubblico del giovedì, una trentina di spettatori che parlavano fitto fitto tra di loro, lo degnasse perlomeno di uno sguardo. In quel momento la cabina si bloccò al terzo piano e non ci fu verso di farla ripartire, nonostante le manate sulla pulsantiera, mentre le diciannove e quarantacinque diventavano le diciannove e quarantasei e le diciannove e quarantasei diventavano le diciannove e quarantasette. Alle diciannove e cinquanta la puleggia riprese improvvisamente a girare e l’ascensore risalì al quarto piano, dove una donna piccola e nervosa lo attendeva tamburellando sulla grata.

    Arrivò al Bum Bum tutto trafelato, con venti minuti di ritardo, e Giuliano, il proprietario del locale, gli ringhiò di cominciare a cantare, che avrebbe potuto cenare più tardi, sempre che fosse avanzato qualcosa per lui.

    – Mi faresti un pezzo di Cat Stevens? – gli domandò Lara, la studentessa di filosofia che serviva ai tavoli il martedì e il giovedì, un misto tra Courtney Love e Marina Cvetaeva.

    – Che ne sai tu di Cat Stevens? – replicò lui, estraendo la Stratocaster dalla custodia e collegandola a un grosso amplificatore argentato.

    – Mia mamma adorava le sue canzoni, mille anni fa – gli rispose la ragazza – probabilmente le ricordava mio padre, o qualche altro tizio di cui si era innamorata prima di mio padre. Veramente non lo so chi le ricordava. Non so nemmeno se si fosse innamorata di qualcuno prima di mio padre. Ma sono certa che la faceva pensare a una persona speciale. Forse qualcuno che aveva conosciuto in comunità.

    – In comunità?

    Lei appoggiò il vassoio sul tavolo, lo fissò negli occhi e gli disse di non farsi strane idee su sua madre.

    – Mica in una comunità di tossici! – esclamò, riprendendo il vassoio e avviandosi verso la cucina, senza spiegargli di quale comunità stesse parlando.

    Ferro pensò alla comunità di Laurel Canyon a Holly­wood, dove era nata la West Coast, poi alla comunità di Maharishi Mahesh, dove i Beatles avevano smesso di essere i Beatles e i Doors avevano iniziato a essere i Doors, poi a quella che girava attorno al Cbgb a Manhattan, dove erano nati i Blondie, i Ramones, i Dead Boys, i Talking Heads, gli Heartbreakers.

    Ma cosa c’entravano quei luoghi con la madre di Lara?

    – Dobbiamo aspettare fino alla prossima estate per sentirti cantare? – abbaiò di nuovo Giuliano.

    Allora Ferro pensò che avrebbe dato qualsiasi cosa per un bloody mary ghiacciato, accese il microfono e attaccò « Father and Son ».

    Sua nonna pensava che la rivoluzione fascista prima o poi si sarebbe affermata in Italia, in Europa, nel mondo, era impossibile che non lo facesse, era nell’ordine delle cose. Soltanto l’assoluta mancanza di coscienza civica avrebbe potuto bloccare quel processo, un processo che comunque si sarebbe rimesso in moto, anche se la stupidità degli italiani gli avesse messo i bastoni tra le ruote, e che avrebbe liberato il mondo sia dal giogo del capitalismo industriale che da quello del comunismo illiberale. Non aveva importanza se nel frattempo c’erano stati alcuni incidenti di percorso, la seconda guerra mondiale, sessanta milioni di morti, la shoah, quello che contava era la settimana lavorativa di quaranta ore, le bonifiche dell’agro pontino, della maremma toscana, della bassa padana, l’assistenza ospedaliera ai poveri, le centrali idroelettriche, e tutte le altre cose che erano state fatte nel ventennio e che adesso venivano date per scontate, come se fossero piovute dal cielo. D’altro canto, la violenza era o non era la levatrice della storia? O bisognava passare il tempo a discutere?

    Erano concetti che Antonia gli aveva ripetuto migliaia di volte. La purezza di un’idea che attraverso la forza diventa realtà. La giustizia dell’uomo come unica arma contro il disordine del mondo. La felicità come condizione del soggetto liberato dalla fatica. Glielo aveva spiegato mentre allineava le foto delle campagne belliche sul tavolo del salotto, mentre spolverava l’orologio imperiale che si trovava nel corridoio, mentre appendeva i gagliardetti delle giovani italiane nella stanza degli ospiti.

    Quando era piccolo, la virilità di sua nonna, che

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