Il gioco di Alice
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Anteprima del libro
Il gioco di Alice - Claudia Notarrigo
MAGNOLIA
Narrativa
Claudia Notarrigo
IL GIOCO DI ALICE
Il gioco di Alice
Claudia Notarrigo
© 2018 – Il Seme Bianco
ISBN 978-88-358-0725-4
Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.
I edizione maggio 2018
info@ilsemebianco.it
www.ilsemebianco.it
Il Seme Bianco è un marchio distribuito da
Lit Edizioni Srl
Sede operativa: via Isonzo 34, 00198 Roma
A mia madre
Indice
Il gioco di Alice
11 agosto 1984
«Negli occhi dei gatti ci sono le mappe, le vedi?».
Vedevo le cose nelle cose, non so quando ebbe inizio d’altronde, forse il giorno in cui spiegai a mia sorella la teoria delle ragnatele auree negli occhi del gatto.
«Mappe, le vedi? Ne sono certa, quelle rigature segnano la mappatura della sua vita. Nell’occhio destro c’è il luogo dove il gatto è nato. In quello di sinistra i luoghi della sua esistenza, del suo vagabondare».
Rimanemmo affascinate e ipnotizzate da quelle tracce di viaggi, immaginando nazioni lontane e fantasticando sui viaggi del gatto.
Qualche giorno dopo mia sorella si arrabbiò moltissimo con me. Aveva raccontato alla maestra la mia teoria delle mappe e la maestra le aveva detto che non era vero.
Lei venne da me furiosa. Si sentiva tradita, pensava fosse tutta una colossale bugia.
Io non le avevo mentito: negli occhi del gatto vedevo davvero le mappe.
E il viaggio di una vita.
❧
Erano le cose che mi si rivelavano nelle cose, io non mi inventavo nulla. Una volta mi misi in piedi sul banco durante l’intervallo e spiegai ai miei compagni delle elementari la riproduzione umana.
«Il corpo dell’essere umano femmina, incredibile prodigio della natura, all’età di ventiquattro anni precisi, fa figli in modo del tutto naturale e autonomo. Semplicemente li fa. Naturalmente. Come noi a sei anni abbiamo perso il primo dentino, così le femmine adulte di ventiquattro anni fanno figli».
La prova tangibile? Sia mia madre che mia nonna e addirittura la mia bisnonna, oltre non ero andata perché credevo fosse la preistoria, avevano tutte partorito a ventiquattro anni.
Quando terminai, i miei compagni erano tutti senza fiato per quell’eccezionale scoperta, ma il mio momento di gloria finì quasi subito. La maestra mi vide e venne a tirarmi giù dal banco prendendomi per un orecchio e strillando che dicevo sciocchezze. Dovette poi tenere una lezione per smontare le mie teorie sull’età e sul fatto che fosse una funzione naturale e svolta in totale autonomia: insomma serviva l’aiuto di un papà.
I miei compagni mi fischiarono.
Qualcuno gridò: «Bugiarda!».
Io restai lì, abbastanza perplessa. Non capivo cosa intendesse la maestra con quell’affermazione sull’aiuto dei papà. Io mi ricordavo perfettamente quello che era successo due anni prima. Mia madre era rimasta incinta di Anita, mia sorella più piccola e la pancia era cresciuta solo a lei. Mio padre era rimasto esattamente come prima.
Ne posso raccontare a centinaia di questi episodi.
La realtà per me era perfettamente chiara nel suo manifestarsi ma a quanto pare non mi credeva nessuno.
Passavo ore e ore sotto il tavolo di mia nonna. Negli intarsi del legno immaginavo case di gnomi, intere città. In campagna giocavo con le pietre, ci vedevo visi di bambole appena accennati e passavo il mio tempo libero a levigarle con altre pietre, per definire quello che già c’era, che io vedevo e che dovevo rendere visibile anche agli altri.
Feci un presepio intero in questo modo. Mi sembrava vivente per quanto era perfetto. Quando mio padre lo guardò mi disse che vedeva solo un mucchio di pietre.
Come gli altri facessero a non vedere ciò che per me risultava perfettamente chiaro era un grande mistero.
Resta che, quando successe il fatto del corpo, non mi credette nessuno.
Dato che a causa di queste storie avevo perso di credibilità, i miei compagni non si facevano vedere in giro con me. Mi isolavano.
Una mattina, durante l’ora di ricreazione, me ne stavo infatti da sola nel cortile della scuola sotto l’albero, a guardare le formiche, osservandole nel loro operoso andirivieni. Dal formicaio alla cima dell’albero formavano due lunghe colonne, una andava, l’altra veniva. A ogni incontro pareva si scambiassero una specie di effusione, sembrava un bacio.
Non capivo cosa stessero facendo.
«Si stanno forse salutando?», mi chiesi.
Mentre mi scervellavo su una possibile comunicazione fra formiche notai qualcosa con la coda dell’occhio.
La botola della cantina che si trova nel lato ovest del cortile si chiuse di scatto, per poi risollevarsi e riabbassarsi, mossa dal vento. Stranamente non era più inchiodata.
La mia scuola è parte di una costruzione che, almeno duecento anni fa, era un forte militare.
Nel cortile ci sono ancora i portici in pietra e sotto di questi, delle botole, che si aprono su depositi che penso, un tempo, custodissero i viveri o le armi del forte.
Negli anni Sessanta, tutta la struttura fu messa in sicurezza e le botole vennero sigillate, lasciando però i coperchi originali. Ma adesso, nel bel mezzo degli anni Ottanta, si era deciso di tenere a disposizione almeno quella del lato ovest. Naturalmente era comunque inaccessibile per via di un grosso lucchetto, ma pochi mesi fa il coperchio sotto il peso marcio degli anni era crollato.
In attesa di riceverne uno nuovo, in ferro, dal Comune, il buco era stato tappato con una protezione di compensato.
Ma noi bambini, non andavamo mai nel lato ovest del cortile. Non era mai soleggiato, era freddo e umido e ci faceva veramente paura.
Dato che nessuno usava quei depositi, era cresciuta tutto intorno alle botole una folta vegetazione.
Si sentivano sempre dei rumori provenire da lì, come fruscii di foglie. Altra cosa stranissima, spesso sentivamo in mezzo a tutta quell’intricata vegetazione un verso lugubre e molto sinistro.
Faceva venire i brividi.
La maestra ci aveva spiegato che era il verso di un uccello, ma insomma, non si poteva mai sapere.
Inoltre, Anna della terza B giurava e spergiurava di aver visto un topo grande quanto un gatto che, seduto su una delle botole, la fissava con occhi rossi e cattivi.
Nessuno aveva più avuto il coraggio di avvicinarsi.
Io fantasticavo spesso sul regno dei topi sicuramente situato all’interno di quei cunicoli, il cui re, alto almeno due metri, divorava chiunque si fosse avventurato presso la sua dimora senza il suo consenso.
Ma insomma, senza tirarla troppo per le lunghe, quella mattina sentii quel rumore e mi voltai di scatto.
A dire il vero sobbalzando un po’. Già mi vedevo il re dei topi aprire la botola, uscire e staccarmi la testa con un solo morso.
Con quel pensiero in testa neanche mi accorsi che le mie gambe si erano alzate autonomamente e mi avevano portato di corsa in cortile in mezzo al gioco degli altri bambini.
Stavo infatti per prendermi un urlaccio da questi per averli interrotti, quando la campanella di fine ricreazione mi salvò. La maestra ci disse di rientrare e noi tornammo in classe. I miei compagni rossi e sudati per i loro giochi, e io bianca, quasi grigia, per lo spavento che mi ero appena presa.
Dovevo essere proprio un bello spettacolo.
Per tutto il giorno non riuscii a levarmi dalla testa quanto successo.
Un dato di fatto era che la copertura che fungeva da coperchio prima di oggi era inchiodata all’apertura.
Questo lo so perché tre giorni prima, in una prova di coraggio, ci eravamo spinti su fin sopra la botola. Devo dire che vedendola inchiodata avevamo tutti tirato un sospiro di sollievo.
Eppure, quella mattina, avrei giurato di averla vista palesemente socchiusa.
Dunque, la botola era stata aperta.
«Ma da chi? Dal re dei topi?».
La domanda continuava a frullarmi in testa anche se, questa versione dei fatti, sembrava improbabile persino a me.
Il giorno dopo, la curiosità di sapere se la botola fosse stata aperta e quali segreti nascondesse, ormai, mi stava divorando.
Avevo immaginato i più incredibili scenari ma nessuno di questi mi convinceva. Dovevo vedere con i miei occhi.
Ma il coraggio di andare fino a lì, da sola proprio mi mancava. Alla fine della seconda ora, la maestra ci disse che doveva assentarsi un attimo.
Chiamò Roberto, il pirata
, alla cattedra e disse che nei cinque minuti della sua assenza doveva fare da capoclasse e controllare che noi altri stessimo seduti e in silenzio.
Lo chiamavamo il pirata
perché portava un cerotto per correggere il suo occhio strabico. A noi sembrava un pirata.
A ogni modo, la maestra uscì e Roberto si sedette alla cattedra sogghignando per quel suo nuovo e inaspettato potere.
Io mi feci coraggio e ne approfittai per lanciare la mia bomba: «Qualcuno ha aperto la botola del lato ovest!».
Dopo un iniziale silenzio, un coro di voci esplose contro di me, tra cui quella di Roberto che ci intimava di stare zitti.
«Bugiarda!», gridava qualcuno.
«Ci siamo stati tre giorni fa ed era inchiodata», disse un altro.
«Racconti sempre le tue solite storie».
«Falla finita!».
Quando si calmarono un attimo io rilanciai: «Dobbiamo andare a vedere. Ieri ero seduta sotto l’albero con i fiori rosa, quello in prossimità del lato ovest. Ho visto chiaramente la botola che sbatacchiava. Non era inchiodata. Il vento la muoveva. L’hanno aperta. Ci è entrato qualcuno vi dico».
Per un attimo sentii la loro diffidenza nei miei confronti incrinarsi. Ma fu giusto un attimo, perché subito dopo si sentì la voce di quel gradasso di Gustavo sghignazzare: «Sì, era di certo il re dei topi! Ahahaha!».
Questa cosa del re dei topi aveva definitivamente stroncato la mia reputazione. Quando