Corti di mare: Racconti e Miti
By aa. vv.
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Si entra nel mare della Storia con la strage sulla spiaggia di Vergarolla, in Istria, e con il ricordo della traversata su una “nave bianca”, dall’Africa all’Italia, durante la Seconda Guerra Mondiale.
A cura di Graziella Atzori
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Corti di mare - aa. vv.
ATZORI
CULTURA MARINA
L’umanità ha sempre sentito il bisogno di raccontarsi, ma le modalità con cui ha tramandato le sue conoscenze si sono evolute nel tempo. Mentre ora usiamo il linguaggio, sia parlato che scritto, prima erano le immagini a raccontare la storia dell’umanità, e il mare fin da subito si è imposto come prima rappresentazione immaginativa.
Le eterne immagini e le storie mitiche sono semplici e immensamente profonde: un’isola, un pesce, un viaggio per mare, un’avventura nei territori sconosciuti… e gli uomini del mare diventano l’esempio del coraggio e dell’eroismo.
Ulisse e Dante: l’oceano della conoscenza
Dante Alighieri nella sua Commedia racconta la storia dell’eroe Ulisse, il grande navigatore, simbolo di ogni sconfinato desiderio di esplorazione. Ulisse impiegò dieci anni prima di poter tornare in patria, l’amata e vagheggiata Itaca, per riabbracciare Penelope e ridiventare un re sedentario, soddisfatto del suo mondo quotidiano. Ma il mare, la sua immensità, il bisogno di conoscere e di indagare l’avevano stregato per sempre.
All’epoca di Dante le colonne d’Ercole, identificate con l’attuale Stretto di Gibilterra, costituivano il limite del mondo conosciuto. Cosa si celava al di là di esse? Nei versi di Dante vediamo Ulisse, anziano ma ricercatore inesausto, ripartire verso l’ignoto e oltrepassare le colonne
con la nostalgia delle onde nell’anima. L’avventura temeraria costerà la vita all’eroe e a tutto il suo equipaggio.
Il rischio fa parte di ogni impresa e conferisce valore alla nostra sete di conoscenza, di cui il viaggio per mare è l’immagine rappresentativa. Dante sottolinea con forza lo scopo della vita umana: inseguire il sapere esercitando la virtù, intesa come maestria, capacità e saper fare.
Né dolcezza di figlio, né la pieta
Del vecchio padre, né ‘l debito amore
Lo qual dovea Penelopé far lieta,
Vincer potero dentro a me l’ardore
Ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
E de li vizi umani e del valore;
Ma misi me per l’alto mare aperto
Sol con un legno e con quella compagna
Picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
Fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
E l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ‘compagni eravam vecchi e tardi
Quando venimmo a quella foce stretta
Dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
Acciò che l’uom più oltre non si metta:
Da la man destra mi lasciai Sibilia,
Da l’altra già m’avea lasciata Setta.
O frati
, dissi "che per cento milia
Perigli siete giunti a l’occidente,
A questa tanto picciola vigilia
D’i nostri sensi ch’è del rimanente,
Non vogliate negar l’esperienza,
Di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec’io sì aguti,
Con questa orazion picciola, al cammino,
Che a pena poscia li avrei ritenuti;
E volta nostra poppa nel mattino,
De’ remi facemmo ali al folle volo,
Sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
Vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
Lo lume era di sotto da la luna,
Poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
Quando n’apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
Ché de la nova terra un turbo nacque,
E percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
A la quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, com’altrui piacque,
Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
DANTE ALIGHIERI
Inferno XXVI, 94-142
Dante pone Ulisse all’Inferno non per orgoglio e bisogno luciferino di conoscenza, ma per aver commesso il peccato di fraudolenza. Data l’astuzia del famoso cavallo di Troia, il poeta colloca l’eroe tra i cattivi consiglieri. Atteggiamento prudente e comprensibilissimo il suo, visti i tempi non certo favorevoli al libero pensiero ed il pericolo, sempre molto concreto, di finire bruciati come eresiarchi o anticristiani se un pagano fosse stato trasportato in paradiso. Ma come poter escludere un personaggio-mito così assoluto dal suo poema? Un uomo ricco di saggezza, di riflessione e di tensione conoscitiva, vissuto in un mondo arcaico governato dal Fato. Escluderlo sarebbe stato un sacrilegio
. Ed ecco Ulisse bruciare di passione giocoforza tra i dannati, ma risplendente di luce immortale. Tramite le parole dell’eterno viaggiatore Dante ricorda la nostra «semenza». È un seme che dobbiamo far germogliare coltivando la piantina fragile e via via più forte e rigogliosa del sapere, ben sapendo che mai riusciremo a rivelare l’arcano della vita, né attraverso la scienza, né con il pensiero, men che meno attraverso dogmi che, invece di allargare, riducono l’orizzonte della nostra anima.
L’arte è rivelazione, conduce verso la soglia dell’ignoto, poi la decisione del grande volo spetta a ognuno di noi, attraverso un atto di volontà. Probabilmente tutti noi abbiamo sperimentato, almeno una volta nella vita, la sensazione di pienezza e totalità, come un’epifania di Joyce, dopo l’attraversamento di un limite. Oltrepassare le colonne d’Ercole, buttarsi nelle braccia dell’ignoto con un «folle volo» soddisfa il piacere inesausto della scoperta. Senza questo desiderio di conoscenza, ci troveremmo ancora all’età del pleistocene, agli albori dell’homo sapiens.
Pur tra i peccatori, l’Ulisse dantesco sommerso nell’oceano, paradossalmente, diviene un’icona santa. Andare oltre, sempre, nell’ideazione e nell’azione, equivale a una preghiera. «Seguir virtute e canoscenza» assurge a imperativo morale, affine al sutra del cuore della perfezione della saggezza diffuso in India, Tibet, Cina, Giappone, Vietnam, che in sanscrito recita: «Om gate gate, paragate, parasamgate, bodhi, svaha» e che tradotto suona: così vai, vai oltre, completamente oltre, benedetta l’illuminazione per sempre
.
Ulisse e i suoi compagni sommersi sono immersi in un oceano di luce. Non dannati ma divinizzati nell’apotheosis, (apo theos, presso Dio
). «Voi siete dei» (Giov. 10, 31-42), è scritto nel Vangelo di Giovanni, il più gnostico dei quattro testi canonici.
GRAZIELLA ATZORI
L’Ulisse
di Saba tra mito e testamento spirituale
Umberto Saba, nonostante fosse tenacemente legato alla poetica della quotidianità, prende ripetutamente spunto dai racconti mitologici e in particolar modo dalla figura di Ulisse, la quale appare ben cinque volte nella produzione del poeta. Tuttavia è solo nella lirica conclusiva della sezione Mediterranee, pubblicata da Mondadori nel 1946 come appendice («uno smilzo fascicolo» lo definiva l’autore stesso) al corpus del Canzoniere del 1945, che Saba approda al fulcro del mito. Intitolata per l’appunto Ulisse, la poesia enuclea con forza il tema della navigazione per mare come metafora della conoscenza, anche se l’identificazione Saba/Ulisse fonde la ricerca inesausta della verità con l’intima esperienza esistenziale.
Saba riprende dall’Ulisse dantesco i temi del viaggio compiuto in vecchiaia e quello del non ritorno
(sottinteso in quell’essere sospinto «al largo», per sempre lontano dalla costa). Al centro della riflessione è ancora la conoscenza come atto estremo di coraggio e di libertà, condizione non negoziabile dell’essere uomo
.
Ulisse
Nella mia giovanezza ho navigato lungo
le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’ alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore¹
L’incipit della poesia di Saba «Nella mia giovanezza ho navigato / lungo le coste dalmate» si riferisce alla sua esperienza di mozzo su un mercantile. La poesia pone molto l’attenzione sul paesaggio marino, del quale Saba coglie la cristallina bellezza e il suo mutare in rapporto alle ore del giorno e alle fasi della marea: isolotti che prima appaiono al sole «a fior d’onda» vengono sommersi (annullati
) dalla notte. Tuttavia anche una semplice espressione come «belli come smeraldi» riferita agli isolotti si carica di una particolare forza icastica, suggerendo non solo la bellezza incontaminata della natura ma, di riflesso, anche la purezza della gioventù che con quella natura si fonde in un empito gioioso di vita. Persino il pericolo, suggerito da termini quali «scivolosi», «sbandavano» e «insidia», è percepito come una sfida inebriante anziché costituire un reale impedimento alla navigazione. Così come lo spingersi delle vele «al largo», lungi dall’essere solo un’esperta manovra per evitare l’insidia di navigare sotto costa, è un abbandonarsi al richiamo dell’avventura in mare aperto.
L’incantamento della memoria espresso nel vitalismo
descrittivo di questa prima parte è bruscamente
interrotto dall’asserzione apodittica «Oggi il mio regno / è quella terra di nessuno», che introduce alla condizione della sua vecchiaia, nucleo meditativo della seconda parte. «Il mio regno» è il luogo in cui ci si sente a proprio agio, più intimamente se stessi