La memoria della colpa
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Il sonno di una notte ha spazzato via vent’anni della sua vita, compreso il ricordo della moglie Lory. Solo il fratello, la madre e pochi altri, vengono risparmiati dalla sua amnesia.
I primi accertamenti medici rivelano che la memoria di Arthur si è arrestata in un momento preciso della sua vita: il 1992. In quell’anno, si era recato in vacanza con i suoi due migliori amici, Trevor e Tim, ma lui era stato l’unico a tornare a casa.
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La memoria della colpa - Antonello Torzillo
Ringraziamenti
2012, aprile
Arthur allungò la mano, la sveglia cadde si ruppe e smise di suonare. La luce filtrava, attraverso le tende, creando una polverosa sospensione. Con la faccia schiacciata sul cuscino, Arthur mugugnò parole incomprensibili. Aprì gli occhi, ma tutto gli risultava sfocato.
Appoggiò i piedi a terra: il pavimento era freddo. Con la voce ancora impastata dal sonno chiese, urlando, alla madre che fine avesse fatto il tappeto. Nessuna risposta, oltre la porta chiusa. Cercò le ciabatte, allungando la gamba con il piede teso. Non trovando nulla, abbassò lo sguardo e, con sua sorpresa, vide un pavimento che non riconosceva. Non lo aveva mai visto prima. Rimase a fissarlo con aria idiota e, mantenendo la stessa espressione, girando la testa, ebbe conferma di non trovarsi a casa sua. Il materasso matrimoniale l’armadio il comò le pareti grigio scuro, quel tocco da rivista di design di interni… quella non era la sua camera. Cercò in fretta e furia i vestiti. Appoggiati su una poltrona ne trovò alcuni, ma non erano i suoi. Aprì l’armadio: abiti da donna dividevano lo spazio con camicie e pantaloni da uomo; sotto, scarpe varie. Non capiva come fosse arrivato lì. Non ricordava di aver bevuto o preso qualcosa la sera precedente.
«Se c’entra Trevor in questa cazzata, appena lo vedo lo smonto di botte».
Si infilò quei pantaloni e quella camicia buttati sulla poltrona. Erano della sua taglia. Stessa cosa per le scarpe. Doveva andarsene. Appoggiò un orecchio alla porta cercando di carpire qualche suono dall’esterno. Silenzio. Girò la maniglia con tutta la cautela possibile, evitando rumori e cigolii.
C’era una rampa di scale che scendeva; sulla destra, un corridoio portava ad altre stanze; a sinistra la porta semiaperta di un bagno. Un istante prima di mettere un piede nel corridoio, vide passare in fondo alle scale una donna. Riparò nella stanza da letto. «Merda!», disse sotto voce.
A quel punto, non gli rimaneva che optare per la finestra.
Avrebbe tentato un salto, diversamente, sarebbe sceso per il tubo della grondaia. Scostò le tende per assicurarsi di non incontrare ostacoli una volta fuori: ci mancava solo lo scambiassero per un ladro. Si guardò intorno per accertarsi non stesse lasciando nulla di compromettente in giro. Alle pareti foto: un uomo e la donna vista poco prima. Quell’uomo sembrava lui o un suo gemello più maturo
. Le passò in rassegna a una a una. Cominciava a preoccuparsi: tutto sembrava troppo strano e macchinoso. L’agitazione si tramutò in nervosismo. Sul comò un settimanale che riportava in copertina la data: aprile 2012. Spalancò la porta della camera urlando: «Che razza di scherzo è questo? Cosa cazzo sta succedendo?».
Dal piano inferiore sentì una voce dire: «Amore, cosa succede? Perché urli?».
La donna vista per le scale gli venne incontro.
«Amore?», pensò lui. «Ma di cosa sta parlando? Amore, chi?».
Stava scendendo per le scale in tutta fretta per dirigersi verso l’uscita, quando intravide la sua immagine riflessa nello specchio, posto a metà rampa. Si fermò di colpo, quello che gli era parso di intravedere con la coda dell’occhio era terribile e terribilmente reale: i capelli spruzzati di grigio, il volto maturo: era lui l’uomo delle fotografie. Si fissò per qualche secondo, spostò lo sguardo sulla donna, poi ancora allo specchio. Farfugliò qualcosa e, di peso, cadde a terra.
Riaprì gli occhi. Si trovava ancora lì, sdraiato nella stessa camera. Il panico crebbe mischiandosi lentamente alla confusione. Si mise a sedere sul letto, la testa gli girava. Da dietro la porta sentiva arrivare il borbottio di due persone che, anche se tentavano in tutti i modi di non farsi sentire, non riuscivano a nascondere l’agitazione. Una delle due voci era femminile, probabilmente della stessa donna che aveva visto in casa. La seconda, certamente maschile, gli sembrava conosciuta. Si concentrò per capire chi fossero. Sentì distintamente un paio di volte l’uomo parlare di lui chiamandolo Arthy, e solo una persona lo chiamava così: Frank, suo fratello.
Frank Collins era più grande di suo fratello di cinque anni. Era stato uno sportivo al college diventato poi un talent scout. La sua carriera nel mondo del football si interruppe dopo la morte di loro padre. Si prese cura della madre e di Arthy facendo vari lavori dopo la scuola. Un giorno, il suo vecchio allenatore lo mise in contatto con un certo Hoggins, che lo portò in giro per il paese come assistente in cerca di talenti. Col suo stipendio e quello della madre, riuscivano a sbarcare il lunario senza problemi e, grazie a lui, Arthur poté andare al college.
Quasi in preda all’euforia, Arthur si diresse verso la porta spalancandola, con una foga tale, da spaventare i due nel corridoio. «Frank», urlò, «cosa sta…».
Sul volto di Arthur una smorfia di terrore: il fratello, come lui, era invecchiato. Il volto era segnato dalle rughe e il colore originale dei capelli si era quasi del tutto spento tra le tonalità del grigio.
«Non è possibile», disse Arthur, tornando nella stanza da cui era appena uscito.
Frank lo seguì, e mentre Arthur si accasciava a terra con le mani sul volto, fece altrettanto dicendo: «Arthy, cosa succede? Lory, mi ha chiamato preoccupata: ha detto che ti sei messo a gridare e poi sei svenuto. Non stai bene? Ti prego, dimmi cosa succede, altrimenti non posso aiutarti», disse, provando a farsi guardare in faccia dal fratello.
«Ho chiamato il dottor Donovan», disse Lory da fuori, «arriverà a breve», concluse.
«Il dottore ci darà una mano, Arthur. Ti farà stare meglio, te lo prometto».
«Chi è quella donna?», disse a bassa voce, per non farsi sentire, «Di chi è questa casa? Cosa ci faccio qui?».
«Ma come chi è? È Lory. Non la riconosci?», chiese Frank, prendendo le mani del fratello e togliendogliele dalla faccia.
Non fece in tempo a dire altro che suonarono alla porta. Lory scese le scale di corsa per andare ad aprire. L’uomo che varcò la soglia di casa era il dottor Philip Donovan: un uomo sulla settantina con un’aria amichevole.
Il dottore conosceva i fratelli Collins da una vita. Era diventato il loro medico di famiglia più o meno alla fine degli anni ottanta.
«Buongiorno. Dove si trova il malato?».
Esordì con la sua solita frase divenuta ormai un marchio di fabbrica.
«Al piano superiore, con Frank», disse Lory, prendendo il cappotto del medico e indicando con il dito la scala. «Ci aiuti, la prego. Sono molto preoccupata».
«Tranquilla. Ora vediamo cosa è successo. Non ti agitare», rispose il medico, tirandosi su per le scale aggrappato al corrimano.
Di sopra, i due fratelli, seduti per terra, erano intenti a conversare a bassa voce.
«Cosa fate a terra?», chiese il dottore, «Non riesci ad alzarti, Arthur? Se preferisci, rimani dove sei», concluse, abbassandosi a sua volta.
Frank lo fermò: sarebbe stato possibile fare la visita senza tutti quegli sforzi; sollevò prima il medico e poi il fratello, che nel frattempo rimase in silenzio. Donovan lo fece sedere sul letto e chiese a Frank di farsi da parte. Arthur lo guardava senza dire nulla: anche il medico, come Frank, risultava essere più vecchio di quanto ricordasse. Sembrava che i due volti, fossero ricoperti da una maschera, come nei film, dove invecchiano gli attori con parrucche e rughe posticce.
Donovan iniziò la visita. In prima battuta misurò tutti i parametri di base: pressione, riflessi e reazione della pupilla. Cercò evidenti segni di qualche trauma come un colpo alla testa ma tutto era nella norma. Avvicinò la sedia al bordo del letto e chiese gentilmente a Frank di lasciare la stanza: «Arthur, te la senti di rispondere a qualche domanda?».
Lui annuì.
«Raccontami cos’è successo, figliolo, cosa ti ha turbato così tanto da farti addirittura perdere conoscenza?», chiese il dottore, tirando fuori dalla sua borsa di pelle marrone scuro, penna e blocco su cui appuntare più particolari possibili.
«Ieri… ieri sera, sono andato a dormire nel mio letto, a casa di mia madre. Ero tornato dal bar, il Joker. Era una serata fiacca. Non c’era nessuno dei miei amici. Solo le solite facce. Verso l’una mi sono incamminato verso casa», disse con voce titubante, come se iniziasse a mettere in dubbio le parole che aveva appena pronunciato.
«Sai dove ti trovi adesso?».
«Non so né dove sono, né chi sia quella donna», rispose appoggiando una mano alla testa. «Dottore, sono andato a letto che era il dieci luglio 1992 e mi risveglio nel 2012», disse, sventolando la rivista trovata poco prima, poi continuò: «Frank è invecchiato, lei è invecchiato», fece una pausa e toccandosi il volto.
«Io, sono vecchio. Cosa diavolo è successo? Sono davvero passati vent’anni?».
Donovan gli si avvicinò appoggiandogli una mano sulla spalla nel tentativo di consolarlo: «Capisco il tuo turbamento Arthur. Io, purtroppo, non posso aiutarti come vorrei in questo momento, ma so chi può farlo. Ho un caro amico, che tratta casi come il tuo. Lascerò il suo indirizzo a Frank prima di andare. Ma vorrei che aspettaste domani prima di chiamarlo: spesso questi disturbi sono passeggeri. Non sarebbe la prima volta che scompaiano nel giro di qualche ora».
Mentre parlava scrisse nome e numero di telefono su una pagina del blocco per poi strapparla e appoggiarla sul comodino. Poi continuò dicendo: «Trovo che sia corretto però, rispondere alle domande a cui posso dare una risposta ora. Mi raccomando, non ti agitare e se vuoi fermarti ci fermeremo: non ci sono problemi, ma soprattutto, non abbiamo fretta».
Arthur fece cenno di voler procedere.
«Questa è casa tua. Siamo in città; ti sei trasferito qui da qualche anno, ormai».
Arthur si alzò in piedi e ondeggiando lentamente la testa a destra e a sinistra ripeteva a bassa voce: «Non ci posso credere… … non ci posso credere».
Si fermò davanti alla finestra fissandola come se volesse sfondarla per scappare il più in fretta possibile.
«La donna che c’è in casa, è la mia ragazza?».
«È tua moglie, vedi? Porti la fede», disse Donovan con voce pacata.
Arthur si guardò le mani, vide l’anello. Nel caos non se ne era accorto.
«Abbiamo figli?», chiese.
«No».
«Mia madre?», chiese allarmato. «Non ditemi che…».
«Assolutamente no», intervenne il medico, immaginando l’intera domanda: «Sta benissimo. Ed è un po’ più anziana di come te la ricordi».
Al piano di sotto attendevano in silenzio la conclusione della visita. Frank, faceva zapping senza prestare attenzione a ciò che gli passava davanti agli occhi; Lory, sorseggiava una tazza di tè ormai fredda, seduta sul divano, con i gomiti appoggiati alle ginocchia come fosse pronta a scattare non appena la porta della camera si fosse aperta.
«Non si ricorda di me», disse con la voce rotta da un principio di pianto. «Mi ha guardata come fossi una sconosciuta. Me ne sono accorta subito, alla prima occhiata», aggiunse fissando la tazza.
Frank spense il televisore e le si sedette accanto: «Non so cosa dirti Lory, ma sono certo che Donovan ci potrà aiutare. Vedrai che andrà tutto bene».
Quando il dottore scese le scale, i due si alzarono in piedi contemporaneamente.
«Signori: da quel che posso vedere, Arthur soffre di una forma di amnesia. Non posso giudicarne la gravità, sarà quindi necessario qualche approfondimento», poi aggiunse: «Vorrei sapere da voi due se ultimamente è successo qualcosa che può averlo turbato, se ha avuto comportamenti strani».
Lory rispose di no. Quando si erano coricati la sera prima, il marito stava bene. Disse che nell’ultimo periodo era sotto pressione per alcuni progetti e questo lo rendeva più nervoso del solito, ma non ricordava ci fossero stati cambiamenti evidenti nel suo modo di fare. Anche Frank confermò a sua volta che tutto sembrava nella norma.
Il dottore consegnò loro il biglietto con il numero dello specialista, pregando di non attendere oltre la giornata successiva per interpellarlo. Era meglio non sottovalutare la situazione, anche se poteva essere un nonnulla causato dallo stress. Prescrisse delle pastiglie da somministrargli quanto prima, per tenerlo calmo e rilassato e, infilandosi il cappotto, disse: «Se ci fosse bisogno, non esitate a chiamarmi. Mi raccomando, Frank: se fossi in te aspetterei domani per avvisare tua madre. Dio voglia che tutto si risolva con qualche tranquillante e una bella dormita. Tenetelo d’occhio e non fatelo agitare più di