Vita a caso
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Vita a caso - Lidia Falzone
drogati
.
Gli anni ’80
Sono qui, imbambolata a rivivere i miei anni ’80 come di fronte a quelle scene di film in cui i personaggi stanno per morire e gli sceneggiatori gli fanno passare davanti tutta la loro vita.
Faccio un passo indietro. Torno al mio primo ricordo d’infanzia: lo sbarco sulla Luna commentato da Tito Stagno. Io in braccio a mia madre e le poltrone rosse del tinello (il salotto era ancora di là da venire), il caldo, le zanzare, il profumo del prato tagliato, le voci in cortile. Poi la musica è entrata nella mia vita attraverso una radio gracchiante e non ben sintonizzata, attraverso le musicassette in automobile, attraverso un mangiacassette rosso di plastica: se l’avessimo tenuto probabilmente ora avrebbe un valore, ma si era negli anni Settanta, il periodo in cui le cose si potevano buttare perché erano vecchie; e per la prima volta anche la classe operaia poteva buttare le cose usate e comperarne di nuove, poiché non esisteva, all’epoca, il concetto di vintage
.
Gli anni Settanta li ricordo vagamente, ero piccola, per cui mi devo rifare a quanto mi hanno raccontato i miei nonni, i miei genitori, o i vari parenti che si ricordavano che carattere di merda avessi. Mangiavo solo in automobile, non dormivo mai ed ero già un animo inquieto. E la testa sempre fra le nuvole.
Ma questo video: diamine! È passata una vita e cosa ho combinato? Nulla, un cazzo. Eppure, mi passano davanti miliardi di cose fatte, di errori, di momenti meravigliosi. Ma un senso spaventoso di vuoto, una voragine si apre dentro di me.
A proposito, sono nata in un piccolo paese di provincia, poi divenuto paesotto, ora città, nella parte centrale del profondo Nord, a due passi dalla Svizzera, per cui, per me, andare all’estero era un fatto quotidiano, forse meglio dire settimanale.
E quello sbarco sulla Luna: un’angoscia. L’ho sempre trovato assolutamente angosciante. Persino ora non riesco a vedere film in cui ci sono astronauti. La permanenza di una nostra astronauta su una stazione spaziale mi ha trasmesso un profondo senso di inquietudine. Ho l’astronauta fobia
: mi fanno paura le tute da astronauta. Ne avevo vista una da vicino a Monaco di Baviera, credo! Era al Museo della Scienza e della Tecnica ed è stato un incubo – vedi che qualcosa ho combinato in questa vita? Sono stata anche più volte a Monaco di Baviera.
Mi fanno paura anche le tute da palombaro: quando ho visto recentemente quella esposta al Museo del Vasa a Stoccolma mi ha impressionato – visto, sono stata anche a Stoccolma: ma quante cose ho fatto?
Ma quale sarà la parola corretta per definire la fobia delle tute da astronauta e da palombaro?
Però poi volevo fare l’astronauta: non ricordo quando è nato questo pensiero: forse era solo un tentativo di vincere le fobie. Forse totale pazzia non riconducibile a nessuna particolare situazione dell’animo. Insomma: volevo fare l’astronauta. Alle scuole medie, al tempo si chiamavano così, mi prendevano in giro perché volevo volare sullo Shuttle. Giravano disegni su di me: con i capelli incolti a bordo di questa navetta, con addosso quella spaventosa
tuta spaziale. Ma davvero avrei avuto il coraggio di fare l’astronauta? Non so, ma sicuramente il fisico non c’era. Avevo pure paura dell’acqua, residuo di uno scampato annegamento da piccola. Altra fobia che mi trascino fin dall’infanzia.
Black Sabbath – Planet Caravan.
Desideravo imparare l’inglese, da quando ero piccola, molto piccola e, anche se a malapena sapevo tenere in mano una biro, riempivo quaderni di scarabocchi dicendo che stavo scrivendo in inglese: ma in realtà neanche l’italiano conoscevo!
Poi alle medie, maledette medie, mi hanno messo in una classe di francese. Non si poteva scegliere… baggianata galattica di quei tempi forse per impedire ai professori di francese di rimanere disoccupati. All’epoca l’inglese cominciava a imperare anche in Italia e tutti volevano studiarlo.
E invece, per una stramaledetta regola dello Stato, mi sono trovata a dover studiare francese con una professoressa assolutamente improbabile e cattivissima. Ho odiato, a causa sua, questa lingua, e mi ci sono voluti vent’anni per riuscire a parlarla. Il trauma è proseguito all’Università dove decisi di mettere francese come seconda lingua. Solo a contatto con la vita parigina degli showroom, molto più tardi, mi sono trovata a dover ricominciare a parlare francese, con grande gioia mia e scandalo per quelli che mi stavano a sentire. Faccio davvero cagare a parlar francese. Anche a Parigi sono stata e pure per lavoro – ma quante cose ho fatto da Ashes to Ashes!
Questa canzone l’avevo ascoltata per la prima volta negli anni ’80, per caso, e avevo anche visto il video – non ricordo dove – ed ecco riprodotte le mie angosce proposte in musica e parole – l’inglese che sapevo in quel periodo era davvero scarso, ma qualche termine lo capivo.
Ma chi diamine era sto Major Tom?
Non è stato facile scoprirlo. Ai tempi, ricordate… niente Internet, né Google.
Ma alla fine lo scoprii tramite il fratello di un amico di un parente di un’amica, il quale – grande Giove! – andava spesso a Londra. La famiglia era piena di soldi e lui, molto più grande di me, frequentava la metropoli inglese e conosceva cosa succedeva lassù. Mi mostrò una rivista di musica con l’immagine di un David Bowie anni ‘70… con la stessa pettinatura e lo stesso taglio di capelli di mia madre. Boh! Ero leggermente confusa. C’erano anche, se non erro, le parole di questa canzone Space Oddity e magicamente riuscì anche a sentirla su un vinile. Fantastica.
Parlava di un astronauta: quello con la spaventosa
tuta. Parlava di uomini nello spazio e mi tornò alla mente quell’inquietante trasmissione dello sbarco sulla Luna, con quell’andatura del tutto non umana. L’angoscia di un pianeta diverso, lontano, senza colori – e ti credo, la TV era in bianco e nero.
David Bowie – Space Oddity.
Poi l’immagine della grande biglia blu: la terra vista dallo spazio. Anche questa foto è per me fonte di grande affanno. L’allontanamento dal mondo conosciuto verso nuovi universi inesplorati. Brindisi a Star Trek.
Qualche tempo fa sono stata a una conferenza durante la quale veniva fatta una cronistoria delle missioni dell’uomo sulla Luna e ho potuto vedere dal vero un pezzo di Luna, una roccia aliena davanti a me – e anche questo ho fatto… ma quante cose! Sono passati decenni, eppure mi ha inquietato. Niente da fare, non mi è passata. E vedere la foto della biglia blu a quella mostra: stesse emozioni angoscianti. Ma era bello sapere che non aveva impressionato solo me. Ci avevano scritto pure una canzone: inquietante pure quella.
E io l’avevo ascoltata su un vinile, cantata da un tipo con la stessa pettinatura di mia madre. Ma che belli invece i vestiti. Ed è lì che forse è scattato l’amore per il fashion?
In realtà quell’immagine androgina
, ma al tempo non sapevo certo cosa volesse dire questa parola, mi era nota. Mia madre era una stilista e a casa giravano delle riviste patinate dall’enorme formato con immagini a colori, lussureggianti di modelle. Modelli pochi. Modelle in abiti strani, che non si vedevano in giro in paese a quel tempo. Immagini splendenti ma un po’ bizzarre. La persona che cantava quella canzone sull’uomo nello spazio era uguale a quelle presenti nelle immagini all’interno delle enormi riviste colorate.
Quel ragazzo ricco, il fratello di un amico di un parente di un’amica, era diventato il referente musicale
della mia vita e ha avuto molta influenza su tutte le mie scelte, non solo quelle legate alla musica. A quel tempo, l’intera paghetta che ricevevo la spendevo in musicassette. Quelle che trovavo, perché l’unica fonte raggiungibile in bicicletta era il mercato settimanale del paese, dove c’era una bancarella che vendeva dischi e cassette, avvolte nel loro cellophane trasparente che per aprirlo ti spezzavi le unghie e rigorosamente contenute in scatoloni di cartone e casette delle patate. Quella bancarella esternamente era di un marrone-grigio molto triste, dalla quale spuntava, se guardavi dall’alto, una palette di colori meravigliosa. Chiaramente al mercato ci si poteva andare solo d’estate e in alcune feste nazionali, perché d’inverno si doveva andare a scuola.
Ed è lì, davanti al giradischi del venditore del mercato che ascoltai la mia prima schitarrata e ne rimasi vittima. Sicuramente a casa mia non vi era traccia di quella musica da drogati
.
C’erano degli australiani – ma dov’era l’Australia? – che urlavano di brutto, ma era bello! Dei tizi americani dalle strane facce simpatiche. E per me, triste bambina paesana di provincia, erano un’iniezione di adrenalina. All’epoca, non sapevo cosa fosse l’adrenalina, ma era una musica che mi dava una sensazione piacevole, entrava nella pancia e faceva battere il cuore più forte. E allora, di nascosto dai miei genitori, con la paghetta, comprai alcune di quelle cassette.
AC/DC – Highway to Hell.
1980
La pioggia cadeva forte, il vento soffiava, non si riusciva a tenere l’ombrello e con la mia bici, bagnata fradicia, andavo a scuola. La scuola era un’orribile costruzione, tipo bunker, grigia, con grandi finestre e un grande atrio in cui prima dell’entrata si ammassavano gli studenti. Non si poteva entrare in classe prima del suono della campanella, così ci accampavamo vicino all’ingresso, ci appoggiavamo sul marmo freddo dove c’era lo sportello della segreteria e lì… facevo copiare i compiti ai miei compagni più simpatici. Dopotutto erano gli amici dell’oratorio, come potevo dir loro di no. Non era una cosa negativa: io ero brava, adoravo studiare, facevo quasi
sempre i miei compiti, perché non farli copiare! Li facevo quasi
sempre: mi tenevo un angolo di trasgressione perché non volevo essere perfetta. In realtà, a volte proprio non mi andava di farli, non so perché. Forse non era neanche voglia di trasgressione, forse entravo solo in fasi loop in cui le fantasie e i sogni prevaricavano sulla necessità di studiare. Una parte di me che premeva ogni tanto per uscire. O forse, al contrario di molti miei compagni e compagne, non ritenevo questa piccola trasgressione così mostruosa. Non ho fatto i compiti: e che sarà mai! È vero che ti inculcavano a quell’epoca l’importanza di fare il proprio dovere, ma volevo anche provare cosa succedeva a fare il contrario. Non succedeva nulla. Sì, è vero, alcuni insegnanti dicevano che erano delusi da me, la cosa a volte mi faceva un po’ male. Credo che il destino volesse che io mi mettessi alla prova su vari fronti.
Alle medie non eravamo come i ragazzi di oggi. Ci comportavamo da bambini troppo cresciuti che scoprivano mondi diversi senza tutta quell’attenzione quasi morbosa che c’è adesso. Eravamo più liberi, dal mattino alla sera fuori di casa, lontani dalla famiglia e dovevamo cavarcela da soli. Lo studio era il nostro unico impegno. Mi ricordo i Pink Floyd con Another Brick In The Wall.
Teacher significava ‘insegnante’, quindi si parlava di scuola, si parlava di noi. Al tempo però studiavo francese, non inglese, e cosa significassero queste parole lo scoprii dopo, ma la musica era meravigliosa.
Ci sono ora molte vignette su Facebook che comparano la vita dei bimbi nel 1980 rispetto a quella dei ragazzi di oggi, ma era davvero un mondo diverso.
Il resto della giornata, poi, era costituito da partite a Monopoli o a Petropolis, in cui invece degli alberghi si costruivano torri e piattaforme petrolifere. Era un gioco decisamente non politically correct, ma era appunto un altro mondo. Ricordo che un giorno venimmo messi in castigo perché avevamo fatto saltare le torri e le piattaforme petrolifere con delle miccette! Mia madre non fu molto contenta di questa nostra idea che a noi sembrò strepitosa!
Se il tempo era bello, anche d’inverno con il freddo, si usciva in bici, si andava nei boschi, nei prati, a cinque o dieci