Destinazione Ravensbrück: L'orrore e la bellezza nel lager delle donne
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Sui treni che le portavano al campo di concentramento di Ravensbrück il lager delle donne, a nord di Berlino, finirono detenute politiche, prostitute, o appartenenti a famiglie ebraiche. Reiette da isolare, da eliminare, per il regime nazista.
Mille tra le italiane deportate, di ogni età, non tornarono mai: tra loro anche alcune passate per un piccolo e quasi dimenticato centro di detenzione nell’estremo ponente ligure, a Vallecrosia, simbolo del desiderio di rimozione.
La storia di queste donne, ragazze e bambine, i ricordi, la capacità che ebbero molte di loro, nonostante la tragedia che stavano vivendo, di ritrovare un affetto, un gesto, un sorriso, si affiancano ai momenti più cupi vissuti nel lager e, per le sopravvissute, riportati nella vita vissuta a partire dal loro ritorno.
A 75 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un libro che ripercorre testimonianze, fatti e luoghi attraverso la tessitura della memoria di queste donne, la disumanità che hanno dovuto affrontare e il male che ha attraversato l’Europa, monito per allontanare ogni vento di inaccettabili revanscismi.
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Book preview
Destinazione Ravensbrück - Raffaella Ranise
Ravensbrück.
- 1 -
VALLECROSIA, IL CAMPO DIMENTICATO
Vallecrosia, appena prima di Ventimiglia, sulla riviera ligure di Ponente, è una striscia di case in una delle poche piane di questa terra tra il mare e le serre dove si coltivano fiori, ortaggi, erbe aromatiche. Poche centinaia di metri a monte della via Aurelia che corre, quindici chilometri più avanti, sino al confine francese di Ponte San Luigi, il parcheggio di un supermercato fronteggia, sotto la pioggia incessante e cattiva dell’autunno 2019, un grande cantiere.
Cartolina di Vallecrosia. Al centro l’edificio del campo.
Nessuno, se non la memoria della gente di qui, può rivelare che cosa ci fosse al posto della montagna di detriti che quasi nasconde i pini e gli eucaliptus del boschetto accanto al giardino pubblico che si affaccia su via San Rocco: è ciò che resta dell’ex grande caserma – diventata nel dopoguerra sede dell’Istituto biochimico-farmaceutico Fassi, più noto come storico produttore di caramelle e gomma da masticare, attivo nello stesso luogo sino al trasferimento del 2010 – che fu, tra il mese di gennaio e l’agosto del 1944, un campo di prigionia repubblichino da cui una manciata di donne, solo di cinque delle quali si ha la certezza che fossero ebree, partì per Ravensbrück. Da questo angolo del ponente ligure, però, solo le sorelle Gabriella e Mirella Perera di Bordighera, insieme alle politiche
Maria Musso di Diano Marina (che fu però reclusa a Imperia e Marassi) e Eguaglianza Anfossi Tommassini, originaria di Taggia, riuscirono a tornare. In quel drammatico 1944 furono imprigionate – ma, come vedremo, non solo loro – nella più grande delle quattro caserme che tra il 1932 e il 1935 vennero costruite nei circa 8000 metri quadrati del principale complesso militare della città, destinato ai militari di fanteria impegnati sul confine italo-francese: una adibita all’alloggio dei soldati, le altre a stallaggio per i cavalli e deposito di salmerie, demolite poi dopo la guerra; il tutto circondato da filo spinato.
Pochi passi, accompagnati dal profumo degli eucaliptus ravvivati dalla pioggia, per arrivare al giardino dove si incontrano una stele e un pannello informativo con un testo essenziale, collocato solo nel 2005, nell’ambito del progetto Interreg La memoria delle Alpi: fino a quel momento non c’era nulla a ricordare la storia di prima. Accanto, qualche anno dopo, il 27 gennaio 2012, è stata posta una colonna troncata in pietra che regge una targa ovale di metallo brunito, traforata da un’iscrizione in memoria di tutti i perseguitati
:
In questo luogo sorse nel 1944,
violenza tra le violenze dell’ingiusta guerra,
un campo di raccolta per ebrei e prigionieri politici.
Nient’altro. Perché è vero, come scrive lo storico locale Paolo Veziano, che di quel luogo di prigionia non resta quasi nulla, nemmeno come documentazione, a voler quasi nascondere ciò che fu:
Una cartolina che reca la dicitura Campo di concentramento di Vallecrosia
, un pugno di documenti di un certo interesse, alcune fatture che attestano l’acquisto di materassi e di generi alimentari, qualche testimonianza che il tempo ha reso evanescente, è tutto quello che rimane a testimoniare dell’esistenza di questo luogo. Una carenza pressoché assoluta di fonti che ci costringe a ricostruire, in modo quanto mai approssimativo (…) una delle pagine più tristi della persecuzione antiebraica. Pare tuttavia doveroso menzionare l’esistenza di questo campo, o presunto tale, perché i più giovani, trovandosi in quei paraggi possano, aiutati anche da una targa recentemente affissa, capire quante dolorose verità nasconda ancora la polvere del campo.
Il cippo nei giardini di Vallecrosia a ricordo del campo.
D’altronde, spiega l’ex partigiano, ricercatore e scrittore Gustavo Ottolenghi, il primo a scrivere del campo nel 2003, la memoria stessa di quel luogo sembrava sepolta.
Ho ritrovato il nome di Vallecrosia durante le mie ricerche per altri libri sulla deportazione degli ebrei. Sembrava che nessuno però ne sapesse niente, né a Sanremo dove vivo, né a Vallecrosia. Con fatica, chiedendo alle persone che man mano incontravo, qualcosa ho strappato: il filo spinato intorno al grande edificio, i bambini della scuola che ci passavano accanto… ho cercato dei documenti, li ho trovati attraverso la Provincia di Imperia. Allora ho cominciato a scriverne.
Il cartello esplicativo del Campo di concentramento di Vallecrosia.
Quando, il 5 febbraio del 2005 fu apposta nei giardini di via San Rocco la targa che ricorda il campo – a scoprirla fu Luigi Silvano Tasselli, artigiano edile lì internato nell’aprile 1944 – anche nei discorsi ufficiali non mancò qualche imbarazzo per il silenzio che lo aveva circondato sino ad allora. L’allora sindaco Emidio Paolini spiegava ai giornalisti che i vallecrosini non sapevano che cosa fosse realmente quella struttura di detenzione e raccontava quanta solidarietà avessero, comunque, sempre espresso verso i prigionieri e i ricercati:
Pensavano che si trattasse di sfollati e senza tetto ma risulta che i residenti donavano, per quanto potessero, viveri e generi di conforto ai reclusi, consegnandoli attraverso il filo spinato che delimitava il cortile della struttura. […] Nonostante ci fosse un comando nazista in Villa Poggio Ponente, i cittadini nascondevano nelle proprie case ebrei, dissidenti e militari alleati e solidarizzavano con gli internati del campo, contribuendo a evitare che a Vallecrosia fossero perpetrati crimini di guerra.
Campi per ebrei
ma non solo
Parlava chiaro l’ordinanza di Polizia numero 5, firmata il 30 novembre del 1943 dal ministro dell’Interno della Repubblica sociale italiana, Guido Buffarini Guidi, diffusa tramite telegramma ai capi delle provincie libere Genova, Imperia, Savona, Spezia
così come nelle altre aree del Nord Italia sottoposte al governo repubblichino, per immediata esecuzione:
1) Tutti gli ebrei anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni mobili e immobili debbono essere sottoposti ad immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2) Tutti coloro che, nati da matrimonio misto ebbero in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana devono essere sottoposti a speciale vigilanza degli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.
M.ro Interno Buffarini.
Da questi campi di raccolta gli ebrei sarebbero poi stati trasferiti verso i campi di concentramento della Germania o della Polonia, direttamente o con una nuova sosta in campi italiani come Fossoli di Carpi, in provincia di Modena, Borgo San Dalmazzo, nel Cuneese, e Bolzano. Ma a Vallecrosia, prima ancora che i cittadini di origine ebraica – i primi arresti sono del febbraio 1944 e, secondo i documenti ufficiali, l’apertura del campo sarebbe datata al 9 dello stesso mese – erano previsti altri prigionieri: un fonogramma del 14 gennaio firmato dal capo provincia di Imperia Francesco Bellini, fascista della prima ora e fedelissimo mussoliniano, stabilisce infatti che «I genitori dei giovani renitenti delle classi 1923-1924-1925 debbono essere avviati con la massima urgenza al campo di concentramento di Vallecrosia giacché il 25 c.m. dovranno essere tradotti al forte di Marassi di Genova per essere internati in Germania». Di sicuro, secondo le testimonianze, alcune persone erano già state arrestate a fine dicembre, come elemento di pressione nei confronti dei figli o dei congiunti che si erano uniti ai partigiani; ci sono poi detenuti politici, antifascisti, oppositori. Alcuni verranno deportati, altri riusciranno a salvarsi.
Tre piani, donne e bambini al primo piano, gli uomini – militari e civili – divisi in quelli superiori. È ampio, potrebbe ospitare 150 persone il campo di concentramento provinciale per ebrei
di Vallecrosia, vigilato da 92 militi della Guardia nazionale repubblicana comandati da un vice commissario aggiunto. C’è posto sicuramente per tutti nella caserma che, in poco più di un mese, è stata riallestita come luogo di prigionia: perché sono rimasti in pochi gli ebrei nell’Imperiese, rastrellati in prevalenza nel novembre del 1943: tra gli arrestati sono stati molti anche gli stranieri. Molte decine di cittadini di religione ebraica in fuga dalla Germania si erano rifugiati infatti sulla riviera ligure di ponente negli anni 30, al punto che, nel 1937, fu aperta a Sanremo una sezione locale della Comunità ebraica genovese. Solo due anni più tardi, però, dopo la promulgazione delle leggi razziali, fu avviato l’esodo di queste persone verso la Francia. Altri invece, integrati nelle comunità locali, cercarono di rimanere; solo dopo il rastrellamento del 18 novembre 1943 fu chiara l’urgenza della fuga, mentre le famiglie miste, con almeno uno dei genitori di religione cattolica, o i convertiti, sperarono di sfuggire all’arresto. Moltissimi cercarono una strada di salvezza superando il confine con la Francia attraverso i sentieri – in primis il cosiddetto Passo della morte che parte da Grimaldi superiore, oggi tristemente noto perché utilizzato dai migranti che, in arrivo dall’Africa, cercano di aggirare il divieto di entrare in territorio francese promulgato nel giugno 2015 – o via mare, attraverso passaggi
a caro prezzo garantiti con barche in partenza dalle spiagge delle diverse località (in particolare da quella cosiddetta Bagnabraghe
a Bordighera). Gli ultimi arresti di ebrei in questa zona – anche se non fanno parte degli internati a Vallecrosia – datano all’aprile del 1944, quando furono fermati a Sanremo cinque anziani di origine israelita. Una di loro, Elena Abraham, morirà in carcere a