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Ruote di ferro
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Ruote di ferro

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Un viaggio ferroviario tra fantasie e realtà nel corso degli ultimi decenni di una Ferrovia, concepita ancora come un settore dello Stato. Un'avventura personale dell'autore, tra persone e situazioni in qualche modo, tragico o da commedia, legate ai binari su cui rotolano, in un modo monotono, come di un segnatempo, le Ruote di Ferro dei treni; treni senza tecnologia, fatti d'immagini, di sogni, di paesaggi nel contesto d'una antica realtà lavorativa svolta come un servizio dovuto alla comunità. Il locomotore, il treno, il lavoro svolto semplici cornici al mondo attraversato dai binari; quel mondo che è, in fondo, il vero protagonista di ogni attimo vissuto. Il lungo viaggio ferroviario tra le linee toscane della tirrenica, delle tratte di Saline, Volterra, della Garfagnana, Aulla, con vecchi locomotori costruiti durante il Ventennio fascista, e nuovi treni più moderni. Tra Pisa, Lucca, Livorno, attraverso dormitori, "maestri" macchinisti, baristi, mogli eroiche e pazienti, si dipana la scoperta di un paese che cambia e si trasforma. L'Italia scorre veloce, tanto veloce, da non ricordarne il profilo salutato al primo viaggio.
LanguageItaliano
Release dateMar 31, 2020
ISBN9788832281347
Ruote di ferro

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    Ruote di ferro - Bruno Giannoni

    edizioni

    Copyright

    Copyroprietà letteraria riservata

    © 2014 Tra le righe libri

    Andrea Giannasi editore

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Tra le righe libri

    Ufficio diritto d’autore

    Loc. le Lame di sopra, 239

    55032 Castelnuovo di Garfagnana (Lucca)

    ISBN 9788832281347

    CENNI DEL GLOSSARIO FERROVIARIO

    E BREVI INFORMAZIONI destinate ai non-ferrovieri

    Le FF.SS. erano un mondo completamente diverso da quello che esisteva fuori dai binari e dagli Impianti Ferroviari e, difficilmente, potreste seguire un racconto che parli di ferrovia e di ferrovieri senza avere un minimo di conoscenza del gergo e dell’organizzazione corrente in quella Ferrovia. Voglio quindi premettere delle indicazioni, anche se necessariamente approssimative, tanto per darvi un’idea di come andassero le cose in questo mondo particolare, una-due generazioni fa. Le FF.SS. erano divise in diversi settori, uno dei quali era detto Esercizio: era il settore che materialmente permetteva la circolazione dei treni; i Depositi Locomotive con uomini e mezzi dipendevano dall’Ufficio Materiale e Trazione del Compartimento e l’Ufficio dipendeva dal Servizio Materiale e Trazione dell’Esercizio; altre branche operative erano costituite da Divisioni e Reparti delle varie specializzazioni (Trazione, Movimento, Impianti Elettrici, Lavori ecc. ecc.); il Servizio Movimento (Stazioni e Posti di Linea) si occupava della disposizione e controllo delle segnaletica di sicurezza, del distanziamento dei treni e degli ordini di marcia che permettevano a un treno di fare un certo percorso in piena sicurezza e di altre incombenze.

    Alcune grandi Stazioni gestivano anche Parchi di materiale rotabile, ossia, a farla corta, le carrozze per viaggiatori e i carri merci, per formare i convogli. I Depositi Locomotive gestivano le locomotive, i locomotori, le automotrici (sorta di vagoni con motori e cabine di guida) e tutto il personale addetto alla guida e alla gestione di uomini e mezzi: era il settore della distribuzione, con apposito ufficio in ogni Deposito. In gergo, gli uffici della distribuzione erano chiamati 303, dal modello del registro utilizzato per abbinare il treno al locomotore e alla coppia di personale di macchina.

    Nella vita del ferroviere dell’Esercizio, quindi anche del macchinista, si parlava a numeri: ogni treno era un numero, dai più bassi di due, tre, quattro cifre, o anche cinque, ma dell’ordine di 10.000 – treni viaggiatori rapidi, espressi, diretti, locali –, ai più alti di cifre che io mi ricordo razzolare nell’ordine di 50.000, 70.000 (es: treno merci 55782 da… a…). Un treno con un nome sul Fascicolo Orario era senz’altro un Rapido o comunque un treno viaggiatori importante. I treni con numero dispari andavano verso sud, i pari, verso nord. Inoltre, avendo copiato nell’800 il sistema ferroviario dagli inglesi, il senso di circolazione dei treni era ed è a sinistra. I Treni erano ordinari, straordinari, bis di treni ordinari in un ordinato casino che era bene argomentato ed esposto nelle apposite Pubblicazioni di Servizio e nella Bibbia Ferroviaria denominata Prefazione Generale all’Orario di servizio.

    Per il comune sentire del macchinista i colleghi più colleghi erano:

    - quelli di macchina – a volte chiamati anche socio o òmo o capo se Capo deposito;

    ossia i macchinisti e aiuto-macchinisti, i capi-deposito di ogni grado e, in generale, tutta la gente che si incontrava in un Deposito Locomotive e che aveva a che fare, a vario titolo, con un locomotore e con chi ci stava sopra.

    - quelli del treno;

    ossia il capotreno, i conduttori (detti dal volgo controllori perché controllavano i biglietti) e in generale tutti quelli che stavano dietro, nei vagoni, a fare il loro lavoro con i viaggiatori o con le merci, a controllare l’orario, a dare il pronti a partire dopo una fermata e a fare tutta una serie di cose che a volte ci sfuggivano, o a romperti le palle se eri in ritardo («Maestro, viaggiamo con 5’! Dove li metto? Ossia: come li giustifico sui documenti di viaggio)» e a mezza bocca, a volte, la risposta inintellegibile: «Ma mettiteli in culo!»).

    - quelli delle Stazioni o Scali;

    ossia il capostazione – Berretto Rosso – di qualsiasi grado, i manovali, con o senza berretto – nero -,e tutti quelli che, quando il treno transitava o fermava, vedevi affancendarsi accanto ai vagoni o che ti portavano gli ordini di marcia (detti genericamente moduli) o che, sul marciapiede, guardavano sfilare il treno in transito con il berretto in capo e la bandierina rossa avvolta al manico, a far capire che la Stazione era presenziata e vigile.

    Cosa importantissima era il berretto; il berretto era - con le nuove divise anni ‘70 - color carta da zucchero scuro e aveva soggolo nero o argento o oro con i bordini dei gradi e il fregio poteva essere argento o oro o oro soppannato di rosso, come fossero i gradi dell’Esercito. Il berretto nessuno se lo metteva, salvo il Capostazione alla partenza del treno perché era il simbolo del suo diritto/dovere a dare la via libera a un treno o quando qualche problema lo chiamava al treno stesso. Quando un ferroviere dell’Esercizio si metteva in testa il berretto con soggolo e gradi, per qualcuno erano membri senza zucchero: dal tu si passava al lei e seguiva immancabilmente la frase: «Io le faccio un M 40! E poi le faccio rapporto!» La fatidica frase era pronunciata indifferentemente tanto dal superiore verso il subordinato, che viceversa, in modo democraticissimo, entrambi col berretto in testa e armati di penne e blocchetti dei moduli M 40; l’M 40 era un foglietto in due/tre copie di un blocco predisposto, su cui , dopo avere indicato a chi era diretto, si scriveva il motivo per cui lo si consegnava – anche in maniera poco gentile - al destinatario, che era OBBLIGATO per regolamento a firmare la copia e ottemperare all’ordine o prendere atto della situazione. Dopo di che, per diversi mesi, o anni, i due protagonisti non si sarebbero né salutati né parlati, eccetto che per esclusivi motivi di servizio, in forma strettamente gerarchica e con il berretto in testa. Il resto del tempo il berretto restava tutto accincignato nella borsa di servizio, in barba al Regolamento che lo prescriveva indossato nel corso dell’impegno lavorativo. L’M40 era anche un modulo su cui venivano prescritte le più diverse disposizioni per la marcia in sicurezza del convoglio: era l’essenza stessa del buon andamento del trasporto ferroviario.

    L’organizzazione Ferroviaria, ma per pratica preferisco parlare di quella di un Deposito Locomotive, era simile a quella di un Reggimento, anche se la disciplina non era data tanto dai comandi, quanto dall’osservanza degli orari e normative di Servizio. C’era una scala gerarchica dal Capo Deposito Titolare, ai capi deposito con funzioni di distribuzione personale o locomotori, ai capi deposito istruttori per le scuole di aggiornamento o di professionalizzazione, poi il Personale di Macchina – denominato PdM –, il macchinista e l’aiuto-macchinista, che, uno più uno, formavano l’equipaggio di macchina per quasi tutti i treni, salvo alcune eccezioni per treni viaggiatori locali con le Automotrici o particolari servizi merci e di manovra; era quindi la volta dei manovali del Deposito che erano addetti a un sacco di mansioni che nemmeno loro conoscevano per intero. Dopo anni fu eliminata la qualifica di aiuto-macchinista e la coppia di macchina fu costituita da un macchinista anziano e uno in corso di professionalizzazione; poi ci furono altri cambiamenti ma io ero già deferroviarizzato.

    La borsa del macchinista – l’aiuto macchinista ne era teoricamente esentato – era piena di libri, tutti necessari ad affrontare i casi più diversi che si potessero presentare lungo la marcia e a risolvere tutti i problemi, consentendo la marcia del treno in piena sicurezza e in orario: un fascicolo orario con l’orario dei treni della linea percorsa, fermate, note varie, fascicoli chiamati Prefazioni e altro materiale cartaceo vario, tutti con norme regolamentari, che integravano un Vangelo detto Regolamento Segnali, e un libro di Sacre Scritture chiamato IPCL (Istruzione Per Condotta Locomotive). Optional erano fil di ferro, fusibili di stagno, pinze, cacciavite, forbici, filo di rame, mollette per panni, di legno; il fai da te per tornare a casa anche con un locomotore in vena di fare le bizze come un bimbetto. Poi, in questa borsa alla Mary Poppins, entrava il necessario da toeletta, a volte una gavetta d’acciaio con un po’ di pasta e un secondo, da scaldare nei fornetti luridi e unti dei locomotori e consumare con la forchetta, in equilibrio instabile, tesa a cercare la bocca, mentre il locomotore ti sbatacchiava, un colpo a destra e uno a sinistra, con i bordini che mordevano la rotaia, poi un paio di lenzuola, se era previsto di godere( si fa per dire!) del Riposo Fuori Residenza (lontano da casa,) in un Dormitorio FS, tra due servizi; poi poteva magari entrarci un libro, o una rivista, il berretto, un impermeabile fine, perché non si sa mai! e, volendo, un cambio di biancheria, sempre perché non si sa mai!: le attenzioni delle mogli ferroviarie! E in effetti la ragazza che sposava un ferroviere, più che il ferroviere, sposava la ferrovia, annessi e connessi.

    I treni camminavano (forse ancora oggi?!) su binari formati da due rotaie parallele e nelle stazioni potevano passare da un binario a un altro tramite gli scambi (settori di binario girevoli a mano o con motore elettrico); per non far cozzare i treni tra loro o da qualche altra parte e tenerli alla giusta distanza, o rendere sicuro il passaggio da un binario a un altro, al lato sinistro del binario, in linea e nelle stazioni, c’erano dei pali di ferro verniciati, con sopra dei dischi neri bordati di bianco, e, al centro ,una o più luci che potevano assumere la colorazione verde, gialla, rossa a seconda dei casi, come, a seconda dei casi, si sovrapponevano accese a luce fissa o lampeggiante… Insomma un casino, che a rinvenissi bisognava starci attenti. Però mi pare che funzionasse, salvo casi sporadici. E se non funzionava erano, come suol dirsi, di nuovo Membri per Diabetici. Un tempo i segnali erano comandati elettricamente dalle Stazioni o dai Posti di Linea.

    Su alcune linee come la Lucca-Aulla, dal popolo denominata La Garfagnana, sopravvissero invece per anni e anni i segnali che in cima al palo di ferro avevano delle ali rosse che stavano abbassate o orizzontali, a seconda se avevi via libera o meno, con dietro una lucina accesa protetta da un piccolo schermo rotondo. Roba di prima della guerra!

    Le macchine che, sulle linee elettrificate, trainavano i vagoni viaggiatori o i carri merci, andavano dalle modernissime E 444-Tartaruga (treni rapidi o espressi) ed E 656-Caimano (una tuttofare), dipinte di celeste e blu; poi c’erano gli altri locomotori color castano-isabella, con ruote rosse, dalle pre-belliche degli anni’30, costruite con lamiere imbullonate su un telaio di travi in ferro, E 626, per treni merci, ed E 428, per treni viaggiatori, ma anche merci, alle postbelliche E 424, per treni locali, ed E 636, buone per treni viaggiatori e merci; per semplificare ulteriormente le cose, avevamo poi le mule: E 646, grigia con fasce verdi, per treni viaggiatori pesanti, ed E 645, isabella con fasce castane, per treni merci pesanti. Ma se il macchinista era un mezzo genio, votato alla conoscenza e allo studio, o semplicemente era uomo di fede e prediletto da Lassù, per cui niente avrebbe avuto a temere, mai, ebbene, egli sarebbe stato abilitato anche per i locomotori diesel e si sarebbe dilettato nella guida di un moderno D 345 o D445, anziché nell’esercizio della bestemmia per far camminare un vetusto D342 o D341. Un termine va imparato e rispettato sennò le Vecchie Sbuffanti ci restano male: la Locomotiva fu la mamma dei Mezzi di Trazione; quella nera, le ruote rosse (quando si percepiva il colore della vernice nel morchiume nero), con il duomo, il fumaiolo, le valvole Coale e a bilanciere, quella dell’accorcia la leva - allunga la leva, alza il regolatore – abbassa il regolatore, quella del carbone impalato e sparso nel forno in modo scientifico, quella dell’acqua che non doveva scoprire il cielo del forno, quella, insomma, che con il macchinista e il fochista costituiva un essere unico e vivo… e corre corre corre, la Locomotiva – e corre corre corre, come una cosa viva…come cantava

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