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Come un pandoro a ferragosto
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Come un pandoro a ferragosto

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About this ebook

"Come un pandoro a ferragosto", ovvero la vita, gli amori e le avventure di Tonino, bimbo (poi ragazzo, poi adulto) partito dalla Sicilia e approdato nei quartieri popolari di Torino. La storia di Tonino, la nostra storia, raccontata con leggerezza. Ci fa sorridere, ci emoziona, e infine ci commuove.
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateMar 30, 2020
ISBN9788835397601
Come un pandoro a ferragosto

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    Come un pandoro a ferragosto - Roberto Marzano

    Ringraziamenti

    Il ragazzo di via Gonin

    Prefazione di Laura Salvai [¹]

    È in via Gonin, nel quartiere di Mirafiori Nord, che prende il via l’avventura torinese di Tonino Altofonte, il protagonista di Come un Pandoro a Ferragosto , che dalla Sicilia si stabilisce nella città della Fiat con i suoi genitori. E anche se è soltanto un bambino, partecipa a quell’esodo epocale che ha segnato la vita di tanti italiani negli anni Sessanta, quando le fabbriche (oggi non sembra vero!) avevano fame di manodopera e affiggevano i manifesti nei paesini del Sud per reclutare operai. Tonino arriva da Giuliana, in provincia di Palermo, e come tanti suoi compaesani approda nel nuovo mondo in treno. Il suo varco di accesso è la stazione di Porta Nuova, il suo mezzo di trasporto è il Treno del Sole stracolmo di famiglie con i bambini in braccio, le valigie di cartone e i pacchi di olio imballati con lo spago.

    In quegli anni la periferia torinese cresce in modo vertiginoso sotto la spinta del flusso di immigrati in cerca di una casa. Tra il 1950 e il 1970 Mirafiori Nord moltiplica i suoi abitanti: da 18.000 a 140.000. È un cataclisma che trasforma il paesaggio sociale e urbanistico del capoluogo sabaudo: mancano gli alloggi, le scuole non sono attrezzate per ricevere i nuovi alunni e l’edilizia lavora a pieno ritmo per costruire gli alveari in cui gli immigrati si trasferiranno. È così che nascono i ghetti di periferia come via Artom e le Vallette, con le loro storie di degrado, emarginazione, violenza e criminalità amplificate dai mezzi di comunicazione affamati di notizie. Eppure, come ci racconta Roberto Marzano, quei quartieri erano anche luoghi in cui i nuovi arrivati rivivevano la loro dimensione paesana, i sapori della loro cucina, la solidarietà di vicinato, gli spazi aperti dei loro luoghi d’origine surrogati dagli orti e dai pollai ricavati fra un palazzone e l’altro.

    Quei dialetti incomprensibili, quei cibi strani, quei modi di stare insieme così diversi sconcertavano i piemontesi, soprattutto i più anziani. Ricordo che mia nonna, piemontese doc, criticava le nostre vicine di casa, siciliane, per la loro abitudine di uscire in gruppo: nuore, suocera e cognate si davano appuntamento a una certa ora del pomeriggio e andavano insieme a fare la spesa, chiacchierando animatamente in dialetto per strada. A lei sembrava una perdita di tempo inconcepibile. E siccome aveva un orto sterminato con ogni ben di dio, non riusciva a capacitarsi che i napuli venissero a chiederle le puntarelle, un tipo di verdura che non aveva mai sentito nominare.

    Quei luoghi e quei personaggi sono diventati il materiale del mio romanzo Per un’ora di nuoto (Matisklo 2013), ambientato in un paesino della provincia torinese che perde progressivamente il suo carattere agricolo per trasformarsi in un dormitorio operaio. Roberto Marzano racconta l’altra metà del mondo, quello della periferia urbana che da piccoli ci faceva paura perché – dicevano gli adulti – c’era sporcizia, droga, povertà e malavita. Era difficile per noi immaginare che in quei quartieri esistessero famiglie come quella di Tonino, con il padre ferroviere che lavorava sodo per far studiare il figlio e la madre casalinga appassionata di letteratura.

    Come un Pandoro a Ferragosto racconta la vita di coloro che hanno trovato una sorta di stabilità al Nord grazie al lavoro fisso, un miraggio che si sarebbe progressivamente dissolto con il declino industriale degli anni Ottanta e le agenzie interinali degli anni Novanta. È un mondo in cui i protagonisti possono ancora aspirare a un miglioramento sociale: da operaio Tonino diventa impiegato, un percorso abbastanza normale (allora!) per chi aveva un diploma. Uno dopo l’altro, i luoghi della sua formazione si stagliano incredibilmente vivi sulla pagina: i casermoni popolari, la scuola del quartiere, la stazione ferroviaria con la sua pittoresca umanità, le ferie giù al paese, il capannone della fabbrica di dolciumi, simbolo di un’epoca in cui, accanto alla Fiat, prosperavano le piccole imprese a conduzione familiare.

    In quegli anni Torino era ancora una grigia città industriale con pochissime attrattive per chi veniva da fuori. Oggi, nonostante la crisi, è una città molto più bella e colorata. Non c’è lavoro, ma di notte basta aggirarsi per il quartiere di San Salvario per ascoltare musica, poesia o teatro dal vivo. Sul palco e fra il pubblico ci sono i figli e i nipoti degli immigrati che negli anni Sessanta sono sbarcati a Porta Nuova in cerca di nuove opportunità, e accanto a loro ci sono immigrati più recenti, provenienti dall’Africa, dall’America latina e dall’Europa del-l’Est. È questo crogiolo a rendere Torino così ricca sul piano artistico e culturale, e Tonino Alto-fonte, con la sua passione per la musica che gli salva la vita in molti momenti difficili, è uno dei suoi figli.

    GLI IMMIGRATI, LA CUCINA E IL CALCIO

    Si era fatto anche l’insegna, in quell’angolino sull’ultimo binario: ToNino Porta uova, così, con un colpo di genio, semplicemente spostando la N di Nuova al posto della r di Torino su quell’enorme cartello blu, che sovrastava la sua panchina in marmo massiccio. E quello, ora, era davvero il suo lavoro: portare uova alla stazione di Torino Porta Nuova e venderle. Veniva dalla periferia contornata di nafta e prati spelacchiati, dove viveva in una casa popolare con pollaio annesso e dove, malgrado non fosse più un ragazzo, stava ancora con i genitori e con le sue galline. Non le chiamava galline, ma dava a ognuna la dignità di essere vivente fre-giandola di un nome, che la caratterizzasse come soggetto. Nutriva per loro rispetto e sincera ri-conoscenza per tutte le uova che producevano instancabilmente. La stessa empatia e considerazione che aveva per la sua cagnolina. E per tutto il genere umano, malgrado avesse dovuto subirne più di una delusione.

    Non era un brutto uomo, ma l’innata timidezza e una patologica incapacità di reagire alle avversità, di trovare le parole per districarsi dagli intoppi che incontrava sul suo percorso, lo avevano condotto col passare degli anni a ritrovarsi lì ad allevare galline. Tutto sommato ne era soddisfatto, perché le amiche pennute, le passioni musical-letterarie e la varia umanità che incontrava ogni giorno gli riempivano a sufficienza l’esistenza.

    La vita trascorsa in quella città lo aveva fatto diventare ormai un torinese a tutti gli effetti. Ne parlava perfino il dialetto colorendolo con una simpatica e calda pennellata di siculo. Il suo – era originario del paesino di Giuliana, in provincia di Palermo - lo masticava ancora, perché lo parlava talvolta in casa e si teneva in esercizio con i tanti napoli che popolavano la città e la stazione. Lì lo conoscevano un po’ tutti. Ci bazzicava sin da bam-bino, quando nei primi anni sessanta andava con la mamma a portare il pranzo a papà Costantino, assunto come manovratore dalle Ferrovie dello Stato. In certe domeniche piovose andavano anche a farci delle passeggiate. Già da ragazzino aveva stretto amicizia con Domenico, un habitué della stazione. Era poco più grande di lui, ma già lavorava, vendendo cartoline illustrate ai viaggiatori. Provava un particolare affetto per quel ragazzo con le scarpe bucate, che spesso gli regalava una di quelle belle vedute di Torino che appendeva alle pareti della sua stanza.

    Porta Nuova era diventata il suo paese, e una finestra spalancata sull’Italia che stava cambiando. Gli immigrati, che venivano dal sud con i loro poveri bagagli, gli suscitavano simpatia. Pochi anni prima anche loro si erano trovati sperduti in quella stazione sconosciuta, con il solo aggancio di un cugino di mamma Concetta, Pasquale, che li aveva aiutati a trovare un piccolo appartamento. Non era stato facile: erano gli anni in cui sui portoni dei palazzi si poteva leggere: NON SI AFFITTA A MERIDIO-NALI! Il Comune si occupava solo dei residenti e senza un alloggio non si poteva ottenere la residenza. Perciò si poteva solo sperare di trovare un’anima buona disposta ad affittar loro un appartamento. Di solito, se si era fortunati, ci s’im-batteva in qualche conterraneo che aveva fatto fortuna e che, passato anche lui per la strettoia della non accoglienza, si mostrava più comprensivo e solidale dei proprietari indigeni. Comunque, anche tra questi se ne potevano trovare diversi senza pregiudizi e capaci di guardare gli affittuari sem-plicemente negli occhi, senza farsi condizionare dalle origini o dagli abiti. Era il caso del signor Vittorio Arduino e di sua moglie Adriana, che diedero alla famiglia Altofonte quell’apparta-mento in una viuzza dalle parti di Corso Orbassano. Era in un vecchio palazzone con i mattoni a vista affumicati e il bagno sul ballatoio in comune con gli altri inquilini, che erano soprattutto operai della FIAT. La grande fabbrica di automobili li aveva attirati nella metropoli con la prospettiva di un lavoro stabile.

    Tutti loro erano stati i passeggeri con biglietto di sola andata degli espressi da Lecce o da Palermo, con gli scompartimenti da 8, valigie, bambini e scatoloni dappertutto. I viaggiatori dei diretti da Napoli e Reggio Calabria, con le cene a pane e formaggio, fave, frittate di cipolle, pecorino e arance. Nuvole impregnate di sogni seguivano i treni fuori dai finestrini e si concretizzavano la mattina presto in quell’enorme, fredda e desolata stazione. Si incrociavano barbe lunghe e corpi stropicciati dal viaggio, protesi verso una nuova vita che sì faceva un po’ paura, ma che dava una nuova spinta di speranza, entusiasmo e curiosità.

    Si passavano i bagagli dai finestrini, con i bambini ancora mezzi addormentati, agli zii, cugini, fratelli, paesani che li avevano preceduti in quel Piemonte che prometteva pane e lavoro. Proprio ciò che al paese non era più garantito. Prendevano caffè e cappuccini con le brioche nell’affollato bar della stazione, ultima concessione prima di andare incontro alla dura realtà che li attendeva nei meandri sconosciuti di Torino.

    Per la famiglia di Tonino la trafila era stata un po’ più semplice. Appena scesi dal EXP 1940 - Treno del Sole avevano subito avuto modo di vedere il posto di lavoro che il destino aveva riservato a quel piccolo uomo dagli occhi gialli da cane selvatico, che era papà Costantino. Il viso invecchiato di Pasquale, che gli veniva incontro sorridendo emo-zionato sul marciapiede, aveva fatto il resto. La 600 Multipla che li ingurgitò tutti sembrava uno strano e benevolo mostro deforme che dopo qualche minuto di lunghi viali alberati li aveva portati a casa.

    In quell’oscura traversa - Via Francesco Gonin 77 int. 4 - dove un eterogeneo tessuto sociale esprimeva il suo apice nel miscuglio di dialetti meridionali che si fondevano con il veneto, il sardo e il torinese. Le espressioni colorite delle mamme affacciate - Carmelinu, t’accido!, Savvatore, attia veni ‘ccà! - che richiamavano i figli per i compiti o per la merenda, o perché stava iniziando Chissà chi lo sa?, l’imperdibile appuntamento pomeridiano con i buffi occhiali tondi sul naso

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