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La pianista di Van Gogh
La pianista di Van Gogh
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La pianista di Van Gogh

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About this ebook

A Auvers-sur-Oise, trenta chilometri a nord ovest di Parigi, si consuma nell'estate del 1890 l'ultimo atto della tragica vita di Vincent Van Gogh. Nei due mesi precedenti Van Gogh dipinge alcune delle sue tele più famose e frequenta assiduamente la famiglia del dottor Gachet, alle cui cure è stato affidato da suo fratello Theo. Dopo la morte del pittore, e col crescere della sua fama, Margherita Gachet non dirà né scriverà mai una sola parola su di lui, a differenza di quanto faranno suo padre e suo fratello Paul. Si nasconde forse qualcosa dietro a questo silenzio? Cosa potrebbe avere compreso la giovane pianista riguardo ai segreti della pittura di questo straordinario artista e alle ragioni del suo suicidio? "La pianista di Van Gogh" è il diario immaginario tenuto da Margherita in quei giorni, una testimonianza unica, vivace e raffinata, della fase conclusiva della vita del grande pittore olandese.
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateMar 30, 2020
ISBN9788835397861
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    Book preview

    La pianista di Van Gogh - Carlo Ferrucci

    BANDINI

    Presentazione

    Nella cittadina francese di Auvers-sur-Oise, a trenta chilometri da Parigi, si consuma nell’estate del 1890 l’ultimo atto della tragica vita di Vincent Van Gogh.

    Qui, infatti, la sera del 27 luglio, non vedendosi abbastanza apprezzato, colui che diventerà uno dei pittori più amati di tutti i tempi si ferirà con un colpo di revolver che due giorni dopo lo condurrà alla tomba.

    Nei due mesi precedenti, Van Gogh, arrivato ad Auvers dopo aver trascorso un anno in un ospedale psichiatrico, frequenta assiduamente il dottor Ga-chet, alle cui cure è stato affidato da suo fratello Theo. Nella casa di Gachet, egli dipinge tra l’altro i due celebri ritratti dello stesso dottore e si incontra ripetutamente con i suoi due figli, la ventenne Margherita – discreta pianista – e il sedicenne Paul.

    Dopo la morte del pittore, e col crescere della sua fama, il dottor Gachet e suo figlio parleranno e scriveranno ampiamente di lui e del suo soggiorno ad Auvers. Margherita, invece, sebbene Van Gogh abbia fatto anche a lei ben due ritratti, non gli de-dicherà né una parola né una riga.

    Si nasconde forse, dietro questo suo silenzio sul geniale malato, un’attrazione alimentata dalla sintonia tra le loro rispettive passioni, la musica e la pittura, e che non può essere confessata perché troppo trasgressiva? Quali potrebbero essere stati, in questa luce, gli stati d’animo e i pensieri suscitati nella giovane pianista, non più disposta a subire la supremazia degli uomini di casa, dai suoi colloqui con un personaggio profondamente anticonformista come Van Gogh? E che cosa potrebbe ella aver compreso, infine, sia dei segreti della sua pittura che delle cause del suo suicidio?

    Le pagine che seguono rispondono a queste do-mande immaginando che Margherita abbia tenuto, di quei due mesi straordinari, un minuzioso e il-luminante diario, che è insieme la storia della sua maturazione come donna.

    Roma, marzo 2014

    La pianista di Van Gogh

    Auvers, martedì 20 maggio 1890

    Non credo che la mamma sarebbe stata molto contenta di quello che è successo oggi: il babbo ha ricominciato a ricevere in casa i suoi amici pittori. Un genere di persone sicuramente interessanti, lei diceva sempre (così almeno mi racconta la nostra governante, la signora Chevalier), ma tra le più strambe e disordinate del mondo.

    Il pittore che è passato a trovarci stamattina, poi, non è nemmeno francese, ma olandese. Si chiama Vincent Van Gogh, e più che strambo sembra un vero orso, che fa fatica a pronunciare tre parole di fila senza abbassare la testa e diventare di tutti i colori. Il suo francese, in compenso, è decisamente buono, perché sono già diversi anni che vive in Francia.

    È arrivato da Parigi, dove ha un fratello sposato, padre di un bambino di pochi mesi di cui lui è il padrino, e che ha visto per la prima volta sabato scorso, di ritorno dalla Provenza.

    Questo suo fratello fa il mercante di quadri, ma a sentire il signor Van Gogh è diverso da tutti gli altri mercanti perché, invece di pensare soltanto ad arricchirsi sulla pelle dei pittori, li aiuta a farsi strada tra le mille difficoltà di un ambiente molto duro. Il babbo, che lo conosce, ha confermato che è proprio così, e che un po’ tutti gli impressionisti, ma soprattutto Monet e Pissarro, gli devono molto.

    Quando si è presentato da noi, il signor Van Gogh aveva così tanta polvere addosso, poveretto, che si capiva subito come fosse venuto a piedi diret-tamente dalla stazione. Pensava che casa nostra fosse più lontana, ha detto, e si era preparato a camminare per ben più di un chilometro e mezzo. Sembrava quasi dispiaciuto di non averlo fatto, e mi ha ricordato quell’altro pittore amico di papà, il signor Cezanne, che è stato a casa nostra tanti anni fa e aveva fama di grande camminatore.

    A differenza del signor Cezanne, però, il signor Van Gogh, almeno a giudicare dallo stato dei suoi vestiti, deve essere anche molto povero. Non per niente, quando il babbo lo ha informato su dove avrebbe potuto alloggiare, lui prima ha domandato i prezzi e poi ha deciso che si sistemerà nella locanda dei Ravoux, sulla Piazza del Comune, che costa due franchi e mezzo meno dell’Hotel Saint-Aubin.

    Con i suoi occhi verdi e i suoi capelli rossicci (come quelli del babbo!), dev’essere stato un bel ragazzo, un tipo; e anche adesso che è sulla quarantina, se non fosse per i tanti denti rovinati, non sarebbe male.

    Ha intenzione di fermarsi ad Auvers abbastanza a lungo e di dipingere sotto il controllo del babbo, perché è malato di nervi.

    Che non stia del tutto bene, lo si capisce dalla sua aria tesa, rigida, e dal fatto che parla poco e a scatti. Ma questo forse anche per via di quei denti così sciupati, che si vergogna di far vedere. Così come sembra che si vergogni di una ferita che ha all’orecchio destro, visto che tende a inclinare la testa da quella parte, quasi a volerla nascondere.

    Di tanto in tanto, corruga all’improvviso la fronte e si guarda intorno con occhi spiritati e con l’aria di cercare qualcuno che non si decide ad arrivare. In altri momenti, quando si concentra o osserva qual-cosa, socchiude talmente gli occhi che non si ca-pisce come possa ancora vedere.

    Ha un sorriso molto dolce, e si è illuminato in viso quando il babbo gli ha fatto vedere i quadri di Pis-sarro, Cezanne e Guillaumin che abbiamo in casa. Ma si intende abbastanza anche di musica, e quan-do era più giovane ha preso lezioni di piano.

    Al momento di andare via, ha detto che l’odore di vernice, trementina e tabacco che si sente in casa nostra (in questi giorni il babbo sta dipingendo e fumando parecchio) gli risulta molto familiare. Al-lora il babbo lo ha invitato a tornare quando vuole, anche solo a far due chiacchiere con lui, con contor-no di una bella pipata. Ma a casa nostra o altrove, si è raccomandato il babbo, se il signor Van Gogh non vuole farsi riprendere dal suo male dovrà soprat-tutto dipingere, dipingere più che può.

    Io non so come giudicarlo. Mi auguro solo di riu-scire ad abituarmi alla sua aria assente e al suo sguardo fisso. E spero che la novità serva a distrarre il babbo, che negli ultimi tempi è tanto invecchiato. Da una parte lui, sempre così malinconico e stanco del suo lavoro, che lo obbliga a fare su e giù tra Auvers e l’ambulatorio di Parigi; dall’altra Paul, che anche se ha solo quattro anni meno di me è rimasto un ragazzino, come se la morte della mamma avesse rallentato la sua crescita invece di accelerarla.

    Quanto a me, ho già più di vent’anni, ma a parte il pianoforte, di cui un domani potrei dare lezioni, e la cura del babbo e della casa (con il suo grande giar-dino e i suoi troppi animali: sedici solo tra cani e gatti, e in più quasi tutte le specie da cortile!), non ho idea del futuro che mi aspetta. Così anch’io, a volte, mi sento triste e avvilita; e in quei momenti nemmeno la musica e la lettura, soprattutto di ro-manzi, mi bastano più.

    Da stasera, in compenso, a distrarmi ci sarà anche la stesura di questo diario, in cui mi è venuta voglia di descrivere il comportamento e, chissà, la storia di un personaggio molto… romanzesco come il signor Van Gogh.

    Per esempio: dopo che lui è uscito, Paul ha domandato al babbo se sa come si è procurato la strana ferita che ha all’orecchio destro, una specie di amputazione della parte inferiore. Il babbo dap-prima ha scosso la testa senza rispondere, poi, messo alle strette da Paul, ha detto che se non lo hanno male informato dovrebbe trattarsi di un incidente di lavoro. Ma come può un pittore, dico io, tagliarsi il lobo di un orecchio dipingendo?

    Paul non ha voluto crederci, e nemmeno io, anche se di fronte al babbo, a differenza di Paul, ho fatto finta di sì.

    Auvers, mercoledì 21 maggio 1890

    Dalla signora Bonnefoy, la camiciaia, oggi pome-riggio tutti parlavano del signor Van Gogh. In diversi l’avevano visto vicino alle case col tetto di paglia della parte vecchia del paese, e qualcuno raccontava che dipinge molto più rapidamente degli altri pittori che ogni tanto capitano ad Auvers da Parigi.

    «Più rapidamente, ma anche molto peggio, mi pare!», ha commentato la signora Pontoise, che abita da quelle parti. «Ho dato anch’io una sbir-ciatina, passando, a quello che stava dipingendo, e vi assicuro che se non avessi saputo che una di quelle capanne era la mia, non l’avrei mai rico-nosciuta. Sì, le ha, come posso dire… ecco, sì, affogate, proprio, affogate in un mare di onde gialle e verdi, di fieno e di erba, che non occupano per niente tutto quello spazio, là intorno!»

    «E il colore, ci avete fatto caso?», ha domandato un altro. «Le stava facendo viola, quelle povere capanne… e il giallo del fieno ammucchiato lì ac-canto, che sembrava chiara d’uovo?»

    «Forse è anche una questione di distanza, di prospettiva», ha osservato il segretario del Comune, il signor Durand, che ha frequentato un anno di scuola professionale e sa disegnare e tinteggiare all’acquerello.

    «Ma che prospettiva e prospettiva, mi faccia il piacere, signor Durand!», ha replicato la signora Pontoise, uscendo dal negozio. «Quello, per me, ha la vista o la testa che non gli funziona, e se non si dà una sistemata, ho paura che di quadri qui ad Auvers ne venderà pochini, date retta a me».

    Da certe occhiate che mi venivano lanciate, era facile capire che tutte quelle persone si aspettavano che anch’io dicessi la mia. La notizia che arrivando ad Auvers il signor Van Gogh è passato da noi, infatti, ha fatto subito il giro del paese, per cui c’era ragione di credere che io sapessi sul suo conto qualcosa più di loro.

    Io invece so solo che è povero, che non sta del tutto bene, e che ha una strana ferita a un orecchio; tutte cose che non ho nessuna voglia di commentare in pubblico. Così, non ho aperto bocca.

    Mi era venuta voglia, in compenso, di andare a vedere anch’io come lavorava. Quando però l’ho proposto a Martine, che era con me, quella sciocca mi ha risposto che non aveva tempo. Come se non sapessi che la sua unica occupazione è passare le ore a farsi bella allo specchio, e chissà per chi, poi, in questo buco di paese! Ma non potevo certo avvi-cinarmi da sola a un uomo, un forestiero, che conosco appena, e che magari si è già scordato di me.

    Va bene che il babbo è un po’ pittore anche lui ed è sempre stato amico di pittori, mentre il padre di Martine è un austero notaio che non capisce niente di arte e ha la casa piena di brutte anticaglie; ma, dico io, non potrei avere delle amiche un po’ più sveglie e curiose? Invece Martine è perfino più insipida di suo fratello Lucien, che crede di con-quistarmi dedicandomi versi suoi o altrui, e non vede l’ora di diventare anche lui notaio.

    Auvers, venerdì 23 maggio1890

    Oggi, col tempo messo decisamente al bello (era pure ora), ho lavorato tutta la mattina in giardino, mentre in casa la signora Chevalier faceva le grandi pulizie della settimana. Anche se sta con noi da una quindicina d’anni, è lenta come una ragazza appena assunta. Solo la mamma riusciva a farla lavorare un po’ più in fretta. Io, invece, non riesco ad alzare la voce come dovrei con chi mi ha coccolato, inse-gnato a cantare e visto crescere. Quanto al babbo, sempre più distaccato da tutto ma ancora pronto a prendere le parti della gente del popolo… meglio lasciar perdere!

    Risultato, ho dovuto fare tutto da sola, e in quest’epoca dell’anno è dura, con le erbacce che crescono a vista d’occhio, i parassiti che non ri-sparmiano nessuna pianta, e la talpa che da sotto attacca le radici (a proposito, devo ricordarmi di dire al babbo di comprarmi un buon veleno, la prossima volta che andrà a Parigi, perché quello che vendono qui è acqua fresca). In compenso, sia il castagno che le rose, i fiordalisi e le resede sono in piena fioritura, e anche i ginestroni che abbiamo piantato a febbraio hanno attecchito perfettamente e presto riempiranno del loro bel giallo tutta la parte bassa del giardino.

    Mentre pulivo le aiole e rimettevo a posto i rami delle piante scompigliati dal vento degli ultimi giorni, la brezza tiepida che saliva dal fiume mi portava il profumo delle rose selvatiche e del caprifoglio, e i balestrucci si tuffavano tra il mu-retto e la strada, stridendo e raccogliendo fango per i loro nidi. Più in basso, da una parte e dall’altra dell’Oise, le siepi di biancospino si alternavano con le macchie dorate dei ranuncoli, mentre in lon-tananza, in direzione della ferrovia, il verde tenero del grano cominciava a tingersi di giallo e ad accendersi del rosso dei papaveri.

    Dalla terra saliva un brusio indistinto, a cui si sovrapponevano di quando in quando le brevi grida di qualche contadino che

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