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Il miracolo del comunista santo
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Il miracolo del comunista santo

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14 luglio 1948. Il giorno dell'attentato a Palmiro Togliatti. Al Policlinico Umberto I il segretario del Partito Comunista Italiano è appena stato operato con successo. Giuseppe Passerini, infermiere di provata fede politica, non può accettare di gettare nel contenitore dei rifiuti organici un pezzo di costola del Migliore. Così, nella distrazione della sala operatoria, se ne appropria. Qualche settimana dopo, una visita ai cattolicissimi suoceri in quel di Livorno si trasforma nell'imperdibile occasione di prendersi gioco della loro inossidabile fede: la costola viene consegnata a un vecchio parroco, spacciata dal Passerini per la reliquia di un improbabile San Palmiro. Ciò che l'infermiere non può prevedere, è che il pezzo d'osso, in bella mostra ai parrocchiani, si metta a sanguinare. Ne nasce una spassosa commedia degli equivoci che arriva a lambire le alte sfere del Vaticano.
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateMar 30, 2020
ISBN9788835397106
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    Il miracolo del comunista santo - Alessandro Gatto

    BANDINI

    La Repubblica – Firenze

    Domenica, 6 marzo 2005 – Pagina IX

    Quella costola di Togliatti onorata dagli ignari devoti

    Salvata e nascosta dai chirurghi che lo operarono

    di Franca Selvatici

    ...

    Invece nel pomeriggio del 14 luglio 1948 – mentre in tutta Italia i lavoratori scendevano in sciopero e il Paese era sull’orlo della guerra civile – nella sala del policlinico Umberto I, dove Togliatti era stato appena operato dal professor Pietro Valdoni, due giovani chirurghi, Luigi Tonelli e Francesco Baisi, decisero di salvare il pezzo di costola resecata, finito tra i rifiuti del campo operatorio. Fu un gesto istintivo. Quel reperto, pensarono, meritava rispetto. La costola finì in un cassetto.

    Nel 1954 Luigi Tonelli viene nominato professore incaricato di patologia chirurgica a Perugia. Si trasferisce all’ospedale di Monteluce e porta con sé la costola di Togliatti. Non vuole gettarla via ma non sa che farne. Un giorno ha un’idea. Ha fatto amicizia con il vice-cappellano dell’ospedale, un frate francescano. Era «un giovanottone, un fratacchione», ricorda oggi sorridendo: «Ero certo che non mi avrebbe chiesto spiegazioni. Lo pregai di inserire quella costola fra le reliquie dei santi. Volevo che la mettesse in un posto dove non potesse essere disturbata. Non rivelai a chi apparteneva, ma gli dissi che il paziente era ancora vivo e che sarebbe stato bello se i devoti avessero pregato anche per la sua anima. Gli chiesi, infine, di non rivelarmi mai dove avrebbe sistemato quella costola. Un giorno il frate arrivò in ospedale e mi disse Ho fatto. E io sono certo che da allora la costola di Togliatti è in qualche teca insieme con le reliquie di un beato della Chiesa».

    «Non ero e non sono mai stato comunista», precisa il professor Tonelli: «Però Togliatti era un uomo rispettabile, un uomo che aveva tante responsabilità e che lavorava per il popolo. Il mio fu un gesto di rispetto. E ora che sono passati 50 anni penso di poter rivelare questo piccolo segreto».

    ...

    Nei primi anni 50, in piena guerra fredda, il giovane professor Tonelli deve essere stato investito in pieno dalle correnti contrapposte che si agitavano all’interno dell’ospedale. Ma lui aveva passato tutta la giovinezza a Livorno, la città più scanzonata d’Italia. E così interpretò quella miscela di sacro e profano a modo suo. Chiese aiuto all’amico cappellano, gli consegnò la costola di Togliatti, lo pregò di non chiedere di chi fosse e di inserirla fra le reliquie di qualche santo. Non volle sapere dove. Ma è certo che il cappellano esaudì il suo desiderio.

    ...

    ***

    Come immagino avrete capito, questo racconto è nato da una storia vera. Una storia che per caso ho letto in un articolo pubblicato nella cronaca di Firenze del quotidiano La Repubblica. Sopra, ne ho riportato i passi principali. Il fatto, di per sé, mi sembrò incredibile e divertente al tempo stesso... Al punto che pensai di conservare quella pagina di giornale, cosa per me inusuale.

    Qualche tempo dopo, mentre riordinavo i cassetti di una scrivania – gentile eufemismo per dire che mi ero finalmente deciso a fare pulizia e a buttar via un sacco di roba inutile – mi ritrovai quella pagina fra le mani.

    Rileggendo di nuovo quell’articolo, cominciai a chiedermi che cosa sarebbe potuto accadere se quella costola fosse stata attribuita ad un santo... E che cosa sarebbe potuto accadere se, in seguito, fosse stata la causa di eventi inspiegabili... addirittura miracolosi.

    Per rispondere a quelle domande, mi venne l’idea di scrivere un racconto... senza troppe pretese... E alla fine, pagina dopo pagina, è nato Il miracolo del comunista santo.

    Il racconto, pur avendo origine da una storia realmente accaduta, è frutto della mia fantasia, così come lo sono i personaggi ed i loro nomi. Qualsiasi corrispondenza con la realtà è pura coincidenza. Comunque, per rendere la storia più verosimile ho cercato il più possibile di far riferimento a luoghi e situazioni reali senza rinunciare, ovviamente, anche a qualche licenza come, ad esempio, la chiesetta di San Bruno a Le Gore. Alcuni spunti per le dissertazioni su Leopardi sono stati presi in prestito dalla penna di don Divo Barsotti e poi rielaborati... Se possono sembrare delle astruserie è solo per colpa mia. I sermoni di Padre Emilio e di don Maltinti sono riadattamenti di testi tratti da raccolte di omelie.

    Un’ultima cosa. Solo come divertimento, sparse qua e là e in genere nei dialoghi, ho inserito delle citazioni da alcune opere di Mozart e Rossini... A voi scoprirle.

    Alessandro Gatto

    Prima di cominciare

    Nei dialoghi, in genere, ho tentato di riprodurre la pronuncia di alcuni termini in forma dialettale. Al di là del fatto che ci possa esser riuscito o meno, di seguito, riporto alcune indicazioni per facilitarne la lettura.

    E ...

    La e preceduta da un apostrofo equivale, a seconda dei casi, alla congiunzione o al pronome relativo che.

    Un ...

    Un preceduto da un apostrofo equivale alla negazione non.

    Mira’olo ...

    In alcuni termini la consonante c non è pronunciata. Pertanto, il termine mira’olo (riportato come esempio) si legge miraolo e corrisponde a miracolo.

    Passa’, vole’ ...

    Si pronunciano passà, volè e corrispondono all’infinito dei verbi passare e volere. La stessa regola è da applicare a qualsiasi altro verbo che sia scritto nella stessa maniera.

    Po’erino ...

    In questo caso, la consonante non pronunciata è la v. Il termine si legge poerino e corrisponde a poverino.

    Tu’, mi’ ...

    Sono forme tronche degli aggettivi tua e mia.

    Vole, vòi, pole, pòi ...

    Quando troverete scritti questi termini in forma accentata, essi corrispondono a forme contratte dei verbi volere e potere. Essi significano, rispettivamente, vuole, vuoi, può e puoi. Attenzione a non confondere vòi e pòi con il pronome voi e con l’avverbio poi.

    Un esempio di frase:

    Un pòi mi’a vole’ di’ ...

    Si legge un poi mia volé dì e corrisponde a non puoi mica voler dire.

    Queste poche indicazioni, un po’ pedanti e forse inutili, prendono in considerazione solo le forme del vernacolo usate con più frequenza. Comunque, dovrebbero essere più che sufficienti per farvi prendere confidenza con il linguaggio usato nei dialoghi. Non vi voglio annoiare oltre... Buona lettura!

    IL MIRACOLO DEL COMUNISTA SANTO

    1. Roma. 14 Luglio 1948

    «Deh, Passerini, o ‘ndo tu vai?»

    «A trova’ la tu’ sorella. E poi te l’ho già detto un milione di volte... l’accento livornese non ti viene. Stai imitando – e male – un romano, trapiantato a Firenze. Come diresti te? Lassa perde’.»

    «Beh? Che c’hai oggi? T’è venuto ‘r marchese?»

    «E a te che t’è venuto di rompere i... E va bene.» Lo disse sospirando, quasi a malincuore. «Ho avuto una discussione con quel dottorino novo.»

    «Aho! Allora tutto se spiega. Hai tutta la mia comprensione... Guarda, se vòi ce possiamo da mette’ d’accordo. Una de ste’ sere l’aspettamo e glie damo tanti de que’ carci che nun se potrà mette’ a sede pe’ ‘na settimana. Che dici?»

    «Che sei più bischero te di lui.»

    «E va beh. Oggi nun te se pò di’ nulla. Pensavo te facesse piace’. Immaginate la scena. Quello che cammina tutto ‘mpettito, con un manico de scopa ficcato ‘n der culo, er naso al vento. Tutto azzimato con la borza de pelle ‘n mano... »

    «Borsa. Si dice borsa!»

    «Perché? E io che ho detto?»

    «Sì... va be’.»

    «Comunque... Ma l’hai da véde come la porta! La fa ciondola’, come se fosse un pischello con la cartella, mentre va a scola! S’avvicina alla machina, – oh, c’ha pure la machina. E bella pe’ giunta. Nun c’ha mica bisogno de lavora’, quello. Deve ave’ li sordi de fami’ia. Vie’ qua solo pe’ rompe’ li co’ioni alla gente. Dicevo, se avvicina alla machina... Se abbassa pe’ ‘nfila’ la chiave ‘nde lo sportello... E a quer punto ‘nterveniamo noi.»

    «E che facciamo?»

    «Oh, ma oggi nun te se riconosce più. Te l’ho detto ‘n attimo fa. ‘Ie damo de’ carci ‘n der culo... Tanti... e con la rincorsa! Facciamo alla conta pe’ véde chi ha da esse’ er primo.»

    «Sì. E dopo cosa pensi che farà? Ci ringrazierà?»

    «La prima cosa che farà sai qual è? Se girerà, piano piano, alzerà la testa fino a torcersi er collo, se metterà ‘na mano sulla bazza e dirà: ‘Prego?’. Lo vedo già... Comunque, saremo mascherati. Cor fazzoletto ‘n faccia. Nun ce potrà riconosce’ e nun saprebbe chi ringrazia’.»

    «Sì. Lo devo ammettere. Mi hai convinto. Sei effettivamente più bischero di lui... Ti dirò di più...»

    Passerini Giuseppe. Classe 1912. Infermiere ca­po. Lavora a Roma presso il policlinico Umberto I°. La sua famiglia si è trasferita quando era ancora un ragazzo. Il su’ poro babbo – come direbbe lui – era di Livorno e lì faceva il ferroviere. Lo trasferirono a Roma perché era un sovversivo. O meglio, nonostante la sua famiglia fosse da sempre poco incline a riconoscere il potere costituito (il brigadiere incaricato della sorveglianza diceva semplicemente che erano una massa di rompicoglioni), l’unica azione sovversiva che aveva fatto era stata quella di aver rifiutato di iscriversi al fascio, più per spirito di bandiera che per convinzione. In genere, questo sarebbe costato a chiunque la perdita del lavoro ed un sacco di legnate. Però, l’amico d’infanzia era un pezzo grosso del regime... anzi, grossissimo. Così, invece di farlo bastonare, Ideale (questo era il nome del babbo) era stato trasferito a Roma... per tenerlo meglio sotto controllo, recitava il rapporto riservato della polizia politica. In realtà, il suo amico d’infanzia non se la sentiva di mettere per strada una famiglia di otto persone.

    Giuseppe aveva vissuto male il trasloco. Aveva perso il mare, gli amici, ma soprattutto aveva perso Giorgina Tassi che entro pochi giorni avrebbe compiuto diciassette anni. Alle insistenze di Giuseppe, Giorgina diceva che avrebbe fatto l’amore con lui dopo aver compiuto gli anni. A dirla proprio tutta, questa storia degli anni andava avanti da quando lei ne doveva compiere quindici. Però, Giuseppe si era fatto certo che quella sarebbe stata la volta buona.

    Un po’ le idee di famiglia, un po’ la convinzione che il babbo fosse diventato un martire della rivoluzione proletaria, un po’ Giorgina, Giuseppe, per spirito di rivalsa, era diventato un membro attivo del Partito Comunista, anzi attivissimo.

    Passata la guerra, questa sua vocazione, se possibile, era pure aumentata. Tutto quello che gli accadeva era filtrato sugli insegnamenti del Partito e in più valutato sulla base di quello che invece gli sarebbe accaduto nell’Unione Sovietica. Questo, non per un’esperienza diretta – il viaggio più lungo che aveva fatto era stato quello per arrivare a Roma – ma sulla base di quello che scriveva e diceva – se gli era possibile non perdeva mai un comizio – il compagno Togliatti. Ormai, da alcuni mesi, non appena apriva bocca, immancabilmente, qualunque fosse l’argomento, aveva preso a dire «A Mosca, questo non sarebbe successo. Il compagno Togliatti...».

    Sua moglie Gesuina, che da molto tempo ormai aveva sostituito Giorgina, aveva invece qualche perplessità rispetto al partito e ai suoi compagni. Però, siccome lo amava, si limitava a dire «O Giuseppe! Fammi ’l santo piace’...».

    Come si può capire dal nome della figlia, la madre di Gesuina, la sora Gina, era una fervente cattolica. Pur aspettandosi un maschio (secondo lei cosa dovuta, in funzione del numero di ceri accesi e di fioretti fatti alla Madonna di Montenero dopo aver scoperto di essere rimasta incinta), aveva comunque dato alla figlia il nome che fin dall’inizio aveva pensato per il bambino.

    Nonostante il nome e l’influenza della madre, Gesuina, pur rimanendo una fedele cattolica, non si era trasformata in una bigotta tutta casa e chiesa.

    Anche i genitori di Gesuina erano originari di Livorno. Si erano trasferiti a Roma, perché il babbo, Ufficiale di Posta, aveva avuto come promozione un posto nella capitale.

    Per le imperscrutabili strade del destino, non sapendo l’uno dell’esistenza dell’altra mentre entrambi abitavano a Livorno, Giuseppe e Gesuina si incontrarono per caso a Roma e scoprirono di avere molto in comune... tanto che si sposarono dopo pochi mesi. Una tragedia epocale per la sora Gina.

    Nonostante il via vai di gente, i cui passi e il vociare erano amplificati dalle alte volte che sovrastavano i corridoi dell’ospedale, la frase risultò chiara e netta ai due che si avviavano verso l’uscita: «Allora? Che aspettate? E poi proprio te Passerini, mi meraviglio.»

    Le orecchie del Passerini cambiarono subito colore, diventando di colpo viola. Giuseppe cominciò anche ad agitarsi – dondolandosi sui talloni e allargando le braccia per mantenersi in equilibrio – e ad aprire e chiudere la bocca senza spiccicare parola. Dopo un buon mezzo minuto, quando riuscì a parlare, sembrava leggesse una circolare.

    «Punto primo. Poiché l’infermiere capo Passerini Giuseppe ed il suo compagno lavoratore Ciccolini Mario hanno finito il turno, essi hanno il diritto di andare a casa o dove meglio gli aggrada... li aggrada... insomma, dove cazzo credono! Punto secondo. Poiché il turno è finito, i suddetti lavoratori non sono tenuti a ricevere ordine alcuno… foss’anche proveniente dal Padreterno – nel caso esistesse. Figuriamoci da un dottorino di primo pelo. Punto terzo. Poiché non c’è né un rapporto di parentela, né tantomeno un rapporto di amicizia, la invito a darmi del Lei. Con la elle maiuscola, con il rispetto che si deve a qualsiasi rappresentante della classe lavoratrice. Punto...»

    Prima che Giuseppe potesse continuare, il dottorino tirò su la schiena – operazione che aveva del miracoloso dato che era già dritta come un fuso – e gli soffiò il punto di bocca.

    «Quarto. Hanno sparato al... suo capo.» E pronunciò la esse come se fosse stata scritta in grassetto su un manifesto grande come una casa. «Lo stanno portando qui e deve essere operato d’ur­genza. Quelli che vi sostituiscono sono, come direbbe… lei, degli infermierini di primo pelo. Lo opera Valdoni ed ha preteso di avere intorno gente d’esperienza e… sembra», disse utilizzando la stessa esse di prima «che fra questi ci debba essere anche lei ed il suo… compagno. Punto Quinto. Sarà meglio che vi sbrighiate, perché gli hanno sparato a bruciapelo. Tre o quattro colpi. È più di là che di qua... Almeno così dicono.»

    «Ma di chi parla?»

    «Di quel tizio che predica la giustizia sociale e vorrebbe far fuori tutti quelli che non la pensano come lui.»

    «Il... il... compagno Togliatti?»

    «Bravo. Lo vede che lo conosceva? Proprio lui. Sì.» Rispose compiaciuto il dottorino, con la stessa esse che ormai era entrata a far parte del suo repertorio in pianta stabile.

    All’istante, il mondo intorno al Passerini cominciò a girare come una trottola.

    Gesuina e Giuseppe abitavano al terzo piano di un casermone nel quartiere della Garbatella. D’estate, dopo cena, a Gesuina piaceva stare al fresco, sul terrazzo, a chiacchierare con Giuseppe. Però, quella sera, Gesuina era sulle spine. Le notizie che aveva sentito alla radio, ma soprattutto quelle che le aveva riferito la gente, l’avevano convinta che il marito avesse fatto qualche pazzia. Non sapeva che pesci prendere.

    Andava e veniva dalla cucina al terrazzo, che si affacciava sull’ingresso del palazzo. Si afferrava alla ringhiera con tutte e due le mani, si alzava sulla punta dei piedi e allungava il collo il più possibile, come se questo le permettesse di vedere più lontano, girando la testa a destra e a sinistra. Dopo tre ore di andirivieni, anche per stanchezza, si era seduta alla tavola della cucina ed era passata alle lamentazioni. «Gesù, Gesù, che gli sarà successo... Oh Madonnina pensateci voi...». Dopo avere finito gli appelli a tutti i santi di sua conoscenza, era passata ad una terza fase, quella delle promesse. «Certo, che se ritorna. Che ripassata... Non se la scorderà tanto facilmente...». Nel momento in cui era arrivata alla quarta fase, iniziando a prendere in esame gli strumenti che l’avrebbero meglio aiutata a mettere in pratica tutte le promesse, sentì bussare alla porta.

    Letteralmente volò dalla cucina al disimpegno, che faceva da ingresso all’appartamento e iniziò a strattonarla, rischiando di sradicare la catenella che era rimasta attaccata. Finalmente riuscì ad aprire.

    «Sei tornato!»

    «Se sono qui…»

    «Ma lo sai che ore sono?»

    «Ma lo sai che è successo?»

    «Se volevi fare la rivoluzione, allora non ti dovevi sposare. Che credi, che io voglia star qui ad aspettare uno che mi venga a dire: Signora Gesuina, ci dispiace, ma le abbiamo dovuto ammazzare il marito. Sa’, oggi s’era messo a fare la rivoluzione e gli abbiamo dovuto sparare...».

    «A parte il fatto che non è automatico che uno, quando fa la rivoluzione, si debba fare ammazzare per forza...»

    «Non venire a trovare scuse. Oggi sei stato tutto il giorno a giro perché hanno sparato a quello là. Dimmi un po’ che non è vero?»

    «Beh, effettivamente… messa così…»

    «Lo vedi che avevo ragione?»

    «Non è come pensi te…»

    «No? Vorresti dire che non sei corso in piazza a menar le mani con la polizia? Alla radio non dicon nulla… ma le voci che girano parlano di morti! Di morti! Ma come si fa a pensare di farsi ammazzare per un senza Dio.»

    «A Mosca…»

    Appena sentì pronunciare Mosca, Gesuina non riuscì a trattenersi e cominciò ad urlare: «Basta! Non te l’ho mai detto prima, ma stasera te lo voglio proprio dire. Non ne

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