Cuore agro
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Cuore agro - Nina Quarenghi
cominciato.
1
La mattina che partii da San Pellegrino avevo freddo. Ho sempre patito il freddo, da ottobre a marzo, con le mani e i piedi gelati, come se la mia circolazione sanguigna in quei mesi non arrivasse a superare i confini dei polsi e delle caviglie. Nelle sere d’inverno mia madre e la zia Maria passavano da me e dai miei tre fratelli a mettere nei nostri letti ghiacciati ol prét con la mònega, con dentro le braci ardenti; il calore passava dal copriletto di piuma alla mia pelle e in quell’abbraccio mi addormentavo. Ma la mattina mi svegliavo con il naso e le orecchie gelate e me le immaginavo come estremità blu attaccate alla faccia. In collegio andava peggio, perché me la dovevo cavare solo con una coperta di lana grezza, che mettevo doppia; andavo a letto con i calzettoni, mi raggomitolavo, poi passavo buona parte della notte a scongelare prima un piede, tenendolo a contatto con la coscia, poi l’altro. A volte riuscivo a scaldarmi solo all’alba, quando era quasi ora di alzarsi per andare a messa. Così per tutti gli anni delle medie e anche per quelli delle superiori; anche se avevo cambiato collegio a metà percorso, il gelo nelle camerate era rimasto uguale e pure la tecnica per combatterlo.
Era il trenta novembre, quando partii; avevo compiuto ventun anni da tre giorni e la neve in valle era già caduta due volte: la prima era stata solo una spruzzata di avvertimento, che si era sciolta prima che i bambini tirassero giù le slitte dalle soffitte, la seconda era stata talmente abbondante da preannunciare un inverno peggiore di quello del ’94 che, lo diceva il Barba guardando in trasparenza il suo bicchiere di rosso, era stato il più terribile degli ultimi anni. Terribile sarebbe stato senz’altro, neve o non neve, perché era il primo inverno di guerra per l’Italia e anche per mio fratello, che era stato arruolato insieme ai giovani di San Pellegrino, molti con gli stessi cognomi perché il paese era piccolo, incassato in una valle delle Prealpi Orobie che mi lasciavo alle spalle, bianche di neve fresca, quella mattina di fine novembre.
Fino a Bergamo viaggiai con le immagini dei miei famigliari negli occhi: i miei fratelli al balconcino del nostro piccolo albergo, mia madre e la zia sulla porta d’ingresso, sotto l’insegna Albergo Miramonti
; a vederli lì tutti insieme mi si annodava la gola e non riuscivo a dire niente, nessuno diceva niente, solo gesti, sorrisi, mani, come se partissi per il fronte anch’io e in effetti per un fronte partivo, ma senza mitraglie e granate.
«Lidia, ‘ndem che te perdet ol treno.»
Mio padre, pronto con le briglie in mano, ruppe il vetro opaco della commozione; mi sedetti sul calesse accanto a lui nell’attimo in cui fece partire il Dingo, che scalpitava già da un po’ sul selciato.
Dal finestrino vedevo sfilare le montagne, la neve si abbassava e io non riuscivo a scaldarmi le mani, che tenevo infilate nelle maniche del mio vestito di lanetta nero, anche se prima di partire, alla stazione, mio padre me le aveva tenute un po’ nelle sue, sempre calde in tutte le stagioni, persino quando il termometro attaccato fuori dall’albergo segnava meno due, come quella mattina. Il viaggio fu così lungo, con tanti cambi, che alla fine la malinconia si perse lungo i binari, mentre nuove emozioni mi chiudevano lo stomaco. Stavo andando a sud, molto molto più a sud di dove fossero mai arrivati i miei, che non avevano mai passato il Po.
«Ma perché così lontano? Lidia, tu vuoi sempre lo zucchero brusco», aveva detto mia madre scuotendo la testa. Conoscevo bene quel suo sguardo, la disapprovazione in lotta con la consapevolezza che era inutile insistere contro la mia caparbia volontà di salvare il mondo; lo stesso sguardo di quando mi trovava a incollare una tazza andata in briciole, o a mettere al sole una mosca caduta nel latte, o a tirare in casa ogni sorta di animale ferito che accudivo fino a restituirlo al bosco, vivo o morto. Anche quella mattina partivo con la stessa determinazione, per un posto lontano, dove non voleva andare nessuno.
Il perché avevo scelto proprio Torrescura, a trenta chilometri da Roma, perso dentro una campagna acquitrinosa, non ero riuscita a spiegarlo bene né a mia madre né a me stessa. Volevo andare là punto e basta. Era un impulso forte da quando, tre anni prima, avevo sentito parlare un maestro una domenica a Bergamo, prima di uno spettacolo sul libro Cuore. Odiavo il libro Cuore e quel pomeriggio a teatro mi ci aveva trascinato una compagna. Ma quando quel maestro aveva cominciato a parlare, era come se avesse toccato il mio, di cuore; era stato un tocco doloroso, un pizzicotto.
Aveva nominato l’Agro romano e la malaria, i contadini che lo abitavano, il bisogno di insegnanti coraggiosi. Coraggiosi o pazzi, aveva detto sorridendo. Anzi, dicendo così, mi aveva anche guardato, mi aveva forse stregato, non so, comunque in quel momento ho deciso che avrei studiato per il diploma di maestra, per poi andare laggiù. È stato come quando intravedi la tua fermata sul tram e suoni il campanello per prenotare la discesa. Durante lo spettacolo, noioso come prevedevo, non feci che sporgermi per sbirciare le spalle del maestro, che si era seduto qualche fila davanti alla nostra. Dopo il secondo atto vidi che la sua testa ciondolava e mi venne da ridere.
«Ma cosa ridi, sei scema?», sibilò la mia compagna, con le guance rigate dalle lacrime, mentre sul palco la Piccola vedetta lombarda moriva tra le braccia di un soldato.
Guardavo la testa del maestro ormai abbandonata su una spalla e pensavo alle parole da usare. Lo raggiunsi dopo gli applausi, quando la gente defluiva dalle uscite laterali. Si era formato un crocchio di donne intorno a lui, tutte dame della Croce Rossa impettite nelle loro uniformi blu; mi intrufolai tra di loro, mentre continuavano a parlargli eccitate. Non sapevo come farmi notare; lo feci nel modo peggiore.
«Voglio andare anch’io laggiù», dissi quasi urlando, con una voce acuta, da gallina strozzata, come mi succede quando mi emoziono. Si voltarono tutti verso di me.
«Come dice?», chiese una delle donne, squadrandomi.
«Dicevo al maestro, scusate», e feci un passo verso di lui. Continuai come se intorno non ci fosse nessuno: «Quello che ha detto sul palco mi ha molto colpito. Vorrei andare a insegnare anch’io nell’Agro romano, come lei.»
«Ah!», fece una dama «non è posto per una ragazzina», e si voltò con un sorriso complice verso il maestro, ma lui guardava me, divertito.
«Temo che la signora abbia ragione, lei mi pare davvero molto giovane.»
«Ma io ho già diciotto anni, mi sto diplomando e poi voglio aiutare…»
«Non basta un diploma, signorina, e neanche la buona volontà.»
«Ma lei prima ha parlato di insegnanti coraggiosi, insegnanti pazzi, o sbaglio?», e mi ha anche guardato, volevo aggiungere, ma mi venne il dubbio di essermelo solo immaginato.
«Sì, ma non di insegnanti suicidi», disse lui. Dal gruppo delle dame partì qualche risatina. Abbassai lo sguardo e mi sentii avvampare: era stato lui a dare una direzione al mio slancio e ora mi umiliava così. Mentre il cerchio si stava chiudendo di nuovo intorno al maestro, lasciandomi fuori, fu lui che si mosse verso di me. Mi toccò il gomito, portandomi un po’ lontano dalle signore. Lo guardai e vidi che si sorprendeva del mio sguardo duro.
«Non volevo offenderla. Però la devo mettere in guardia, perché ho conosciuto altre giovani maestre come lei che, insomma, sono finite male. C’è molto fango nell’Agro, e non intendo solo quello materiale. Le consiglio di non avere fretta e di venire, se lo vorrà ancora, tra qualche anno, quando ci saranno più scuole e avremo bisogno di maestre anche per i più piccoli.»
Non furono le parole a convincermi a restare, ma il tono, lo sguardo, la presa delicata sul mio braccio, oltre al fatto che mio padre, prima della maggiore età, non mi avrebbe lasciato andare da nessuna parte. Per i tre anni successivi non feci altro che coltivare il mio sogno; dopo il diploma mi specializzai alla scuola montessoriana e lavorai senza sosta, sia al nostro piccolo albergo – che dopo l’apertura del Casinò a San Pellegrino e l’arrivo della ferrovia, aveva gente in tutte le stagioni – sia come maestra negli asili della valle. Misi via dei soldi, feci un po’ di esperienza e ora finalmente partivo.
Così, mentre le ragazze del mio paese si sposavano, le compagne del collegio si fidanzavano, salutavano i morosi vestiti da soldato e aspettavano angosciate le lettere dal fronte, io ero l’unica che andava in direzione contraria a tutti i convogli, a tutti i viaggi dettati dal dovere, dalla rassegnazione o dal buonsenso, per scavare la mia piccolissima trincea al servizio di un ideale o forse del mio egoismo, ancora non lo sapevo.
Mi ricordo che al risveglio dal sogno del serpente sentivo caldo, le mani bollenti. In quegli anni mi tormentava un incubo: un serpente mi inseguiva e io correvo, ma avevo le gambe pesanti come macigni e lui mi raggiungeva e cominciava a strisciare viscido sul mio piede e risaliva il polpaccio, insidiava la parte tenera della coscia e lì mi svegliavo. Mi capitò anche quella volta, verso la fine del viaggio. Quando aprii gli occhi sudavo, ma non era solo per il sogno; la temperatura doveva essere aumentata sia fuori che dentro il treno. Dal finestrino la neve non si vedeva più da un pezzo, e nemmeno le montagne, le colline, le città; il treno solcava una pianura ondulata e selvaggia, punteggiata da grandi alberi dalla chioma a ombrello e da buoi bianchi, dalle corna larghe, grandissime.
Nel mio vagone si trovavano alcune famiglie di contadini: donne dai volti segnati dalle rughe, incorniciati da fazzoletti consumati, bambini rattoppati di stracci che dormivano addosso alle madri, uomini con il cappello calato sugli occhi. Tutti dondolavano imbambolati, aggrappati ai loro fardelli, nello sferragliare del treno. Da sotto i sedili si sentiva il chioccare sommesso di qualche gallina. L’unico sveglio era un bambino seduto di fronte a me, che mi fissava. Gli sorrisi, ma lui spostò subito lo sguardo verso il finestrino e dopo un momento si illuminò tutto: «Ah ma’, ello che è?», chiese alla donna che stava dormendo accanto a lui, strattonandola per la manica. Quella aprì gli occhi arrossati e gli rispose brusca: «E che sarà mai? Ello è lu mare.»
Mare? Allora guardai dal finestrino e lo vidi anch’io, per la prima volta. Un nastro di raso verde tra la terra e il cielo grigio, intatto, immenso da fare girare la testa.
«E che ce sta nellu mare?»
«Ce stanno li pescetti», rispose lei sbadigliando.
«Ah. E doppo lu mare che ce sta?»
«Gnende, nun ce sta gnende. Si nun dormi te ce butto drendo e vedi, mannaggia a te e pure alli pescetti!»
Il bambino allora restò zitto, ma nei suoi occhi vedevo nuotare mille domande e io morivo dalla voglia di rispondere, ma ancora non era il momento.
Quando scesi dal treno l’aria satura di umidità, densa di odori estranei, mi accolse come uno schiaffo. Dal treno scendevano anche i contadini che si muovevano lenti sotto il peso di attrezzi e stoviglie, smarriti quanto me. Si riversarono sulla banchina della stazione finché non arrivò zoppicando un uomo corpulento dagli occhi feroci, che agitava un frustino e li chiamava tutti dalla sua parte.
«Li mortacci deli mortacci vostra, de qua avete da veni’, ve possinammazzà!»
E via una frustata, che per poco non prendeva in faccia un bambino. Mentre guardavo quell’uomo mi si infiammavano le orecchie dalla rabbia; avevo già conosciuto dei caporali dalle mie parti, quando arrivavano in valle i braccianti per la fienagione, ma non avevo mai visto nessuno abusare tanto del suo potere come lui.
Ma cosa ci faccio qua, chi me l’ha fatto fare?
, mi chiesi nel vedere i contadini coagularsi intorno a quell’uomo, come i dannati sulla riva dell’Acheronte. Non avrei mai immaginato che un viaggio infernale stava iniziando anche per me, che decine di volte, nei mesi successivi, mi sarei fatta le stesse domande, né che le risposte, emerse come pietre preziose dai miasmi malarici di quella terra desolata, avrebbero dato un senso alla mia vita per quell’anno e per molti altri a venire.
2
Le ruote del carretto trituravano i sassi della strada, ma producevano un suono irreale, attutito, come un pianoforte con la sordina, o forse ero io che non percepivo bene i rumori mentre penetravamo nella campagna; avevo l’impressione di avere dell’ovatta nelle orecchie. Un silenzio del genere l’avevo sentito solo in alta montagna, quando io e mio fratello accompagnavamo i villeggianti in qualche escursione; lassù però c’era il sibilo del vento a fare compagnia, e il ronzio di qualche mosca smarrita in alta quota. Il silenzio dell’Agro invece era sterminato, primitivo.
Da una mezzora avevamo lasciato Torrescura.
«Faremo un giro più lungo, così le faccio vedere il villaggio dei contadini e da lì la strada per le Baracche. Vedrà che si troverà bene.»
Il direttore delle scuole della zona, Pietro Sciarro, che teneva le briglie seduto accanto a me, voleva essere rassicurante, ma non lo era per niente. Diceva ogni cosa con voce esitante, si voltava a guardarmi con le labbra tese, come a dire ma chi m’hanno mandato? Speriamo bene
. Non era proprio l’accoglienza che mi ero aspettata. Pensavo di incontrare persone forti, come il maestro che mi aveva fulminato al teatro di Bergamo, invece nessuno di quelli che avevo conosciuto al mio arrivo mi pareva avere un briciolo del suo spirito. Ma mi sbagliavo, almeno su Pietro Sciarro, come lui si sbagliava su di me.
Quando mi era venuto a prendere alla stazione mi era sembrato un barbagianni, con quei due occhietti scuri sul volto pallido, i capelli ispidi e il pizzetto bianco. Con zia Maria, fin da bambini, io e i miei fratelli ci divertivamo a descrivere le persone come animali e, mai come nell’Agro, mi sarei sbizzarrita a creare il bestiario che mi avrebbe accompagnato in quell’anno scolastico.
Barbagianni disse che doveva presentarmi alle persone importanti di Torrescura e io ne fui lusingata. Raddrizzai la schiena, sentii dentro la voce di mio padre su dritta con le spalle, testa alta, che te set una Vitali
. Non solo ero una Vitali, che per mio padre era sinonimo di fierezza, onestà, magnanimità, un misto di virtù cavalleresche che secondo lui connotava la nostra famiglia da tempo immemore, ma ero anche una maestra al servizio della Patria. I miei pensieri volavano molto in alto quel primo giorno, come un aquilone in mano a una bambina.
Mi aspettavo di conoscere il sindaco, il parroco, il medico, insomma le autorità presenti in ogni centro abitato, anche piccolo, ma imparai subito che Torrescura non era un posto normale, o meglio era un non-posto dove le poche strutture, appena costruite, erano vuote: la chiesa c’era, ma il sacerdote, dovendo occuparsi di tutte le anime disperse nel raggio di venti chilometri, l’apriva solo per la messa alla domenica, sempre che le strade infangate gli permettessero di arrivare dai villaggi vicini; per lo stesso motivo il dottore della zona si trovava all’ambulatorio solo due volte alla settimana. Il sindaco non esisteva: il latifondo al centro del quale sprofondavano le case di Torrescura apparteneva a un principe romano ed era amministrato da un fattore che l’aveva in affitto, Oreste Tamerlano, il primo dei personaggi che mi presentò Barbagianni.
Viveva in un casale, un palazzotto di pietra chiara poco distante dalla stazione. Bussammo più volte e aspettammo parecchio prima che arrivasse qualcuno ad aprirci; dalle finestre al piano terra si sentiva un vociare di uomini, risate grasse, il latrato di qualche cane. Finalmente ci aprì il fattore in persona, con la bocca unta, un pezzetto di carne arrosto attaccato alla barba, il tovagliolo in mano e le sopracciglia aggrottate. Con la sua corporatura massiccia occupava tutta la porta; non mi fu difficile identificarlo con un maiale.
«Ah, è arivato er sor Piero Sciatto.»
«Pietro Sciarro, prego.»
«Sì sì, che vòi? Nun me di’ che vòi veni’ cor giro de’ noantri cacciatori perché ‘nc’è rimasto gnente, manco l’ossa pe’ li cani ahahah», la sua risata roca fu interrotta da un rutto. Si mise una mano sul ventre, gonfio come una zampogna.
«No no, volevo presentarle la nuova maestra, la signorina Vitali. È arrivata oggi stesso da Bergamo, lunedì apre la scuola alle Baracche.»
«A le Baracche? Ma ‘nce stanno li polli a le Baracche? Ahahah», e continuando a tenersi la pancia girò il suo sguardo su di me. Negli occhi imbevuti di vino vidi un lampo di ingordigia.
«Anvedi chi c’è? Ma che graziosa signorina, che fiore de campo, la nova maestrina, a fa’ bella la tera nostra, addirittura dar Piemonte ahò.»
«Veramente dalla Lombardia», intervenne Sciarro.
«Piemonte, Lombardia e che cambia, sempre der nord sete. Ma prego, venite», e si mise di profilo per farci entrare, ma in quella posizione ostruiva l’ingresso più di prima.
«Grazie no», disse Sciarro. «Dobbiamo andare all’alloggio della maestra, vicino al villaggio dei contadini. Avremmo bisogno di un calesse.»
«Eccerto, e che ce vo’? Però scusa signori’, ma perché ‘nte fermi qua, invece de sta’ in mezzo a le lestre, co’ li poracci, me pare propio ‘na zozzeria. ‘Na stanza te la procuro io, ‘nte sta’ a preoccupa’, ‘sto casale è ‘n castello, c’o sai signori’? Pe’ ‘na principessina come te ce vorebbe ‘na reggia.»
Quando smise di sproloquiare, il pezzetto di carne continuò a vibrare per un po’ sulla barba. Capivo una parola su tre di quello che diceva, ma la gestualità era esplicita. Non vedevo l’ora di allontanarmi da quell’individuo, dal fetore che emanava, dalla sua bocca con un dente d’oro, dal fiato di vino rancido e tabacco che arrivava fino a me, nonostante fossi rimasta un passo dietro a Pietro Sciarro. Piuttosto che vivere sotto il suo tetto avrei dormito per strada. Non ci fu bisogno di rispondere alla sua proposta perché fu distratto da un coro di voci che proveniva dalla tavolata all’interno. Daje de tacco, daje de punta, quant’è bona la sora Assunta… Il fattore sorrise e fece per rientrare.
«Vabbè, avemo finito qua, no?»
Tira lo spago, spigni la sega…
«Sì ma… il calesse?»
Bonasera bonasera…
«Ah Sciatto, già too detto che vabbene, annate a la rimessa, ce pensa Arturo.»
Poi mi diede un’ultima occhiata, lenta, andata e ritorno dalla testa ai piedi, come se stesse apprezzando un vitello.
«Famme sape’ se te serve quarcosa a le Baracche, eh? C’o sai che diceveno li antichi? Se te serve quarcosa sine qua non
: semo qua noi», e mi fece l’occhiolino.
L’incontro con il secondo personaggio più in vista di Torrescura fu altrettanto infelice, ma per motivi diversi. Si trattava di Tullio Parolini, il maestro delle elementari; mentre andavamo a casa sua, con il carretto sgangherato che ci aveva messo a disposizione Tamerlano, Pietro Sciarro mi spiegò che il maestro insegnava a una classe mista di trenta bambini allestita dentro il vagone di un treno, su un binario morto alla stazione. Mi assicurò che il mio collega avrebbe potuto aiutarmi, perché le nostre scuole distavano solo qualche chilometro l’una dall’altra. Mi confortai al pensiero di non essere sola, di potermi appoggiare a un insegnante di esperienza e di cuore, ma questo sogno durò il tempo che ci mettemmo per spostarci dal casale del fattore alla casetta di tufo, dove ci aspettavano per il pranzo il maestro e sua moglie.
Tullio Parolini era un ometto dalla stretta di mano debole e sudaticcia; la moglie ci cucinò una minestrina insapore, che ebbe l’effetto di rendere ancora più sconfortante la conversazione a quella tavola. Come per una legge della fisica, la forza che teneva il maestro legato alla scuola di Torrescura era uguale e contraria alla mia: non aveva scelto lui di venire a insegnare in mezzo a quei bifolchi, duri di comprendonio, somari senza speranza
e