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Dublino 90
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Dublino 90

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About this ebook

Dublino, 1990. Dopo esser stato squalificato per aver truccato una partita, il calciatore Ted Sullivan viene reintegrato in squadra nel tentativo di recuperare una stagione fallimentare. Ma gli anni sono passati, per lui e per gli altri, e il calcio non è l'unica preoccupazione che affligge Bob McDermot, l?estroverso allenatore dei Ramblers, che coinvolge Sullivan in una serie di tragicomiche situazioni alla ricerca di una salvezza innanzitutto finanziaria, fra banche, creditori e commercialisti usurai. Una rappresentazione della società e della nefasta realtà economica attraverso le gesta calcistiche di un gruppo di eterogenei disgraziati che sanno rispondere alle difficoltà della vita, colpo su colpo, con umorismo e ironia.
LanguageItaliano
PublisherRogas
Release dateMar 28, 2020
ISBN9788835395607
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    Dublino 90 - Francesco Scarrone

    Ringraziamenti

    Dublino 90

    Walshʼs Pub

    – Mannor Street -

    11 P.M.

    «Cosa vuoi?»

    «Due ciambelle.»

    «Ciambelle?»

    «Rotonde, buco in mezzo, glassa sopra, hai presente? Ciambelle.»

    «Lo so come sono fatte delle ciambelle, ma Cristo santo, sono le undici di sera!»

    «Non cʼè ora per le ciambelle.»

    Era vero. Non mentivo. Ormai mangiavo a qualsiasi ora del giorno e della notte. Cristo santo. Mi stavo trasformando in una ciambella anche io. Mi guardai intorno e cercai di capire in quale razza di buco mi avesse trascinato. Cʼera solo una coppia in un angolo che non si parlava mica tanto. Dovevano essere felici.

    «Vabbé, e da bere?»

    «Fa tu, basta che vada giù liscio.»

    McDermot fece una faccia che sembrava avesse ingoiato un limone e andò a ordinare. Io mi sfilai la giacca e mi sistemai sullo sgabello. La coppia ordinò un altro giro e Robert tornò con due pinte e due ciambelle. Bravo Bob. Poi vidi la pinta che mi aveva messo davanti.

    «Cosʼè sta roba?»

    «Assaggia e vedrai.»

    «Non assaggio un bel niente se non mi dici cosʼè.»

    «Due terzi di birra e uno di vodka.»

    «Gesù.»

    «Assaggia e vedrai.»

    Portai il bicchiere alla bocca e buttai giù una sorsata. Per un attimo non sentii più la bocca.

    «Allora?»

    Tirai un bel respiro profondo e risposi.

    «Sai che ti dico? Non è niente male questa porcheria.»

    «Non è niente male no, cazzo», e anche lui buttò giù una bella sorsata. «Allora, come sono le tue ciambelle?»

    «Niente male neanche loro. Potrebbero essere meglio, ma niente male.»

    «Vuoi qualcosʼaltro da bere?»

    «Perché no? Comincia a ordinare un altro giro.»

    Mi succhiai le dita, erano davvero delle signore ciambelle, quelle, mica roba da supermercato, e mentre si allontanava lo richiamai: «Bob!» Lui si girò. «Altre due ciambelle!». Fece ancora una faccia come se avesse mangiato un limone.

    Tre o quattro ore dopo, saranno state le due, le tre, non saprei, finalmente Robert tirò fuori la vera ragione di quellʼinvito.

    «Senti Ted…»

    «Teodor, niente Ted. Quando mi dici Senti Ted cʼè puzza di guai in vista.»

    «Non ho ancora aperto bocca.»

    «Ma lo farai. E quando mi chiami Ted e la butti sullʼamicizia è perché mi stai per pugnalare alle spalle. Lo so, lo sai, lo sai che lo so, e io so che tu sai che lo so. Quindi smettiamola di girarci intorno e dimmi perché mi hai chiesto di venire qua.»

    «Ho bisogno di un favore.»

    Buttai giù unʼaltra sorsata di quellʼintruglio malefico e gli feci un gesto con la mano.

    «Sono nella merda Ted. Se non ci salviamo sono finito. Ho tre figlie e una ex moglie che mi mangiano vivo. Se non ci salviamo sono finito.»

    «Lo sai che sono fuori dal giro.»

    «Ted, guarda qua», e il vecchio Bob tirò fuori una fotografia.

    «No, Cristo no, Bob, non mi farai ancora vedere la fotografia della tua famiglia!»

    «Ted guarda qua, non è una bellissima fami­glia?»

    «Sì Bob è bellissima, ma io ho chiuso con quella roba lì, non ne voglio più sapere.»

    «Guarda queste ragazze, non sono le più belle che tu abbia mai visto?»

    «Bob, sono le più belle. Te lo giuro su Dio che sono le più belle, ma io non ne voglio più sapere, come te lo devo dire? Ho smesso, non gioco più. Non voglio neppure più sentirle alla radio le partite. Hanno rovinato la mia vita, il mio matrimonio, la mia esistenza, non voglio più saperne niente. E poi sono squalificato per ventʼanni.»

    «Quello non è un problema», e tirò fuori un pezzo di carta che mi sventolò sotto il naso.

    «Cosʼè?»

    «Un condono. Tutto perdonato. Come se non fosse mai successo niente.»

    «Senti Bob, davvero, non cʼè niente di personale, lo sai che ti voglio bene come a un fratello, anzi, a un padre, ma questo non me lo puoi chiedere.»

    Bob si gettò in ginocchio, spalancò le braccia e si mise a urlare in mezzo al locale: «Ti ho dato gli anni migliori della mia vita! Ti ho dato tutto quello che avevo!»

    La coppia ci stava guardando, cominciava a diventare imbarazzante: «Dai Bob, adesso basta, rimettiti a sedere…»

    Ma lui continuava il suo atto di contrizione «e guarda tu come mi ripaghi, lurida canaglia figlio di puttana che non sei altro!»

    «Bob, rimettiti a sedere, su, non fare il creti­no…»

    «Allora giocherai?»

    «Siediti.»

    «Giocherai?»

    «Ci penserò.»

    «Non mi basta.»

    «Ti prometto che ci penserò. Però adesso mettiti a sedere.»

    Robert si tirò su e si rimise a sedere. Feci un gesto al barista che era tutto ok e con un giro di dita di riservirci, poi gli chiesi: «Allora, cosʼè questa storia?»

    «Sono nella merda fino al collo Ted.»

    «Questo me lʼhai già detto.»

    «Abbiamo una buona squadra. Oddio, buona, insomma. Ma sono dei bravi ragazzi, ce la potrebbero fare, solo che siamo nella merda. La società non ha più i soldi per pagare gli stipendi così Mack e Tim se ne sono andati.»

    «Tim OʼReally?»

    «Sì, quel figlio di buona donna.»

    «Era lʼunica cosa che si avvicinasse a un giocatore di calcio che avevi in squadra.»

    «Lo so, Cristo, credi che non lo sappia. E da quando se nʼè andato non ne abbiamo più… Gesù, non dico vinta, ma neppure più pareggiata una! Stiamo scivolando in retrocessione.»

    La conoscevo a memoria la storia: se retrocedevano i diritti televisivi se li potevano scordare, e senza diritti televisivi gli sponsor non ne vogliono sapere, e senza sponsor non puoi neppure soffiarti il naso, e così via dicendo. La spirale negativa, insomma.

    «Pure i tifosi adesso disertano lo stadio. È rimasto solo il vecchio Dino.»

    «Quello che si mette il casco per guardare la partita e parla da solo?»

    «Sai che non abbiamo neppure più i soldi per pagare Maurice? E sono tre settimane che i ragazzi si fanno la doccia fredda.»

    «Quelli che si lavano.»

    «Ovviamente.»

    «Senti Bob, capisco i tuoi casini, ma davvero non me la sento. Sono tre anni che non metto piede su un campo da calcio. Ho preso quindici chili, sono stanco. Adesso me la cavo, faccio lʼelettrauto e non ho nessuno che mi insulta se sbaglio a montare una batteria.»

    «Ma non hai neppure qualcuno che ti applauda quando la monti bene.»

    Quel figlio di puttana aveva toccato un nervo scoperto. Aveva ragione. La vita da persona per bene era tranquilla, ma da qualche mese mi sentivo morto. Però non gliela volevo dare vinta così in fretta, così gli dissi: «Mi spiace Bob. Non cʼè alcuna possibilità.»

    «Ted, se non mi aiuti mi ammazzo.»

    «Non lo farai.»

    «Lo farò eccome. Ho già tentato il suicidio tre volte questo mese.»

    «Un aspirante cadavere?»

    «Già.»

    «E comʼè che sei ancora qua?»

    «Sfortuna. La prima volta ho tentato col tubo di scappamento e ho finito la benzina. La seconda col forno ed è finita la bombola, e la terza ho provato a impiccarmi…»

    «Lasciami indovinare. La corda si è rotta.»

    «È venuto giù il lampadario e mezzo soffitto.»

    «Gesù Bob. Sei un fallimento completo.»

    «Non te lʼavevo detto?»

    Devo essere onesto. Devo dire la verità e ammettere che quellʼofferta mi allettava. Gesù quanto mi allettava.

    «Ascolta Bob», gli dissi, «ci penserò. Non ti prometto niente, ma ci penserò. Questo te lo posso promettere. Fra due giorni ti dirò qualcosa.»

    «Ted, se non mi dai una mano tu sono fregato.»

    «Questo me lʼhai già detto.»

    «No, ma forse non hai capito, sono fregato davvero. Se non ci salviamo mi fanno fuori. Ti ho già fatto vedere…» e fece per mostrarmi di nuovo quella sua dannata fotografia.

    «Bob, metti via quella fotografia sennò te la infilo dove dico io.»

    «Sì, certo Ted, scusa.» E se la rimise in tasca tirando su col naso. «Sei un amico Ted.»

    «Non ti ho ancora detto di sì.»

    «Lo so, ma lo farai. Perché sei un amico.»

    La cameriera ci portò da bere. La guardai e le dissi: «E le mie ciambelle?». Lei guardò lʼorologio e poi riguardò me.

    Tra tutti i problemi che la vita da atleta mi aveva causato in quegli anni cʼera di avermi lasciato addosso una sete terribile. Non una sete normale. No, una sete che non si estingue, che ci puoi buttare dietro litri e litri di roba e la sete rimane sempre lì. Sono i post-partita, i post-allenamenti, i post-vittoria, i post-sconfitta, il post-infortunio, il post-fine carriera, il post-litigio con la moglie. Cʼè sempre un buon post, se ci stai attento. Anche quando credi che non ci possa essere, se aspetti abbastanza te lo vedrai passare davanti e lasciarti una sete inestinguibile. E cʼerano giorni che passavano tranquilli fino a sera, era allora che i post si facevano più insistenti, che la sete sembrava non darmi pace, fino a quando bastava una lattina di birra, aprirla, e berla lentamente, con la freschezza che mi scivolava in gola. Allora il mondo ritornava a colori. Ma di solito a sera chi ci arrivava? Così ne avevo sempre una scorta nella ghiacciaia in officina. Per ogni evenienza. Quando Bob passò, il giorno dopo, gli dissi: «Vuoi una birra, Bob?»

    «Perché no», mi rispose. Una gliela tirai, e lʼaltra lʼaprii.

    Pioveva: Cristo se pioveva. Da un secolo mi sembrava di non sentire altro che pioggia cadere. Fottuta Irlanda e fottuta la sua pioggia.

    «Ci hai pensato?» mi chiese.

    «Avevo detto due giorni.»

    «Sì, ma tu, ci hai pensato?»

    «Ci ho pensato.»

    «E cosa hai deciso?»

    «Non so Bob. È un gran casino. Guardati attorno, sto ancora pagando questo cesso. Non so se posso permettermi di lasciar andare tutto alla malora.»

    Delle gocce cadevano da un buco nel tetto di lamiera. Rimbalzavano sul cemento facendo PLIN PLIN PLIN.

    «Ted, Gesù, tu sei un giocatore di calcio, non sei un dannato elettrauto.»

    «Non cʼè niente di male a essere un dannato elettrauto.»

    «No. Ma non cʼè neppure niente di bene. Ascoltami. Fallo per me. Giocami queste partite, e poi ti giuro. Te lo giuro sulla mia vita, su quella delle mie figlie, che non ti chiederò più niente finché campo.»

    «Ti ricordi di Westport?»

    «Oh, Cristo, quello non era un vero giuramento.»

    A Westport mi aveva giurato che se avessi accettato di farmi un autogol non mi avrebbe mai più chiesto niente nella vita.

    «Io quel pallone lʼho buttato in porta, Bob.»

    «Lo sai in che condizioni stavo! Se non facevo qualcosa mi portavano via la casa. Avevo bisogno di quei soldi.»

    «Sei partito con il pullman della squadra e ci hai lasciati tutti lì in balìa di tifosi incazzati. È dovuta intervenire la polizia.»

    «Dio quanto mi dispiace Ted.»

    «Ci hanno fatto passare la notte al fresco. Stavo con uno grosso così con tatuaggi fino sul culo.»

    «Tu lo sai che non avevo scelta.»

    «Lo so Bob, ma io quel pallone lʼho buttato in porta. E lʼho fatto per te. E tu mi avevi giurato che non mi avresti mai più chiesto niente in tutta la tua vita.»

    «Ma questa è unʼaltra cosa! Qui ci guadagniamo tutti quanti.»

    «Mi hanno squalificato, Bob. Ventʼanni.»

    «Lo so Ted, lo so, e non hai idea di quanto mi dispiaccia.»

    «Tu lo sai che lʼho fatto solo perché me lʼhai chiesto tu.»

    «Lo so Ted e te ne sarò per sempre riconoscente, ma qui è unʼaltra storia.»

    «Mia moglie se nʼè andata.»

    «Questo non cʼentra niente, le donne se ne vanno sempre.»

    «Bob…»

    «Va bene, scusa, è colpa mia. Glielʼho anche spiegato, ma qui è unʼaltra cosa. Ti ho anche fatto avere il condono, hai visto, tutto cancellato, tutto messo a zero.»

    «Non mi serve più a molto ora. Lo sai che un atleta ha una vita limitata. Ventisette, ventotto anni e poi sei finito. Io ne ho trentaquattro!»

    «Henry Fuentes ha giocato fino a quarantadue.»

    «Sì, ma giocava di schifo.»

    «Ted…»

    Stava per rimettersi a piangere, e lì, quando fui sicuro che lʼavevo in pugno, allora mi decisi a dirglielo. In fondo sono un bravo ragazzo.

    «Senti Bob, mi dispiace dirtelo solo adesso quando avevo già deciso ieri sera, ma…»

    Bob si buttò in ginocchio e mi abbracciò le gambe: «Ti prego, ti prego, ti prego Ted, brutto figlio di puttana, ripensaci, non mi fare questo, non me lo puoi fare, non puoi!»

    «Bob, Gesù, la vuoi smettere?», ma lui restava attaccato alle mie caviglie e gridava «non farmelo, non farmelo, non farmelo.»

    «Bob!» gli dissi tirandomelo via. «Bob ascolta. Avevo già deciso di dirti di sì ieri sera.»

    «Avevi già…» si tirò su e mi abbracciò. «Oh, brutto figlio di cane che non sei altro! Quanto ti amo! Insieme me lo sento che ce la potremo fare. Sì, me lo sento! Avevi già deciso, brutto figlio… Sì, ce la faremo. Sia lodato Gesù Cristo.»

    «Sempre sia lodato. Vuoi unʼaltra birra?»

    «Dobbiamo festeggiare!»

    Tirai fuori altre due birre. Una gliela tirai, lʼaltra la aprii.

    Dopo che Bob se ne fu andato venne la signora Melvin. Quella piccola graziosa vecchietta sorda come una campana. Era uno spasso, la signora Melvin, quando non dovevi averci a che fare. Purtroppo, io dovevo averci a che fare.

    «Ehi Ted, me lʼha messa a posto la mia macchina?»

    «Signora Melvin, la sua macchina avrebbe più possibilità di camminare se fosse una lavatrice.»

    «Come ha detto, caro?»

    «La sua macchina non va!» le gridai nellʼorecchio buono. «Morta! Non cʼè più niente da fare! È morta!»

    «Come?»

    «Gesù signora Melvin, la macchina non va. È finita. FINITA! Capito?» e mossi le mani come per lucidare un cofano. «FINITA!»

    «Sì, sì, la mia macchina. È finita?»

    Giuro che stavo per diventare pazzo. Avevo anche la macchina del signor Cliver. Così la presi e gliela portai lì.

    «Ecco signora Melvin. Come nuova», le dissi.

    «Non sembra la mia.»

    «È perché glielʼho messa a posto. Ora fila come una scheggia.»

    «Bene. Bene.» La signora Melvin ci salì sopra con lʼagilità di una ragazzina. «Quanto le devo Ted?»

    «Sono 75. Le ho anche fatto il pieno.»

    «Ecco a lei», e me ne allungò 80. «Tenga il resto Ted.»

    «Grazie signora.»

    «Lei è un tesoro.»

    «Grazie. E guidi piano.»

    La vecchia partì facendo fischiare le ruote e mandando su di giri il motore. In una nuvola di fumo schizzò fuori dal garage lasciandomi solo con lʼodore di frizione bruciata.

    E la signora Melvin era sistemata. Per il signor Cliver ci avremmo pensato al momento buono. Cʼera sempre la possibilità che morisse prima di venire a ritirare la macchina. Perché preoccuparsi. Il Signore vede e provvede.

    Tirai giù la saracinesca ed entrai in casa. Abitavo nel seminterrato di una casa vittoriana a Portobello. Una specie di cantina. Erano le quattro e sembrava notte. Presi una birra dal frigo, accesi la TV e mi buttai sopra il divano. Bevevo guardando il secondo tempo di un film con John Wayne. Ombre Rosse, ci avrei scommesso. Non ce ne sono altri come Ombre Rosse, un vero must. Dopo la pubblicità apparve il titolo: Sentieri Selvaggi. Bravo. Il fatto è che, diciamocelo, alla fin fine questi film sono tutti uguali. Però poco importa, perché come sapeva ucciderli lui, gli indiani, in pochi ci riuscivano. Questo, importa.

    Avevo dovuto alzare il volume perché i miei vicini urlavano più forte degli indiani. Il marito faceva il muratore, lei lavorava in una casa di riposo, ma in realtà la principale occupazione di entrambi era bere e, quando bevevano, poi le urla non si misuravano più.

    A un certo punto una goccia mi colpì la fronte, alzai lo sguardo e mi parve di vedere una piccola macchia sul soffitto. Chissà cosʼera. Sembrava venire dallʼappartamento dei due pazzi di sopra, ma dal rumore di sedie che sbattevano, non mi pareva una buona idea andare a controllare cosa stesse succedendo. Così andai piuttosto in cucina, presi unʼaltra birra, tornai davanti alla tele e alzai ancora un poʼ il volume. Tirai su la maglietta e mi guardai la pancia. Formava un rigonfiamento tondo e molle. Avevo preso quindici chili. Come avrei fatto a giocare? In fondo, però – mi dissi –, il piede che hai è il tuo, e quando sei un Giotto o un Caravaggio la mano non la perdi certo in tre anni. Inspirai trattenendo la pancia che si ritirò. Rimase un salvagente arrotolato in basso. «Al diavolo», pensai. Mollai il respiro. La pancia ripiombò in una cascata flaccida sopra la cintura, aprii la birra e abbassai la maglietta. Gesù, questi indiani morivano come mosche; non mi stupisce che abbiano perso la guerra.

    La mattina alle sette fui svegliato dal telefono. Era Bob.

    «Ciao Ted, ti ho svegliato?»

    Ero ancora sul divano, avevo la bocca incatramata e gli occhi appiccicati. Mi ero addormentato davanti alla televisione: «Figurati, lo sai che non dormo.»

    «Credevo fossi già sveglio.»

    Mi accesi una sigaretta: «Cosa cʼè Bob?»

    «Starai mica fumando?»

    «Figurati.»

    «Ti voglio in piena forma, ricordati. Non voglio che ti ammazzi con quelle porcherie.»

    «Sei in una botte di ferro. Perché mi hai chiamato?»

    «Tim.»

    «OʼReally?»

    «Ha saputo che tornavi in squadra e ha detto che lui ci sta.»

    «A giocare senza stipendio?»

    «Chi ha parlato di giocare senza stipendio? Tu mi offendi. Vedrai che appena le cose si rimettono bene avremo i soldi per pagare tutti quanti.»

    «Ma fino a quel momento?»

    «Senti Ted…»

    «Dimmi.»

    «I soldi per pagare Tim ce li ho, ma solo per lui. Anche tu dovrai aspettare.»

    «Non cʼè problema.»

    «Mi dispiace.»

    «Ho detto che non cʼè problema.»

    «Veramente?»

    «Croce sul cuore.»

    «Sei un amico.»

    «Lo so.»

    Scrollai un paio di lattine. Ne trovai una mezza piena e tirai giù una sorsata. Calda e sgasata. La mia preferita.

    «Starai mica bevendo?»

    «Cosa ti viene in mente. Ascolta. Dove hai trovato i soldi per Tim?»

    «Mi sono ipotecato la casa.»

    «Cristo Bob, lo sa Karen?»

    «Non glielʼho ancora detto.»

    «E adesso?»

    «Non so. Pensavo che forse sarei potuto venire da te. Non per tanto tempo. Giusto qualche giorno, il tempo di trovare qualcosa di più definitivo, di stabile.

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