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L'inferno è sulla terra
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L'inferno è sulla terra

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Sono stata costretta a vivere in una famiglia dove il male era la normalità. In quella, io mi sentivo l’estranea e anche loro,i miei famigliari, mi vedevano come una strana e non riuscivano a comprendere il mio malessere. In questo romanzo racconto le mie storie, i miei ricordi, le grandi sofferenze e i piccoli sollievi che ho impressi nella memoria. Io pregavo, imploravo aiuto a dio, che credevo sempre lì pronto ad aiutarmi: lui era l'unico che avrebbe potuto fare qualcosa per togliermi dall'inferno. L'inferno era la condizione in cui i miei genitori mi avevano condannata dalla nascita. L'alcol, la violenza e il sesso erano in quella famiglia, delle vere priorità nella vita quotidiana. Con delusione scoprii presto che anche il mio dio se ne era andato, anche lui mi aveva abbandonata lasciandomi sola contro tutti. La mia domanda era allora: “riuscirò mai ad andarmene via da questo inferno o marcirò qui? E se uscirò da questo inferno, riuscirò a tenere a bada i fantasmi che mi seguiranno?
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 27, 2020
ISBN9788831659024
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    L'inferno è sulla terra - Nicoleta Graur

    In quella casa, in quel giardino, in quel cortile tutto sembrava magico. Gli inverni erano bellissimi con tanta neve. Noi con le slitte salivamo a piedi lungo il cortile e scendevamo a grande velocità. La mia slitta si fermava dall'altra parte della strada contro il muro della nostra vicina.

    Così passavamo ore ed ore fino a quando non eravamo zuppi d'acqua, con i piedi gelati e le mani, che non le sentivamo più dal freddo. Soltanto allora entravamo in casa, in quella stanza calda, che ai miei occhi di bambina era grandissima.

    Era una stanza povera ma molto accogliente, con due letti matrimoniali, con materassi enormi imbottiti di paglia. Questi erano uno di fronte all'altro contro le pareti più lunghe e poi c’era un tavolo sotto una piccola finestra che dava al giardino. Sopra a uno dei due letti poi, un'altra piccola finestra si affacciava sul cortile.

    Lì, in piedi su quel grande letto, mi fermavo per ore a guardare dalla finestra i fiocchi di neve venir giù. Era bellissimo. La terra era coperta di un soffice manto bianco e tutti gli alberi coperti di neve.

    Affianco al tavolo c'era la stufa, fatta di mattonelle, con una grande fornace. Noi bambini per scaldarci ci sdraiavamo sopra, facendola diventare un lettino caldo. A volte tornavo in casa infreddolita e mi sdraiavo lì sopra, affianco vicino al gatto: quello anche era il suo posto preferito.

    Dall'altra parte della casa invece, sotto i tetti, scendevano stalattiti che sembravano dei cristalli.

    Una mattina mi svegliai con il profumo di menta e di pane abbrustolito cotti sulla piastra: aprii gli occhi e vidi vicino al camino mio nonno. Lui era un uomo molto alto e magro, taciturno e sul suo viso si leggeva la sua profonda bontà. Ruppi il silenzio: Nonno cosa fai?. Mi rispose che stava facendo colazione. Ne vuoi anche tu? mi chiese. Cosa c'è di buono? risposi. C’era tè alla menta e marmellata di prugne da spalmare sul pane. Gli andai vicino e accettai volentieri.

    Sopra la stufa c'erano due pentole, una con dentro l'acqua e l'altra con la neve. Mio nonno prese delle tazze e le lavò nella pentola dell'acqua, poi andò fuori e ritornò con una cesta piena di pannocchie. Si sedette vicino al camino ed iniziò a sbucciarle. Io non lo vedevo mai fermo, aveva sempre qualcosa da fare mio nonno.

    In cortile era sempre tutto in ordine; questo era invece merito di mia nonna: ogni cosa al suo posto, un posto per ogni cosa! diceva sempre. Lei era una donna alta e robusta e, al contrario di mio nonno, era molto rumorosa.

    La vedevo spesso fare impasti con la farina. Faceva delle cose da mangiare buonissime e una delle cose che preferiva usare nel preparare i suoi intingoli era il formaggio di capra.

    Il nostro cortile era pieno di bestiame: galline, tacchini, un maiale, due caprette e un asinello, il quale aiutava molto mio nonno.

    Quando si avvicinava il Natale si sentivano le urla dei maiali e l'odore di pelo bruciato. C’era molta agitazione in casa della nonna allora: i nostri vicini venivano ad aiutare mio nonno a tagliare il maiale. Con la paglia gli bruciavano il pelo che diventava tutto nero. Quindi lo mettevano su una tavola di legno, lo lavavano con acqua bollente e lo raschiavano usando una lama di coltello.

    Quando finivano di lavarlo, la sua pelle era di un rosa molto chiaro e allora lo coprivano con delle tovaglie.

    Una volta chiesi al nonno se lo potevo cavalcare. Certo rispose. Mi prese in braccio e mi mise sopra il maiale, e così fece poi anche con mia sorellina Lucica che mise dietro di me.

    Poi venne il nonno gli tagliò poi la coda e disse: Sappiamo benissimo che porterà fortuna a colui che la mangerà! A chi la diamo?. Allora io e mia sorella a turno gridammo: A me! A me! No a me! A me!.

    Lui la prese e la tagliò a metà, e ci accontentò così tutte e due. Il nonno ci dava da mangiare anche le cotiche che erano tenere e saporite.

    Quando i nonni finivano di lavorare il maiale, prendevano le parti più buone e le facevano fritte e invitavano a mangiarle tutti quelli che li avevano aiutati. Preparavano metri di salsiccia, stomaco di maiale ripieno e altre cose prelibate.

    A Natale era anche usanza che i bambini andassero di porta in porta a raccogliere dolci e soldini cantando canzoni natalizie.

    Il bellissimo inverno poi passava e arrivava la primavera: dalla finestra guardavo uscire da sotto la neve i primi fiori, i bucaneve e la neve poco alla volta si scioglieva. Gli alberi iniziavano a germogliare e poi era la volta dei fiori. Tantissime, le api volavano di fiore in fiore e poi entravano nelle canne di bambù lasciando il loro polline che poi ricoprivano con la terra. Io scoprivo il polline pulendolo dalla terra e, spezzata la canna del bambù, ne mangiavo il miele all’interno. Ne mangiavo uno, poi un altro e poi un altro ancora… fino a quando non ero sazia.

    Il cortile era pieno di erba e camomilla e tantissime farfalle colorate volavano da tutte le parti. Se ne vedevo una, posarsi su un fiore andavo verso di lei per prenderla. Ero piccola ma piena di vita. Per me tutto era magico.

    Avevo un fratello più grande, Patrik, il fratello maggiore e poi c’era Fana, un’altra sorella e infine c'era Lucica, la più piccola.

    Ero una bambina di carattere dolce, con i capelli lunghi di colore castano chiaro legati in due trecce che scendevano fin sulle spalle e due splendidi occhi verdi. Accompagnavo spesso la nonna in paese e ricevevo così tanti complimenti per quanto ero bella che, intimidita, mi nascondevo dietro la nonna.

    Ma come sei bella piccolina mi dicevano come ti chiami?. Allora mia nonna rispondeva che ero bella ma sfortunata. Tutti questi bambini, diceva sono sfortunati perché la mamma li ha lasciati tutti e quattro ed è scappata con un altro uomo.

    Io mi domandavo perché mia nonna dicesse quelle parole. Io non mi sentivo sfortunata allora: avevo lei e il nonno e il papà e i fratelli. Io gli volevo bene a loro e loro me ne volevano.

    Mia nonna, poi, aggiungeva che, nonostante la vecchiaia, era lei la sola a curarsi di questi noi e concludeva: non so come faranno quando morirò!.

    Gli anni passavano e io sentivo tanto parlare di quella donna, mia madre, che era scappata di casa e ci aveva abbandonati ed erano solo parole brutte quelle che udivo a suo proposito.

    La storia della sua fuga da casa era, stando a quello che mi dicevano, più o meno così: mio papà trascorreva tutta la settimana fuori per lavoro (lui guidava il camion e trasportava pietre e sabbia), allora la mamma, sentendosi sola, cercava la compagnia di altri uomini, fino a quando, un giorno la trovò e si innamorò e, da lì a poco, se ne andò di casa e lo fece senza guardarsi indietro.

    Quando partì di casa, Patrik aveva dieci anni, Fana sette, io solo tre e mezzo e la piccola Lucica uno o poco più.

    I momenti più belli della mia infanzia erano le visite di mia zia Marianna suo marito Gigi e i loro due figli. Loro venivano da Bucarest ci portavano tanti regali: giocattoli, vestiti, dolci. Quell’estate mi portarono con loro in vacanza a Predeal, in montagna.

    Lì trascorsi una bella vacanza. Dopo questa, quando i miei zii mi riportano a casa, essendo impegnati col loro lavoro, lasciarono da mia nonna anche mio cugino Cris.

    Tra me e Cris si veniva creando un legame bello e fortissimo, lui era anche molto bello. Era perfetto, tanto che sembrava un personaggio uscito da un cartone animato. Eravamo ormai inseparabili. Ci addormentavamo assieme nel fienile e inventavamo giochi e ci eravamo promessi che da grandi avremmo preso la casa insieme. Mai avremmo pensato che presto tutto questo sarebbe poi finito. Io da casa di mio padre spesso guardavo nel cortile di mia nonna cercandolo e lo vedevo lì seduto che a sua volta mi guardava.

    Casa nostra si trovava in un paesino piccolino a quindici chilometri da Tulcea: un luogo tranquillo dove non si vedevano macchine e tutti usavamo cavalli o asinelli al loro posto.

    Noi non avevamo una fontana in casa e quella più vicina era a due chilometri da casa. Allora si andava al pozzo con il carro trainato dall'asino dentro cui mettevamo dei grandi contenitori di plastica per trasportare l’acqua.

    Di fronte al cancello di casa mia c'era la strada principale e dall'altra parte della strada la casa dei miei vicini che era a sua volta confinante con la collinetta che portava ad un lago. A questo si arrivava scendendo giù per una stradina sterrata.

    La domenica mio padre andava a pescare e portava a casa secchi interi di pesci e granchi. Sul lago si vedevano tante canne sbucare fuori da tantissime barchette mentre le donne stavano sulla riva con i piedi in acqua a riposare.

    Alcune lavavano tappeti e coperte su qualche pietra e i bambini facevano un gran baccano. 

    Sull'acqua c'erano ninfee bianche e gialle e il papiro verde si vedeva spuntare dalla riva in lontananza dall'altra parte del lago assieme ai cespugli di cardi. Noi cercavamo questi cardi e quando ne trovavamo uno ce lo mangiavamo con grande soddisfazione.

    Una domenica mattina mio padre si svegliò molto presto e andò a pescare mentre il sole bussava alla mia finestra e sembrava dirmi: dai pigrona svegliati è tardi!. Allora mi alzai dal letto senza vestirmi, perché ero già vestita dal giorno prima, e andai in giardino. Presi una pera.

    Poi mi venne in mente una splendida idea: se faccio una sorpresa a papà, magari mi tiene a pescare pure a me. Allora mi misi in cammino. Era lì seduto su una grossa pietra con le canne nell'acqua. Quando lo chiamai lui mi rimproverò immediatamente: No! L'acqua è profonda! Da sola non c'è la fai!, ma come se nulla fosse io ero già nell'acqua che sprofondavo.

    Poi, improvvisamente, mi sentì presa per i capelli e riportata in superficie. Quando mi resi conto di quello che era successo mio padre mi rimproverò duramente.

    Come per quella volta, tante altre volte il mio angelo custode fece bene il suo lavoro.

    Un'altra volta, infatti, andai con i miei fratelli al lago a rinfrescarci e, pur non sapendo nuotare, presi il secchiello e lo capovolsi e tenendolo con le mani iniziai a nuotare. Il secchiello, chiaramente, presto si riempì d' acqua e io andai giù come un sasso. Anche in questo caso, per fortuna, mi vide la nostra vicina Marianna che in un attimo mi tirò fuori.

    Una volta fui di nuovo graziata quando misi un filo nella presa della corrente e nonostante questo, non successe niente: io non capivo perché papà diceva sempre che toccando le prese di corrente si rischiasse di morire.   

    Un giorno una cosa ancora più grave mi successe. Mia sorella maggiore, Fana, mi disse infatti con aria di sfida: hai coraggio di bere questo bicchierino?. lo guardai: era un liquido rosa. Io accolsi la sfida e dissi di sì. Lei disse che non ci credeva, di farle vedere. Allora presi quel bicchiere tra le mani e lo bevvi in un fiato: era alcol etilico.

    Un attimo dopo mi si annebbiò la vista e mi senti male. Avevo bisogno di aiuto, di qualcosa che mi potesse salvare. Allora andai a casa della nonna, ma non le dissi nulla. Lei era molto indaffarata, era arrivato suo genero da Bucarest che era venuto a comprare il miele d'api dalla nostra vicina.

    Già prima del suo arrivo mia nonna ci aveva già lungamente avvisati di non toccare il miele, perché non era roba nostra ma io, in quel momento, stavo così male che sentivo le ginocchia molli e le braccia pure e quella nebbia non mi passava dagli occhi. Pensai che stavo per morire. Allora senza pensarci mi misi vicino a quel contenitore di miele e cominciai a mangiarlo.

    Dopo un po' la nebbia dai miei occhi sembrava essere sparita e dopo aver dato di stomaco e dopo aver dormito non so quanto, mi sentii finalmente meglio. Nonostante questo, per qualche tempo, continuai ancora vomitare ogni volta che mangiavo qualcosa. La natura però sembrava aver preso la sua decisione: dovevo continuare a vivere e nessuno si accorse mai di quello che era successo.

    A noi bambini ci guardava allora la nonna, la mamma di mio papà, e in sua assenza ci guardava mio nonno. Il nonno lo vedevo spesso vicino al tavolo indaffarato a rompere noci con il manico del coltello. Un coltello costruito da lui. Poi ci metteva del sale e le mangiava.

    Ricordo che muoveva il mento in modo strano. Un giorno gli chiesi: nonno perché mangi così?. Lui mi rispose: perché non ho i denti piccola mia e poi il silenzio.

    Aveva una voce triste e lo sguardo sempre fisso. Chissà a cosa pensava? Forse a quel suo figlio ucciso a trentasei anni o forse all'altro che scontava una pena per complicità in omicidio. Mentre mia nonna andava spesso a trovarlo, questo mio zio di nome Nello che era nella galera di Cluj-Napoca, mio nonno non ci andò nemmeno una volta. Forse era deluso o arrabbiato. Solo lui poteva saperlo.

    Ogni volta che la nonna era via era il nonno ad occuparsi di noi e di tutto il resto, compreso il bestiame che c'era in cortile.

    Lui in estate andava a fare la guardia ai campi di angurie e in quelle occasioni, una volta alla settimana, la nonna ci mandava a portargli da mangiare. Mio fratello metteva la sella all'asinello, poi lo legava al carro e noi ci salivamo sopra per metterci in cammino.

    Quando si arrivava da mio nonno, lui era così contento che esclamava: per i miei nipotini preferiti aprirò l'anguria più grande e più dolce che c'è!.

    La notte che andavamo a portagli i viveri, rimanevo a dormire lì, ospitati nella capanna costruita da lui: una capanna fatta di bambù con a terra del papiro sovrastato da coperte, per non sentire l'umidità.

    Il mattino seguente andavamo a raccogliere le lumache e le arrostivamo sul fuoco e tutto era buonissimo.

    Poi arrivava il momento del ritorno e il nonno ci mandava a casa dopo aver caricato il carro con le angurie e con il fieno aiutato da mio fratello… e così si andava avanti finché non finiva la stagione.

    Poi venne un giorno che per sempre segnò la mia giovinezza. Fu il giorno infausto in cui mio padre arrivò a casa con una signora e i suoi due figli: era una donna di corporatura piccola e molto magra, e aveva i capelli lunghi e neri raccolti in una coda dietro la nuca. Gli occhi erano azzurri e fuori dalle orbite e la faccia era così magra e bianca che si vedevano distintamente le ossa.

    Lei è Maria disse mio padre da ora in avanti sarà la vostra mamma e loro i vostri fratellini George e Constantin.

    Questi, erano due ragazzi molto diversi l'uno dall'altro. George, che era il maggiore, aveva i capelli neri e gli occhi scuri. Era alto e snello. Constantin, invece, era basso e un po' cicciottello. Era rosso di capelli e aveva le lentiggini e aveva preso gli occhi dalla madre.

    Io, che ancora non potevo immaginare quanto sarebbe seguito da lì a poco, in quel momento fui felicissima all’arrivo di questi nuovi componenti della nostra famiglia: a casa furono giorni di festa. Ballavamo, cantavamo e il vino andava come l'acqua. Io, tra me e me, pensavo: finalmente avrò anch'io una mamma.

    Mio padre ci annunciò che da lì in poi avremmo abbandonato la casa dei nonni e saremmo tornati a vivere a casa con lui. Le opposizioni di fratello e mia sorella furono forti tanto che alla fine mio padre dovette letteralmente trascinarli di peso e solo mio fratello maggiore ebbe la meglio e poté restare coi nonni.

    Io non potevo immaginare quanto il mio mondo da quel giorno

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