La Repubblica nel pallone: Calcio e politici, un amore non corrisposto
By Marco Piccinelli and Fabio Belli
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La Repubblica nel pallone - Marco Piccinelli
ATENA
Introduzione
Gli italiani perdono le partite di calcio come fossero guerre e le guerre come fossero partite di calcio
. Frase attribuita a Winston Churchill, probabilmente apocrifa: al Primo Ministro inglese non importava granché del calcio né degli italiani. Ma è altrettanto vero che questo sport, nel corso dei decenni, ha dimostrato di esercitare un fascino smisurato sui nostri concittadini, compresi coloro che nominalmente dovrebbero tenere in mano le redini del paese, fascino che va oltre la semplice passione.
La politica in Italia corteggia il calcio con passione, ma è dai tempi del G iovane Werther che non si vede tanto amore riposto sul versante sbagliato. Al contrario del romanzo di Goethe, verrebbe da dire con un pizzico di cinismo che stavolta manca il lieto fine, nessuno sceglie gesti estremi, ma si continua a corteggiare allo sfinimento il dio pallone, senza riscontri. Corteggiarlo o tirarlo per la giacchetta con sentenze poco appropriate, così come ha fatto recentemente (7 ottobre 2019) Ignazio La Russa, senatore in quota Fratelli d’Italia, a proposito di Inter-Juventus, twittando di centravanti e genitali maschili, gli ultimi proporzionati alla bravura del ruolo in oggetto.
Ci sono molti motivi per i quali calcio e politica hanno flirtato poco, dando vita a storie grottesche, o in altri casi a manovre a tenaglia che hanno riportato al punto di partenza, come in una sorta del gioco stregato, chi voleva lasciare un segno nella storia, senza riuscirci. La formazione, l’undici titolare di questo ideale filo conduttore tra calcio e politica in Italia, passa attraverso paradossi, come i leader di sinistra magneticamente attratti dalla Juventus, che Marco Rizzo, dall’altra parte della barricata torinese, racconta come molto attenta alla macchina del consenso che il calcio sapeva generare già negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ci sono Berlusconi ante litteram, come l’Achille Lauro che capì che il sangue dei napoletani si scioglieva per il pallone alla stregua di quello di San Gennaro. Ci sono Cavalieri
in potenza, come Gian Mauro Borsano, che visse – spazzato via da Tangentopoli – il sogno di far diventare il Toro una sorta di nuovo Milan, quando di Milan ce n’era già uno guidato dal Berlusconi-Berlusconi, quello vero, che col calcio amoreggiava da quando scopriva quindicenni campioni in erba, facendo dannare in panchina Dell’Utri e Zucconi, altro che Sacchi e Capello.
E poi, dal sacro dal profano, dai Presidenti della Repubblica a personaggi come Auriemma e Di Stefano, che dal calcio cercavano un riconoscimento popolare difficile da ottenere in altre sedi. E, sullo sfondo, le due grandi Balene Bianche del Paese: la Democrazia Cristiana di De Mita e Andreotti, che, mossi da passioni calcistiche diverse, sapevano agire nell’ombra come pochi, e Roma, la città che ha divorato anche nel nome del calcio personaggi passati dagli altari alla polvere nel tempo di due spaghetti all’amatriciana.
Forse aveva ragione Churchill, sempre che avesse davvero detto quella frase, sempre che davvero intendesse che agli italiani non mancano il senso del tragico e del ridicolo, semplicemente li mescolano male e con pessimo tempismo. E il calcio, forse l’ultima grande commedia dell’arte dei tempi moderni, in questi undici esempi fa capire come non sempre alla maschera che ride corrisponde una storia che piange. E viceversa.
I Presidenti della Repubblica nel Pallone
De Nicola… De Nicola… Sarti , Burgnich , Facchetti, Bedin,
Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini, Suárez, Corso.
In Ecce Bombo, pellicola cult di Nanni Moretti, il protagonista Michele prepara dei ragazzi all’esame di maturità. Al momento di ripetere i nomi dei Presidenti della Repubblica (e dire che quando il film uscì nelle sale, nel 1978, eravamo solo a quota sei), dopo aver ripetuto timidamente De Nicola…
come abbrivio, i ragazzi declamano con un moto liberatorio la formazione della Grande Inter del mago Herrera.
Delle eventuali e possibili passioni del primo capo dello Stato, Enrico De Nicola, si sa poco o nulla. Erano anni in cui bisognava far ripartire l’Italia dalle macerie della guerra. Il gossip pallonaro sui politici era di là di venire, ma già sul secondo Presidente, Luigi Einaudi, la letteratura si fa più fitta. Piemontese doc di Carrù, in provincia di Cuneo, padre del celebre fondatore dell’omonima casa editrice, Giulio, e nonno del compositore e musicista di caratura internazionale, Ludovico, Luigi Einaudi era juventino. Il calcio italiano lo ricorda per l’inaugurazione dello Stadio Olimpico, nel 1953, evento dal forte valore simbolico per ciò che le Olimpiadi di Roma 1960 avrebbero rappresentato per il boom del Paese. Ma è una sua citazione a essere particolarmente famosa: Tutti nasciamo spontaneamente virtuosi, intelligenti, liberali e juventini. Taluni, poi, crescendo si corrompono e diventano imbecilli, interisti o milanisti
. Pur essendo uomo delle istituzioni, a Einaudi non mancava un certo senso dell’umorismo e dello sfottò che parrebbe più moderno di quanto ci si possa aspettare, vista l’epoca.
Il toscano Giovanni Gronchi fu famoso più per un francobollo che per il calcio, spettacolo che invece Antonio Segni, eletto nel 1962, non disdegnava. Sassarese purosangue, Segni seguiva con simpatia le vicende della squadra della sua città, la Torres, negli anni in cui il Cagliari iniziava a farsi strada verso un sogno chiamato scudetto. C’era ancora tempo, però. Segni venne avvistato allo storico stadio dell’Acquedotto in una partitissima del 1962, il derby sardo contro il Cagliari in Serie C, affiancato dal presidente della Regione Efisio Corras. Tutta l’isola guardava con simpatia al Cagliari, ma Segni non tradì mai la Torres, tanto da esserne nominato presidente onorario: divenne così l’unico nella storia a essere stato sia Presidente della Repubblica che di una squadra di calcio.
Torinese e socialdemocratico, Giuseppe Saragat venne eletto Presidente della Repubblica nel 1964 e chiuse il suo settennato nel 1971. Calcisticamente, un tempismo perfetto: fu il primo Presidente a salutare una Nazionale campione. Nel 1968 l’Italia vinse in casa, proprio in quell’Olimpico inaugurato da Einaudi quindici anni prima, il Campionato Europeo, battendo la Jugoslavia per 2-0 nella ripetizione della finale (la prima partita terminò in pareggio). Saragat fu il primo capo dello Stato a ricevere gli azzurri, con Gigi Riva e Giacinto Facchetti in testa alla delegazione, al Quirinale per congratularsi del trionfo. E andò vicino a uno storico bis nel 1970, quando l’Italia perse la finale mondiale in Messico contro il Brasile di Pelè.
Poi toccò a Giovanni Leone, napoletano verace e primo Presidente della Repubblica davvero pazzo per il calcio. Tifoso della squadra della sua città, già ai tempi della sua presidenza del Consiglio non esitava a ostentare un amore per i colori azzurri che prescindeva dalla categoria di appartenenza, tanto che recentemente il quotidiano monzese Il Cittadino
ha ricordato la sua presenza in tribuna il 15 settembre 1963 per seguire col fiato sospeso un Monza-Napoli in Serie B, con annesso cornetto portafortuna [1] . Nell’articolo si parla anche della presenza del figlioletto Mauro. Un altro figlio di Giovanni Leone, Giancarlo, sarà invece tifosissimo della Lazio, che in quegli anni di settennato paterno vince lo storico scudetto del 1974. E il club biancoceleste ricorda bene Giancarlo Leone, che nel 1974 passò la stagione ad allenarsi agli ordini di Tommaso Maestrelli con Chinaglia & Co. [2]
Su Sandro Pertini, primo socialista a salire al Quirinale, nel 1978, la letteratura sportiva è sin troppo abbondante e legata principalmente al trionfo mondiale del 1982 in Spagna. Mai un Presidente della Repubblica aveva visto la nazionale azzurra diventare campione del mondo. Accadde in quella folle estate in cui la sfavoritissima Italia mise in fila l’Argentina di Maradona, il Brasile di Socrates, la Polonia di Boniek e infine i tedeschi, in una finale al Bernabeu alla quale Pertini volle assistere di persona, lasciandosi andare a memorabili battute (l’Adesso non ci pigliano più
al rigore fallito da Cabrini) e altrettanto