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With Love: Epifanie mie e di Kurt Cobain nella Torino Sociale degli Anni Novanta.
With Love: Epifanie mie e di Kurt Cobain nella Torino Sociale degli Anni Novanta.
With Love: Epifanie mie e di Kurt Cobain nella Torino Sociale degli Anni Novanta.
Ebook380 pages5 hours

With Love: Epifanie mie e di Kurt Cobain nella Torino Sociale degli Anni Novanta.

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About this ebook

“Il libro è un tentativo di conciliare una mia essenziale autobiografia giovanile – diciamo un tardivo romanzo di formazione – con la storia della Torino Underground mid80/90 e l’indiscutibile influenza che la coeva scena indie/alt americana ebbe su quella generazione italiana essendone talvolta addirittura debitrice – loro a noi intendo – se non sorprendentemente tautologica. Inoltre la forma ibrida tra il romanzo, l’antologia di recensioni e articoli, il saggio storico-politico, musicale e l'(auto)biografia si offre come un timido tentativo di superare i rigidi schemi narrativi della letteratura e del saggio.” Vi sono inoltre numerose fotografie inedite e/o particolarmente significative di quel periodo, flyers, manifesti che potrebbero essere selezionate e pubblicati anche in un laconico ma espressivo bianco e nero, rare e vissute testimonianze, saggi in appendice, ed una esaustiva bibliografia e citazione minuziosa delle fonti. Il tutto imbevuto dalla fascinazione delle correnti musicali, letterarie e politiche che all’epoca hanno contribuito alla mia formazione umana, sociale ed artistica. Aneddoti vissuti in prima persona, occupazioni di squat e università, concerti, viaggi lisergici nella Parigi tardo bohemien di inizio anni 90 ed il ritorno alla quotidianità torinese che ci spingeva a prenderci i nostri spazi mentre ascoltavamo cassette trovate nelle distribuzioni dei centri occupati ed emulavamo quei ragazzi figli della working class anglo americana che dicevano e suonavano come e peggio di noi le stesse cose. Il lavoro ha anche una generosa prefazione dello scrittore, musicista e critico musicale Max Nuzzolo ed una bozza di copertina che allego, oltre a due saggi in appendice che contestualizzano la particolarità della Scena Torinese di quegli anni e la sua tautologica comparazione con tutto ciò che accadeva nel mondo musicale alternativo internazionale e con Seattle e Cobain in particolare. I racconti sono intersecati da una minuziosa ricostruzione storica e cronologica sia dei cambiamenti in campo politico internazionale, ma anche in ambito artistico e controculturale. Recensioni ed articoli, interviste e ricostruzioni, playlist e telefonate immaginarie postume tra Kurt e Layney Staley degli Alice in Chains, il dio minore di Seattle. Le digressioni sulla letteratura con Tondelli e la Generazione X, le minimonografie su Disciplinatha, Fluxus, Kina, Nerorgasmo, Negazione, Church of Violence, Marlene Kuntz, RATM, la scena Big beat Britannica post rave dei Prodigy e Massive Attack. Le vicende comic postpunk legate alla mia band crossover dell’epoca: gli Unconditional poi Malasangre e il mio inserimento dentro la scena antagonista torinese. La narrazione romantica dei luoghi miei e di Kurt supportata poi in appendice dalla ricostruzione storico-sociale dei medesimi. Visioni ed epifanie, sangue e merda. Poesia d’acciaio e di cemento.
LanguageItaliano
Release dateMar 19, 2020
ISBN9788833860763
With Love: Epifanie mie e di Kurt Cobain nella Torino Sociale degli Anni Novanta.

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    Book preview

    With Love - Domenico Mungo

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Chiusi in una scatola Prefazione di Massimiliano Nuzzolo

    Premessa dell’autore

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III – Motorcity di piombo

    Per una storia della Torino antagonista degli anni ’80 e ’90

    Capitolo IV – Un piano quinquennale la stabilità! (1989-94)

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX – Epifania milanese. Rape Me

    Capitolo X – Epilogo

    Appendice – Leggende ed ultime epifanie

    Bibliografia essenziale

    Ringraziamenti e credit

    contrappunti

    ©

    2019

    Miraggi Edizioni

    via Mazzini

    46

    ,

    10123

    Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Per le immagini riprodotte in copertina, l’Autore ringrazia:

    Beppe Grumbi Melchionda, Anastasia La Paja Marcía, Gabriele Ragio

    Castelli, pagina Facebook Delta House

    Finito di stampare a Borgoricco (PD)

    nel mese di dicembre

    2019

    da Logo srl

    per conto di Miraggi Edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    Prima edizione digitale: gennaio

    2020

    isbn

    978-88-3386-076-3

    Prima edizione cartacea: dicembre

    2019

    isbn

    978-88-3386-074-9

    Bisogna imparare a convivere con i nostri demoni

    Bisogna imparare ad accovacciarseli sulla spalla

    Bisogna sapere come Nutrirli con paziente devozione

    E condividere

    Con loro

    L’Inferno

    Al quale

    Ci hanno condannato.

    D.M.

    Torino è la mia città

    Non è solo uno slogan

    O il ritornello

    Di una splendida poesia Punk

    Ma è il suono delle strade

    La distorsione dei nostri sogni

    È la nostra vita

    Che si ramifica dalle nostre viscere

    Fin dentro

    La carne ed il sangue dei nostri padri e dei nostri fratelli

    Ce la riprenderemo

    Torino Con la forza Dolce e violenta

    Di

    Un fiore nel cemento.

    D.M.

    Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey! Hey!

    K.C.

    Dedicato

    a

    Marco Klemenz

    Maurizio Mauzed

    e Marco Burzone

    A me e a te. Che hai frantumato

    il mio cuore in mille piccoli pezzi.

    Con amore.

    K.C.

    Punk is musical freedom.

    It’s saying, doing and playing what you want.

    In Webster’s terms, nirvana means freedom from pain, suffering, and the external world, and that’s pretty close to my definition of punk-rock.

    Kurt Cobain

    (Kurt St. Thomas, Troy Smith, Nirvana: The Chosen Rejects,

    St. Martin’s Griffin, New York 2004.

    Chiusi in una scatola Prefazione di Massimiliano Nuzzolo

    I NIRVANA

    Non sanno decidersi

    Se essere punk o REM.

    L’indecisione può spesso

    A volte uccidere un gruppo e

    I Nirvana hanno tendenze suicide

    PECORE

    Dal negozio più vicino

    Kurt Cobain, Diari

    Ho chiesto a varie persone di dirmi le prime cose che venivano loro in mente pensando ai Nirvana. Ma Nirvana chi? Il gruppo? Sì. Tutti hanno citato il cardigan giallo di Kurt Cobain. In molti il bambino nell’acqua che insegue il dollaro raffigurato sulla copertina di Nevermind. Ad alcuni è venuto in mente lo splendido Unplugged di Mtv con i Meat Puppets e il chitarrista dei Germs (con la sublime cover di «The Man Who Sold the World» di David Bowie). E ridendo mi sono ricordato le parole annebbiate di un amico perduto nel tempo, ormai manager a Londra, seduti sul divano di casa mia, riferendosi al video di «The Heartshaped Box»: «Guarda che occhi da pazzo… Ormai è completamente fuori di testa». Ad alcuni poi è venuta in mente una potente esplosione, per qualcuno un’esplosione sonora, di chitarra distorta, di voce roca, di tamburo percosso a ritmi serrati e incalzanti, per altri di arma da fuoco, inesorabile e risolutiva, di fucile. Non potevano riaffiorare ricordi di droga e di Seattle, ma questa è storia. A me è venuto in mente il mal di stomaco e poi Boda o Boddah che dir si voglia.

    Non è facile per me pensare ai Nirvana.

    Provo un dolore fisico se penso a quegli anni e a quella band di Aberdeen.

    So per certo che la musica non è più stata la stessa dopo i Nirvana. E leggendo le pagine di Domenico Mungo so che anche per lui è così. Il grunge (e poi l’alternative rock), per quelli come noi, è stato, pur forse senza volerlo, la musica della post adolescenza, noi giovani carini e disoccupati e poi, a sprazzi, inevitabilmente single, con l’università strasudata, così come i vizi, alla ricerca di un’identità dove era stata totalmente cancellata – per una volta noi italiani eravamo uguali agli altri ragazzi del mondo – arrivati troppo tardi per essere profondamente punk o dark, quelli del no future come slogan, figli di crisi economiche e petrolifere, di Br, di attentati e rapimenti, e troppo grandi per appassionarci sinceramente ai fenomeni mediatici dello showbiz a venire. E così ci siamo ritrovati i Nirvana a tentare di riempire un grande vuoto. A incarnare il vuoto di una generazione perduta, a disagio, dannatamente oltre quella hemingwayana, una generazione senza alcuna prospettiva davanti, che si accostava ai primi e seri coinvolgimenti sessuali con malattie dai nomi terrificanti come lascito del passato, la generazione X di Douglas Coupland, con il solo Nulla a giganteggiare a intermittenza proprio davanti agli occhi. Il mondo si andava globalizzando, nasceva il primo sito su World Wide Web e iniziavano i favolosi anni Novanta, con la caduta del muro di Berlino che avvicinava i giovani d’Europa. Il rock andava in Tv e in classifica. L’Iraq invadeva il Kuwait con conseguente prima Guerra del Golfo. Finiva l’Apartheid in Sudafrica. Tondelli moriva. Scoppiava la guerra nell’ex Jugoslavia. L’Italia, dopo un deludente terzo posto ai mondiali casalinghi, si avviava al suo declino economico con Mani Pulite. Morivano Falcone e Borsellino. La lega diventava movimento politico e Berlusconi nel maggio del 1994, un mese dopo la morte di Cobain, sedeva alla Camera per la prima volta come presidente del Consiglio. C’era di che toccarsi le palle.

    Il mio primo incontro con i Nirvana fu con Bleach sulle pagine di un «Rockerilla» in bianco e nero e poi in audiocassetta, c’era ancora Chad alla batteria. Portavo i capelli lunghissimi e ascoltavo gli Screaming Trees (e i Jane’s Addiction). Fantastiche entrambe le formazioni dal vivo. Era stato il nome Nirvana ad attirarmi, venivo dalla musica dark e psichedelica e nutrivo una passione per le filosofie orientali. Ricordo che dopo il primo ascolto pensai: un nome che non c’entra un fico secco con la loro musica. Ma quella candeggina avrebbe lasciato il segno sui miei Levi’s…

    Per descrivere la musica dei Nirvana ho sempre pensato a un incrocio con due autobus che si scontrano a folle velocità, da una parte quello dei Beatles, dall’altra quello dei Pixies, roadies e groupies compresi, mentre al semaforo stanno fermi i Melvins. I Nirvana erano tremendamente pop, terribilmente pop, e allo stesso tempo incredibilmente aggressivi e sinceri nelle innumerevoli contraddizioni di Kurt.

    All’epoca adoravo i Mudhoney, lontani dai riflettori, e apprezzavo i Soundgarden per la loro tecnica, evitavo con metodo gli Alice in Chains effettuando gesti scaramantici ogni volta che sentivo pronunciare il loro nome (che voce però quel Layne!), ed evitavo pure i Nirvana.

    Ma dei Nirvana, inevitabilmente, mi rimaneva in testa la musica. E non riuscivo proprio a evitare di trovarmeli tra i piedi, anche dopo la morte di Kurt, proprio come ora.

    Figli della classe operaia, distruggevano a suon di rumore l’esistenza preordinata malamente dai genitori. Privi di ideologie, di miti e di dei in cui credere (dio è gay scriveva Cobain) creavano il vuoto intorno. L’isolamento. Cantavano l’emarginazione. E più tentavano di demolire, più generavano l’amore e la devozione dei loro fan, e diventavano parte integrante dello showbiz; più Kurt assomigliava inconsapevolmente (o consapevolmente e con condiscendenza programmatica?) a un Cristo destinato alla croce, più i Nirvana diventavano immagine dei quattrini e della speculazione legata alla musica in heavy rotation su Mtv. Chi non ricorda il basso di Novoselich volare in alto e sfuggire dalle sue mani provocandogli una ferita alla fronte, e la furia folle di Cobain che sferza l’aria con la sua chitarra distruggendola sul palco e sulla batteria di Grohl?

    Impossibile non amarli in certi momenti.

    Invece, nutro ancora un sincero disprezzo per Courtney Love.

    Anni fa ho letto i diari di Cobain, me li hanno regalati. I Nirvana tornavano ancora nella mia vita. Ho riso e pianto di quelle note scritte a penna, a matita, degli elenchi stilati in modo tanto maniacale da risultare comici, di quei ricordarsi di fare benzina e ruba le pecore nel negozio più vicino, delle ossessioni di un cantante predestinato al "club dei 27, di quel suo grattarsi a sangue, del suo mal di stomaco, e in quelle bozze di canzoni, in quei disegni, in quei vaniloqui così disperanti, ho rivisto la storia dei Nirvana al contrario e non ho potuto far altro che arrendermi all’evidenza.

    I Nirvana hanno lasciato il segno.

    Da questo non si scappa.

    Me ne sono accorto anche di recente, quando io e Ele, la mia compagna, quasi d’istinto, abbiamo chiamato Polly il nostro gattino appena nato, perché per un errore del veterinario, pensavamo tutti fosse una femmina… Polly wants a cracker

    In questo inusuale e irregolare racconto ricco di aneddoti, romanzo­/ricordo, Mungo pur mantenendo un gusto bibliografico abbandona la penna di giornalista, si toglie la corazza e racconta le sue esperienze e le sue emozioni attraverso i Nirvana, e Bleach, Nevermind, In Utero, i concerti mancati per colpa del destino e quelli ai quali ha partecipato, sempre per colpa del destino. I videoclip della band visti durante un viaggio a Parigi, tra stonature e vita vissuta, diventano il pretesto per ricordare la sua storia e quella della sua città, Torino, di ciò che è avvenuto a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e il primo lustro dei Novanta, una Torino fatta di Fiat, di operai e cassa integrazione, di occupazioni, di scontri, di concerti, di ragazze bellissime e inarrivabili, di rivalsa sociale, di studio e di ozio, di Pavese, di poeti dimenticati e band storiche (Nerorgasmo sopra tutti). Di canzoni incise nella memoria. Dolorosamente. All’ombra della Mole Antonelliana, sotto i portici più lunghi d’Italia, con una voce sincera, a tratti aggressiva e gridata, a tratti commossa nel ricordo, come trascinata dal maggiore fiume nazionale, in assonanza con la band americana, tra recensioni, testi, telefonate immaginarie e realtà, Mungo narra la difficile storia di crescere con amore in un mondo che si avvicina progressivamente al baratro.

    Premessa dell’autore

    Non leggere il mio diario quando non ci sono.

    OK, adesso vado a lavorare.

    Quando ti svegli stamattina, leggi pure il mio diario.

    Fruga fra le mie cose e scopri come sono fatto.

    Kurt Cobain, Diari

    Non sarà una biografia agiografica – in primis in virtù della mia natura iconoclasta che mi impedisce peana e inni anche per un personaggio come Cobain, personaggio che ho adorato, amato e odiato in egual misura e che ancora oggi risulta essere per me un riferimento letterario, come Pavese, Pasolini e Tondelli, più che una rockstar viziata, ipocondriaca e terribilmente eroinomane. Ma tanto meno sarà solo un’opera giornalistica. Una bieca ricerca di dati, pettegolezzi, retroscena, aneddoti e memorabilia usi a ingrassare le royalties di sedicenti biografi e giornalisti musicali e il fatturato di insensibili major dell’editoria.

    No, sarà qualcosa di più consono a quell’angelo drogato caduto in volo che fu Kurt. Icona, nonostante se stesso, della fabbrica del punk-rock. Quella fabbrica che era diventata la più grande truffa del rock’n’roll. Egli stesso lanciò inconsapevolmente una linea di moda di camice a quadri non appena Nevermind scalò le chart. E subito rinunciò a farsi novello Johnny Rotten per candidarsi al ruolo di eterno Sid Vicious.

    Quella fabbrica del punk che lo stritolò perché troppo tenero ed emaciato. Vulnerabile e sensibile. Come un angelo, come un demone.

    Sarà un racconto monco, perché non percorrerò tutta la parabola dei Nirvana e di Kurt. Ometterò molto, o meglio, racconterò la storia dal mio punto di vista obliquo, verticale rispetto alla prospettiva dominante, sotterraneo ed eversivo rispetto alla canonizzazione ufficiale dei riti, dei movimenti e delle antropologie. Molto ruberò alle parole scritte da altri. Ma se qualcuno ha espresso meglio di me un concetto oppure una dichiarazione nella quale mi riconosco coerente, perché non utilizzarla? Naturalmente rendendo edotte e note le fonti e la bibliografia, corposa ed esauriente in appendice.

    Racconterò spezzoni di loro, di Kurt e dei Nirvana, ma anche di tutto ciò che mi affascinò intrappolandomi in una spirale di curiosa avversione per la normalità, un’abnegazione devota all’indisciplina, all’essere avulso anche dai contesti avulsi che frequentavo. Sempre un passo più a margine, per osservare meglio e non lasciarmi abbindolare.

    Racconterò spezzoni del mondo degli anni Novanta e spezzoni di me. Spezzoni di quello che fu attorno.

    Commetterò un peccato di omissione, ma celebrerò un inno alla sua anima. E alla mia.

    Sarà più che un racconto. Sarà un viaggio per immagini e parole. E musica.

    Come un’apparizione improvvisa. E accecante.

    Ecco, sarà un’epifania. Anzi, una sequenza di epifanie. Flash baluginanti che si riaffacciano nella mia mente riesumati da una memoria che credevo di aver smarrito per sempre e che invece si accalcano come onde ipnotizzate da un riff aperto di chitarra e un giro di basso inerte e centripeto, durante un pogo animalesco e atavico.

    Un racconto dentro Kurt, partendo dai suoi diari e dalla mia esperienza diretta con Kurt e i Nirvana. Giorni annegati dentro pipe di cristallo fumante riflesse su Parigi. A cento metri da dove morì Jim Morrison. Mentre nasceva il mito biodegradabile di Cobain. Con l’op­primente sensazione, aleggiante tutt’intorno, dell’Amore che corrode come candeggina e della Morte che libera.

    Nei versi delle canzoni dimenticate e dei poeti maledetti del Père Lachaise, cercherò la memoria smarrita. Nelle vetrine del centro infrante da pietre di limone e copertoni roventi, troverò il senso. Nella grammatica distorta e disperata del punk-rock seppellirò la disillusione della sconfitta.

    E parlerò con lui, anzi con la sua raffigurazione commerciale, alta 15 centimetri, in plastica colorata, avvoltolato su una chitarra acustica dentro un maglione di grezza lana verdognola. La sua allegoria fatale. Un pupazzetto che rappresenta la mercificazione che l’industria della musica fa dei corpi, delle membra tese come nervi accordati su un fa diesis, plastificandoli in maniera seriale e democratica.

    Racconterò di quel quinquennio che sconvolse la mia vita. E la loro. Dall’89 al ’94. E qualcosina oltre, fino ad annusare l’epilogo decadente del Secolo Breve e l’affiorare disgustoso del barbarico Terzo Millennio.

    Racconterò di come Kurt e i Nirvana mi sono vissuti accanto, in quei fugaci istanti di eternità in cui ci siamo sfiorati. Annusati. Come lo spirito fetente di un adolescente.

    Il suo concerto, uno degli ultimi, durante il tour di In Utero, il 25 febbraio 1994 Milano, Palatrussardi, Nirvana + Special Guest The Melvins - N° 2768 ₤ 32 000. Produzione Milano Concerti.

    Il live dove il suo essere immobile, dolente simulacro del ragazzo che fu punk reietto, al centro del palco e assente da ogni emozione ne aveva, ai miei occhi, già presagito la fine imminente. Poco più di un mese dopo. Sotto quel telo bianco spuntavano solo due All Star lise, un braccio inerte su un tappeto arabescato, un fucile in posizione innaturale sul pavimento. E uno sbirro della scientifica inginocchiato accanto all’angelo col cranio fracassato.

    La prima volta che vidi il celeberrimo video di «Smells Like Teen Spirit», manifesto programmatico del Nirvana-pensiero: febbraio 1992.

    Interno, piano sequenza in corpo 8: la stanza di un malfamato albergo parigino a Pigalle, a duecento metri dal Moulin Rouge, in rotazione sugli schermi delle Tv delle camere per i clienti, dove Mtv si alternava a film porno e pasticche di Lsd. Un’allegoria dalla quale sarebbe stato stupido sfuggire. E banalmente inaudito. Era ciò che quella epifania rappresentava. Sangue e sperma.

    Ne avevo sentito parlare, bene, dal 1989, da quando erano in tour di spalla a un altro gruppo enorme e misconosciuto del panorama post punk defecato dalla Sub Pop, i Tad capitanati dal possente ex macellaio affetto da diarrea cronica Tad Doyle (136 kg di peso) alla chitarra e alla voce, consumatore di tonnellate di Imodium.

    L’album dei Tad era God’s Balls. I Nirvana invece stavano promuovendo l’epico e digrignante Bleach.

    Li avrei visti la prima volta a Torino il 18 novembre del 1991, nell’antro dell’epico Studio Due di via Nizza. Ma il concerto fu annullato. Uno sciopero dei benzinai sconsigliò la scalcinata e maleodorante brigata punk di prolungare il tragitto verso Torino, prima di andare a Roma. Questo è ciò che la leggenda suburbana narra, ma sveleremo in appendice la reale causa della drammatica defezione.

    Annullamento che provocò la mia prima grande delusione da adepto. E il mio odio perenne per la categoria dei benzinai. Immotivato, col senno di poi.

    Ma questo libro sarà anche la pianura in cui Cobain incontrerà la mia città, Torino. Città in cui non riuscirà mai ad arrivare e che gli sarebbe piaciuta. Incontreremo scrittori come Douglas Coupland e Pier Vittorio Tondelli. Pasolini e Debord. I versi dannati di Baudelaire che come in un film di Jarmush dipingono con abrasiva e psichedelica malinconia il fatale dramma dell’amore come proemio ineluttabile alla morte degli amanti.

    Cobain come Virgilio del mio Bildungsroman, ovvero tutto quel Maelström di suggestioni, cut-up, innesti e clonazioni, furti e plagi, ascolti e visioni, o meglio epifanie che hanno edificato la mia controcultura di formazione e che sottende alla trama dissonante ennesimo capitolo della Saga delle Città. Il secondo paragrafo della Trilogia Torinese. I Nerorgasmo, i Fluxus, i Disciplinatha, i Negazione, i COV, i Kina, i Fichissimi come alter ego autoctoni della stessa rabbia d’oltreoceano o oltremanica personificata dai Nirvana, dai Dead Kennedies, dagli UK Subs, dai Crass o dagli Alice in Chains.

    Cobain e i miei riferimenti culturali autoctoni, dicevamo, che dagli antipodi dell’Impero del Nuovo Ordine Mondiale descrivono la medesima inquietudine di una generazione di trentenni alla deriva. Come naufraga diviene la narrazione, le citazioni, il modo di intendere la letteratura: «La vocazione postmoderna di Tondelli e Coupland, rendendosi interpreti di un rinnovato bisogno di narrare aperto a ogni stimolo, fondono in sé messaggi, stili, lingue tra loro diverse, eredità e riconnette parole che costituiscono l’anima moderna di questi autori. La sintassi frammentaria e sgrammaticata, composta di improvvisi arresti avverbiali che elidono il verbo, di frequente paratassi, di elencazioni eccedenti e iperboliche, tutte rabelaisiane, torna mescolata ai gerghi giovanili in Altri libertini di Tondelli, per comporre un diverso tempo, musicalmente parlando, di scrittura»1. Un ritmo che sa di rock acido e sghembo. E a questo mi sono umilmente ispirato.

    Come Cobain figlio della letteratura pulp, beatnik e post punk americana del xx secolo che cerca di impedire che l’America ci conduca alla terza guerra mondiale. Anche io simulerò un suicidio nel finale turbolento, al termine di un rocambolesco e insensato inseguimento automobilistico, in realtà da parte di nessuno, se non dei miei e suoi demoni. Due suicidi simili. Entrambi suicidi silenziosi e teneri. Troppo innamorati della vita e della purezza della propria arte per sopravvivere al successo e all’insuccesso. E sullo sfondo Layne Staley, fugace e fulgida cometa nera del rock contemporaneo. Prime-mover della scena di Seattle alla testa dei meravigliosi Alice in Chains, morto anch’esso per il male di vivere, che ogni tanto sortirà a parlare con Kurt. Ma sarà anche il romanzo delle differenze. Si perché alla fine il saggio, il racconto breve semiautoriale commissionatomi in origine dall’editore e dal curatore di collana, si è trasformato strada facendo in un romanzo punk.

    Incompleto e caotico. Ma un romanzo. E allora nel romanzo delle differenze diremo tutto quello che Kurt e io siamo e non siamo. E da chi differiamo. Non per esempio da Charles Baudelaire e dai suoi versi perversi e dannati che accompagnano all’epilogo la morte degli amanti. Ma anche chi non è Kurt Cobain.

    Kurt Cobain non è Iggy Pop, che infatti è ancora vivo e ultrasettantenne dimostra un’invidiabile forma fisica. Come se l’eroina, una volta superata la crisi fatale, conferisca longevità ed immortalità ai sui figli sopravvissuti. Vedi Iggy, vedi Courtney.

    Ma come Iggy, Kurt ha disarticolato quello che sembrava essere morto, il punk. Per darne forma nuova attingendo al passato. Cioè alla disperazione. E alla poesia che nasce dal fondo. Dal profondo. Dal fango.

    Stooges fu un disco che con «I Wanna Be Your Dog» certificò il malessere di un’intera generazione mondiale. Cosa che seppe fare solo Cobain con «Smells Like Teen Spirit».

    Kurt non è Darby Crash, altra icona disperata e suicida del punk americano indipendente. I Germs erano disperazione pura, i live della band un inno alla distruzione. Al nichilismo. Al no future. Darby si spara in vena una pera troppo gonfia e muore. Stop. Di lui non rimane nulla. Se non quel Pat Smear, chitarrista olivastro e scalzo, che proprio Kurt vuole con sé per registrare e promuovere l’album In utero.

    Kurt Cobain era Cristo.

    Kurt fece una cosa che solo Cristo avrebbe potuto compiere. Resuscitare un morto. Un morto che si chiamava rock’n’roll. Non solo il punk, non solo la musica alternativa, ma tutto il rock era morto nel 1994. Ricordo le copertine di «Rolling Stone», ripresa in Italia da «Rumore» che urlava Rock is dead!

    E Kurt con quel colpo di fucile a spappolargli il cranio sembrò scuotere il cadavere del rock. E a lui lasciare il passo. Perdendo l’anima. Precipitata nell’inferno.

    Missione di questo libro è prelevare l’anima di Kurt Cobain da quell’inferno e spedirla dove merita. Nel nostro amore.

    Trascinarlo via da quell’inferno rosso e zolfo, col cranio sfondato e il cartello Suicida posto al collo nel museo delle cere dove lo hanno messo fra Jimi Hendrix e Jim Morrison, nel "club dei 27. Ma Kurt non era come loro. Non si ammazzò per le droghe. Forse non si ammazzò nemmeno da solo. Forse lo fecero suicidare. Ma questa è un’altra storia che a me interessa fino a un certo punto raccontare, anzi non mi interessa proprio.

    No, Kurt morirà più come Cesare Pavese, appunto, o come Céline. Con un colpo di fucile che fa esplodere il cinema che ha nel cervello. Come uno scrittore o un poeta, non come una rockstar. O forse sì. O forse, ancora, come un grande regista stanco di continuare a girare lo stesso film con un copione già scritto.

    Ma With Love è anche la formula attraverso la quale ho sempre cercato di vivere la mia esistenza. Ho sempre vissuto seguendo il sentimento, la passione, quello in cui credo e credevo e riversandovi sopra tutto il mio amore. E naturalmente questa prerogativa ad affrontare la vita in maniera impulsiva, passionale, con il cuore e raramente con il cervello ha avuto i suoi effetti collaterali talvolta fatali per me.

    With Love è la sezione di questo libro dedicata agli anni Ottanta e Novanta, alla Torino tossica, creativa, pregna di vita pulsante, alternativa a se stessa, figlia della rabbia operaia e alla ricerca della propria dignità e della propria identità delle esperienze antagoniste di quella sequenza sgamba di lustri che cambiarono il mondo, la politica, la musica, l’arte, il pensiero, Torino stessa e la mia vita. I gruppi, le case occupate, gli scontri, le occupazioni. I dischi, i libri, le avventurose prime esperienze musicali in prima persona, l’epopea effimera ma significativa della mia band, gli Unconditional poi Malasangre, condivisa con i padri fondatori Nino Azzarà e Marcello Marcelli che ancora annovero tra i miei amici più cari descrivendo la nascita di quei legami umani, culturali e politici che hanno forgiato la mia esistenza a venire.

    Le isole felici in un mare di niente e noia. Quelle corazzate di stoffa nera che attraversavano i marosi di asfalto e pregiudizio per creare avarie nel sistema e sopravvivere a esso.

    With Love è la dichiarazione d’amore a una città e alla sua gente che ho amato, odiato, ripudiato. Una città che non mi ha mai accettato del tutto, che mi ha spesso deriso e sputato via e che io ho voluto invece sempre vivere fino in fondo. Dimostrando l’indimostrabile.

    With Love è uno sfondo sul quale si dipana una colonna sonora digrignante, romantica, caotica, rumorosa, poetica come non mai da allora in avanti. Il brulicare di pensieri e azione della mia vita si è innestata sugli accordi dei Nirvana, sicuramente, ed è per questo che ne ho fatto il tema fondante di questo romanzo/antiromanzo, ma anche di tutti gli altri libri di sangue che suonavano, urlavano, pregavano e creavano linfa allora e nei secoli a perpetua memoria.

    With Love è una confessione, mia ma anche di Kurt. Kurt che per molti è un esempio da rinnegare, per altri un’icona da santificare. Per me uno come tanti che sarebbe potuto essere un mio amico o un verme da schiacciare. Un tossico da cazziare. Il miglior cantante chitarrista che avrei mai potuto arruolare in una band di cover dei Pixies.

    Questo non è l’ennesimo libro sui Nirvana. In senso stretto non è nemmeno una biografia di Kurt Cobain. È un tentativo falso di trovare la mia verità. È un’aureola di pattume che orbita intorno alla testa sfondata di Kurt. E attorno alla mia vita. È un mobilificio dove costruire finalmente la bara a forma di cuore in cui riporrò tutti i miei demoni. E i suoi. Per sempre.

    With Love

    D.M.

    Capitolo I

    Smells Like Paris. Cronistoria della prima Epifania

    Parigi è un paese molto ospitale; accoglie tutto, sia le fortune vergognose

    che quelle insanguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto d’asilo,

    v’incontrano simpatie; solo la virtù non vi possiede altari.

    Honoré de Balzac

    Parigi è opaca vista da dietro il vetro della finestra sbilenca di uno scalcagnato ostello immerso nel ventre madido di Pigalle. Il xx Arrondissement è una spirale concentrica che ci avvolge come un mantra di basso pulsante, appollaiato su due lunghe pertiche inguainate di velluto viola e brandito da due enormi e lunghissime braccia ciondolanti. Mentre qualcuno, con i capelli biondi come spighe di siringhe arruffati davanti a due occhi nudi, ripete una litania greve in cui dichiara monocorde di non avere una pistola.

    Avevamo lasciato la Gare de Lyon precipitando di due livelli sotto la terra, rinvenendo alla vita grazie allo spostamento d’aria causato da una capsula metropolitana che percorreva a 100 km/h il pancreas di Parigi, avvoltolato su se stesso e macabramente esposto nella pancia di plastica di un manichino senza occhi.

    E Pigalle era l’approdo naturale di quella scialuppa di sbandati a spasso per l’Europa con poche lire in tasca e tanto sconsiderato entusiasmo.

    Ci eravamo lasciati dietro le spalle la fine degli anni Ottanta da poco. Anzi in quel febbraio del 1992 gli anni Ottanta si facevano ancora sentire, eccome. Un treno di sbandati ci aveva recapitato a Parigi in cerca del niente in mezzo a quel tutto che solo la capitale francese poteva donarci a quei tempi. Un girovagare nomade fra mercatini delle pulci, mostre dedicate agli espressionisti dentro ex stazioni ferroviarie trasformate in deflagranti musei fatti di marmi e acciaio, cimiteri pagani, metropolitane troppo multietniche per noi piccoli liceali italiani ancora alle prese con la macchietta del vu cumprà, esportato in Tv da Teo Teocoli al «Drive in» e incapaci di comprendere come era possibile una città abitata da così tante razze mischiate a soli 770 km da Torino. Librerie interamente dedicate ai

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