Photomaton & Vox
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Book preview
Photomaton & Vox - Herberto Helder
Tavola dei Contenuti (TOC)
(è una dedica)
(photomaton)
(un’isola in sketch)
(postilla insulare)
(ramificazioni autobiografiche)
(complicità minori)
(i dialoghi)
(i quaderni immaginari)
(notizia breve e ritorno)
(la lettera della passione)
(nota personale, estremamente)
(similia similibus)
(mano)
(l’altra)
(la mano nera)
(parola visibile)
(scrittura poco innocente)
(il paesaggio è un punto di vista)
(le stanze incendiate)
(intorno a)
(il bevitore notturno)
(questo scritto può essere utilizzato come ironia al modello critico in vigore il modello possiede una dozzina di varianti pretesto: una mostra di scultura)
(revisioni)
(le trasmutazioni)
(verso rovescio del verso)
(passaggio di modelli)
(nota da non scrivere)
(disegno)
(action-writing)
(film)
(introduzione al quotidiano)
(humour in quotidiano nero)
(motociclette dell’annunciazione)
(lettera a un’istituzione per la richiesta di una borsa)
(i mestieri della vista)
(vox)
(nota personale)
(leopardi)
(beccacce)
(serpente)
(vulcani)
(magia)
(cuore)
(movimento erratico)
(antropofagie)
(i modi senza modelli)
(fascio di energia)
(sceneggiatura)
(immagine)
(memoria, montaggio)
(il corpo il lusso l’opera)
(qualche ragione)
(mestiere: revolver)
(la poesia è fatta contro tutti)
(risposta a un questionario convenzionale sulle rivoluzioni, libertà e)
(colorare il sette) *
(ricordo)
(walpurgisnacht)
(la lettera del silenzio)
(la morte propria)
Il continente Helder di António Fournier
tamizdat
( 6 )
© Herdeiros de Herberto Helder
© 2016 Porto Editora
© 2017 Miraggi edizioni
via Mazzini 46 – 10123 Torino
www.miraggiedizioni.it
Titolo originale
Photomaton & Vox
Progetto grafico Miraggi
Obra publicada com o apoio de Camões – Instituto da Cooperação e da Língua
e DGLAB – Direção-Geral do Livro, dos Arquivos e das Bibliotecas
Finito di stampare a Città di Castello
nel mese di novembre 2017
da CDC Artigrafiche
per conto di Miraggi edizioni
su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr
e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Clay 180 gr
Edizione cartacea: novembre 2017
isbn
978-88-99815-53-0
Edizione digitale: marzo 2018
isbn
978-88-99815-74-5
Herberto Helder
PHOTOMATON
& VOX
Traduzione dal portoghese di Gaia Bertoneri
¶
(è una dedica)
Se tendi le braccia si disegna una stella di mano
la mano trasparente, e dietro,
nell’imboccatura della notte,
il mondo intero trema come un albero
che risplende
mentre respira. E doni,
dalle unghie alla gola
tagliata, l’abbagliante ustione del sonno.
– Nel tuo stesso ingorgo s’inabissano
le cose. Perché sei un livido acceso tra
quelle braccia
che irrompono dalla mia morte quando dormo, dalla pazzia
quando la vena
violenta che mi trafigge la testa diventa
ignea come
un fiume che irrompe in una mappa. Quando le stanze
nere fotografiche
imprimono la sensibile trama delle stagioni
con sopra i paesaggi. E
grondi
da dietro gli specchi, il loro cuore
strappato da tutte le dita con cui si scrive
l’intero movimento.
Mai pronunciare il mio nome se quello
non sarà il nome della paura. O se veloce il fuoco non si
spartirà
tra le forme
divampate come fiamme intorno a te. Gli animali
illuminati da questa lingua di fuoco
nella bocca. Fin dall’oscurità
di tutto che tutto
è innocente. Non si può mai vedere la notte tutta a un tratto.
E dalla fronte ai fianchi nelle tue forme, sei
cieca, racchiusa.
La mia forza è il disordine. Risplendi
sulla tempra asciutta – ti brucia.
L’oro sposta la tua faccia. Un nervo
attraversa le frementi, delicate masse
delle immagini:
come una ferita limpida che squarcia la carne
fin dalla nascita. Sei alta in me per questa
cicatrice che si apre quando mi addormento e
rimane aperta al mio risveglio.
– Questa
sorta di delitto qual è scrivere una frase che sia
una persona magnificata.
Una frase cucita a fiato, o un lampo
colto
sugli specchi. A volte sei una radice ingolfata, e quando
giunge
nel profondo dei paesaggi, cambiano le costellazioni
sulla terra. La ferocia
incisa come una frase nella persona, un’ustione
bianca. Perché essa mostra le devastazioni
magnetiche
della materia. Nella frase vedo il fulcro della persona.
Da pori acerbi le stagioni che colano
e l’incrollabile
paesaggio che le insegue dall’interno. La frase
che è una palpebra
viva
come un vestito che avvolge la radiazione delle vene.
Che è una faccia, un cratere.
O un sorso animale dalle unghie alla fronte
dove
sfolgorano le corna in corona.
E questa massa ansimante è bruciata da un
sospiro, un brutale nutrimento.
Il tuo volto mi assedia, la mia
morte assedia il tuo volto come una radura
pulsante
nella luce recisa. La persona
è una frase: un astro
ruvido crudamente incordato tra le scapole.
Come se un nervo cucisse tutte le parti pungenti e ferine
della carne. Come
se la tua frase fosse un foro che luccica fino ai polmoni,
con il sangue e la lingua
nella mia gola. La bellezza che ti lavora
ti restituisce
ardua e intera
al mondo, tra quel sangue strangolato nella mia memoria.
¶
(photomaton)
Fino a quando può la memoria, e per quanto può, sono l’attore e lo spettatore complice di una vita turbata, drammatica e ironica. Il poco che intendo di quel caotico impasto teatrale può essere iscritto nel pentagramma di un’interpretazione minore. Non capisco nulla.
Ho pensato che certe virtù – l’astuzia acquisita dopo aver messo alla prova ogni ispirazione dell’innocenza, una sensibilità divinatrice maturatasi tramite l’indistinzione spirituale tra luce e tenebra – finirebbero per condurmi a una qualche comprensione.
Finché non si è convertita all’idea sospesa, o infusa, significazione di tutto, l’adolescenza è stata insopportabile. Questa è stata la prima rivelazione, e mi sono permesso di abbandonare quell’arcaico bozzolo dell’angoscia che si traveste, nell’esporsi, a se stesso, di leggerezza, innamoramento o luminosità. Ma l’adolescenza è soltanto ira e dolore.
Cercando di indagare il senso del mio uscire dal primo episodio di tormento, per il quale io immaginavo di essere la rivelazione del significato stesso di quel tormento, ho ipotizzato, per uso personale, un accesso a più grandi rivelazioni. Era la scrittura – la scrittura esercitata come calligrafia estrema del mondo, un testo apocalitticamente corporale.
Il segno della gioventù indica quel labirinto, un percorso attento e sonnambulo che attinge alle guide di orientamento e disorientamento messe in vendita dallo spirito per mezzo di tutte le moralità della favola. La gioventù si nutre di ciò che gli artigli afferrano, e gli antichi si difendono dalle generazioni insaziabili gettando carne marcia. Ma è nella carne che pur sempre si insinuano l’odore e il gusto del sangue, e una sprovveduta tigre giovanile non ha imparato così bene a memoria l’identità da non confondersi con una giovane iena.
Ma da tutto ciò ho scoperto i manierismi e la figura romantica. Eravamo una nuova imitazione di Cristo nella luciferina versione di certi radicali, antichi o moderni, per i quali la poesia è stata un’azione terroristica, una tecnica da applicare tramite la paura e il sangue. Un’ingenuità così mostruosa quanto quella della mitologia solare che porta ai mercati le colombe della pace, la terza persona del patto sociale – questo: ciò che la legge si aspetta dall’addomesticamento delle disposizioni drammatiche.
È sempre facile camminare sulle acque, ma è impossibile farlo miracolosamente. È diventato un numero da circo – quell’equilibrio sul filo che uccide il desiderio di vertigine e la nebulosa delinquenza di un’emotività suburbana. L’ultima rivelazione è quella di essere i produttori inesorabili e gli inevitabili prodotti di un’ironia la cui sola dignità è derivare dal tormento, un tormento sempre frainteso nella sua manifestazione sensibile. Per questo mi dedico sempre di più alle fissità, ai silenzi, al sonno.
Se volessi, mi presenterei come una vittima della scrittura, dell’innocenza, della nevrosi e delle sue istanze psichiatriche e psicanalitiche; una vittima della mitologia del fuoco e dell’acqua, delle ragioni misteriose della morte e della trasfigurazione, o del principio per cui ciò che sta in basso è uguale a ciò che sta in alto, delle pratiche sessuali angeliche in fondo all’inferno; vittima, insomma, dell’opposizione al mondo e del radicalismo con cui qualcuno s’impegna nell’utopia dell’oro e vi brucia gloriosamente le dita. Potrei dire: sono un lebbroso!
Ma ho vissuto in Africa, lontano da tutta questa cartografia, lontano anche dall’intenzione mitografica euro-africana – e mi sono capitati interludi sinistri e illuminanti. Ho visto lebbrosi, sono stato toccato da lebbrosi. Ho visto la guerra, la morte frontale, la mia morte – e ho visto i deserti. Mi sono visto mentre salivo, in una metamorfosi esasperata, dagli abissi del terrore fino alle strette regole della vita. Ed ero maturo per vedere tutto. Ho desiderato allora essere io stesso il più oscuro degli enigmi viventi e impastare le mani nella materia primaria della terra. Mi piacerebbe essere un intrecciatore di tabacco.
Non sono vittima di nulla; non sono vittima dell’illusione della conoscenza. Scrivere è letteralmente un gioco di specchi, e in mezzo a quel gioco viene rappresentata la scena moltiplicata di una carneficina metafisicamente irrisoria. Le cacciate celesti, l’antropofagia magica, l’esoterico pentagramma corporale si sono impressi sul film dolcemente truculento del cinema generale di quartiere condannato alla fruizione analfabeta.
Qualsiasi poeta che abbia attraversato quei tunnel può sottoscrivere la parola merda
.
Chiaro che conosco gradi di paura e ferocità diversi. Per questo sono ancora vivo. È l’altro lato dell’ironia, lato che chiamo favoloso di un’ironia che chiamo altrettanto favolosa, non perché siano in mio possesso, ma perché appartengono a questo favolosamente vuoto enigma del mondo.
¶
(un’isola in sketch)
È un’isola a forma di cane seduto con la testa inclinata per scrutare l’enigma dell’acqua. Il cane ha le orecchie dritte perché riceve notizie di vento mentre annusa e guarda il mare. Il cane è seduto sull’Atlantico.
L’acqua cade in cordoni verticali e vivi, cantando. Si crea una nuova, o vecchissima, sorta di solitudine in cui l’improvviso piacere della purezza si mescola al timore. L’acqua è una delicatissima ed esaltante materia. Forse gli uomini vorrebbero tenderle le mani, rigirandole da ogni lato per bagnarle completamente. Un’acqua vasta e nuda, un’acqua materna.
Le case diventano molto isolate, una severa distanza separa le une dalle altre. Non è tempo di commercio tra le persone, né di qualsiasi tipo di fratellanza. Si sa poco dell’acqua piovana. È un’isola sterile, chiusa tra calce e sabbia. C’è sempre siccità. E allora accade l’assurdo. Il talento dell’assurdo è creare l’eccesso. Per questo a volte cade una pioggia travolgente. La carne si prepara per riceverla, l’accetta. Si potrebbe uscire dalle case e non solo tendere le mani alla grande pioggia, ma lasciarle inzuppare i vestisti e la pelle, lasciare che pulisca l’uomo dalle cose che non servono. Si potrebbe camminare nudi sotto l’acqua che canta, mentre le persone stesse cantano con allegria e sacro terrore.
I sentieri si confondono, franano i tetti di terra battuta, il fango invade i campi. Scompare il fragile ordine creato per camminare sugli abissi. In due giorni si cancellano le tracce di un anno. Scompaiono i centri abitati, nodi di audace intelligenza dove si è intessuto, tutto intorno, il terrore della morte – la malizia di ingannarla e la piccola vittoria con il suo anello di allegria. Li ha assorbiti l’acqua. Nell’ammasso non si sa più quale sia il posto degli animali, delle lenticchie, delle barche. Il vento batte sulle case illuminate da candele con grossi stoppini imbevuti nel grasso di montone.
Bisogna reinventare l’edificio palpabile delle convenzioni: segnare i campi di orzo, riparare il fasciame delle barche, amare la vita. Verrà in aiuto una misera primavera fatta di erbacce basse e qualche ciuffo di lenticchia verde.
Ma gli uomini dell’isola non amano il lavoro. È difficile scendere a patti con i segreti della terra. Le mattine stentano con il sole bagnato. Il cielo si curva verso le pozzanghere.
Sul mare aspro in lontananza passano navi da carico. Di notte sono piccole luci che si muovono. È davvero triste.
Bisogna scendere a fondo nella materia enigmatica di questi uomini, comprendere la regione del loro feroce riposo, le loro drammatiche sorgenti di immobilità. Queste favole sono terribili nelle loro trame e nelle loro forze.
I cammini annegati, le case distrutte. Tutti escono fuori, esitanti, quasi meravigliati. Non c’è posto per le mani né per i piedi. Ma l’aria diventa sempre più lieve e penetrante. Le cose si liberano dal vasto abbraccio delle acque. Durante due mesi, nella profonda solitudine sotterranea, si è preparato il tempo che diventa adesso manifesto e vivo. Forse la lenticchia e l’orzo seminati in autunno ricopriranno le pianure. I semi hanno dormito e immaginato. Forse si sveglieranno per la ricostruzione del mondo.
Allora un grande silenzio scende sui trenta chilometri quadrati dell’isola. Oppure viene dalle cose, dall’interno delle cose: un silenzio estremamente dolce, un equilibrio supremo. L’isola acquisisce un’immobilità grave e grandiosa. E la luce entra ed esce dalle cose come se fossero spugne. Le mani restano completamente nude. Il sonno scompare per primo dagli occhi. E dalla bocca. Da ogni parte del corpo, lentamente, da tutte le parti, fin quando le persone non si rivelano totalmente. Come se fossero risorte.
I campi sono coperti di erba e, nel mezzo, alcuni steli di orzo vibrano nella brezza acuta. Ha inizio la disposizione astratta dei colori – violenti, delicati – nel profumo intenso della marea