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La-vita-è-stanca
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Ebook163 pages2 hours

La-vita-è-stanca

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About this ebook

Berlino: nella città un tempo divisa dal muro e sempre più colorata, i gemelli Annalia, expat in fuga da se stessa, e Andrea, cercano di ritrovarsi, prima fratello e sorella, adesso sorella e sorella. Le loro vite tornano ad amalgamarsi, tra animali parlanti, un cane e un vecchissimo e saggio gatto, un musicista  e una senzatetto filosofa, fantasmi che si abitano fisicamente nei sogni e routine prive di realtà. I rapporti tra i protagonisti sono “deboli”, ma necessari, e non meno assoluti, dato che tendono all'amore. Perché “la vita è stanca”, ma non può deludere.
La scrittura magnetica di Hardy agisce come uno zoom sugli snodi più personali, e la fotografia taglia tutto il romanzo, creando un universo di fascinose appartenenze, di ombre, richiami e ricordi: il mondo sotterraneo s'incontra con le nuvole del cielo. Il resto, “è tutto un autoconvincimento”, ma non importa.
Una storia gentile, in cui i tutti cercano il senso della loro esistenza, e psicotica come la realtà in cui viviamo.
LanguageItaliano
Release dateAug 9, 2018
ISBN9788833860947
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    La-vita-è-stanca - Batsceba Hardy

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Andrea, Milano

    Annalia, Berlin

    Elfriede, Berlin

    Andrea, Milano

    Annalia, Berlin

    Annalia, Berlin

    Andrea, Berlin

    Annalia

    Andrea

    Annalia

    Andrea

    Annalia

    Andrea

    Annalia

    Andrea

    Elfriede

    Annalia

    Elfriede

    Annalia

    Andrea

    Annalia

    Elfriede

    Andrea

    Annalia

    Elfriede

    Annalia

    Andrea

    Annalia

    Elfriede

    Andrea

    Annalia

    Elfriede

    Andrea

    © 2018 Miraggi Edizioni

    via Mazzini 46, 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    In copertina: fotografie di Batsceba Hardy

    Finito di stampare a Città di Castello

    nel mese di aprile 2018 da CDC Artigrafiche

    per conto di Miraggi Edizioni

    su carta Book Cream Avorio 80gr.

    Prima edizione digitale: luglio 2018

    isbn 978-88-3386-094-7

    Prima edizione cartacea: aprile 2018

    isbn 978-88-99815-66-0

    golem / romanzo

    come un giardiniere sincero

    tramuto il giardino dei desideri

    nel labirinto dei miei pensieri

    B. H.

    Andrea, Milano

    Si è quello che si immagina

    Andrea apre gli occhi. È tutto bianco e non sa dove si trova. Un bianco che non splende e ha uno strano odore. Penetrante. Ecco che ricorda: si trova nel letto di metallo di un ospedale. Cerca di muovere le braccia. Lentamente rispondono. Sente le dita. Vorrebbe allungarle e toccarsi. Controllare là dove hanno operato. Ma si trattiene.

    «Allora, come si sente?» Un volto sbiadito accompagna la voce impersonale che appare sopra la sua testa. L’infermiera è asettica come la stanza.

    «Non sento» mormora. «Vorrei solo uscire di qui il prima possibile.»

    «Non prima di dieci giorni…»

    Andrea non ascolta più quello che dice l’infermiera. Osserva la bocca che si apre, le labbra che si muovono, senza suono. Sono angoscianti, le labbra così isolate. Due cuscinetti informi. Bla bla bla. Si concentra sul proprio corpo. Cerca di sentirlo. Ma non lo sente. Sente solo dolore. E nel dolore ecco che a poco a poco avverte la sensazione di qualcosa di nuovo. Come di un vuoto riempito. E finalmente è felice. Così felice che vorrebbe alzarsi in piedi e correre subito dallo psicologo per ridergli in faccia. Poi inspira l’aria e chiude gli occhi, allontanando ogni pensiero.

    Sono passati sei mesi dall’ultima operazione. Andrea guarda il tutor a forma di sesso e sorride. Apre l’armadietto sotto il lavandino e lo butta nel sacchetto della spazzatura.

    «Ora non ho più bisogno di te. Grazie.»

    I giorni sono scivolati, uno dopo l’altro. Come i grani di un rosario: tondi e uguali, con quelle piccole imperfezioni irriconoscibili. Nuove regole hanno preso il posto delle vecchie. Fino alla totale assenza di regole. L’ultimo grano.

    Ecco perché proprio oggi Andrea ricorda la nonna con il capo coperto, in chiesa che prega. L’ha vista solo in quell’occasione e oggi la ricorda.

    Il caffè borbotta sul fuoco. Allunga una mano e spegne il gas. Compio sempre gli stessi gesti, pensa. Tutto è uguale eppure tutto è diverso ora. Versa il liquido nero nella tazza e lo assapora. Lentamente.

    Prende le chiavi di casa e prima di uscire si guarda nello specchio. Le gambe lunghe, il muscolo morbido.

    «Sono io» dice a voce alta alla propria immagine.

    Chiude la porta e scende le scale a due a due. Passa davanti alla portineria sentendosi addosso lo sguardo curioso della donna seduta dietro il vetro.

    Non appena sul marciapiede inizia a correre. I passi piccoli e leggeri, accompagnati dal dondolio delle braccia. Vuole sentire tutti i muscoli in funzione. Inspira dal naso e espira dalla bocca, con regolarità. Guardando dritto avanti a sé. Al semaforo continua a muoversi sul posto e un ragazzo che aspetta di attraversare ride del suo movimento. Al verde scatta, lasciandoselo alle spalle e finalmente oltrepassa il cancello del parco.

    La ghiaia scricchiola sotto la suola di gomma delle scarpette. Allunga la falcata. Un raggio di sole attraverso l’iride annulla la realtà. Una macchia incolore che luccica. Un attimo e di nuovo è tutto verde.

    Il cane appare all’improvviso. È bianco e ha la lingua rosa che spenzola fra i denti.

    «Ciao, che ci fai qui tutto solo?» gli chiede, senza rallentare.

    Corro, risponde quello, affiancandolo.

    Continuano insieme. La gente vedendoli si scosta, per lasciarli passare. Hanno paura del cane.

    «Non mi piace questa città. È diffidente. Me la sento stretta addosso. Soffocante» dice al cane, il respiro leggermente affannato.

    Cosa ti trattiene? Andrea pensa: nulla, non ho nulla. Avrei un padre che non mi vuole vedere, lo imbarazzo. E i ricordi cominciano a correre con lui. Li sente respirare, sempre più forte. Il rossetto sulle labbra e lo sguardo di sua madre.

    Sono Andrea mamma.

    Lo vedo che sei Andrea.

    Mamma?

    Ma non c’è alcuna risposta.

    Non è colpa tua.

    Andrea osserva il cane. Corre con un falcata regolare. È magro.

    «No, non è colpa mia» dice. È solo sua la colpa.

    Ne sei convinto?

    Andrea non ha più convinzioni da tanto tempo.

    Annalia, Berlin

    Se si cerca l’amore… l’amore ci troverà

    Spalanco gli occhi sul soffitto. Gli incubi hanno accompagnato la mia notte come una baby sitter puntigliosa, riprendendomi per mano a ogni passaggio. Faccio spuntare un piede dal piumino e lo ritiro immediatamente. La stanza è fredda. E le pareti confusamente bianche mi cingono come le difese di un castello. Non ho voglia di abbandonare il letto. Non ho appuntamenti. Non ho un lavoro. Non ho nessuno.

    Qualche minuto e il silenzio si riempie di suoni quotidiani: Andreas sta preparandosi la colazione. A fatica mi sollevo e raggiungo il bagno. Apro il getto perché l’acqua arrivi calda e rimango seduta sulla tazza con il volto tra le mani. Persa in un silenzio senza inflessioni. Senza dolore. Senza che alcuna immagine solchi il mio pascolo segreto. Poi mi infilo sotto la doccia, lasciandomi scivolare l’acqua addosso. Sollevo il viso e soffoco in un vuoto assoluto.

    Andreas è un compositore trentenne, sottile come un giunco. Dormo su un materasso, sul pavimento del suo studio, dalla notte stessa in cui l’ho incontrato a Kreuzberg, otto mesi fa. Era la fine di ottobre, da poco ero a Berlino e non sapevo ancora spiccicare una parola, ma mi piaceva andare per concerti. Non ricordo chi mi avesse invitata alla Ballhaus Naunyn, forse l’amico australiano di Sarah, la ragazza californiana da cui vivevo. Faceva la cameriera nel bar in cui consumavo il mio unico pasto giornaliero: un caffè e un choco croissant. Non so se fosse attirata da me, perché in realtà lei faceva sesso con un sacco di maschi. Mi aveva offerto ospitalità così, semplicemente, perché aveva capito le mie difficoltà. Se non ci si aiuta fra di noi, aveva detto, portandomi la borsa su per le scale. Quarto piano senza ascensore. Scale di legno che profumavano di baita. Ma Sarah abitava in un monolocale e era evidente che non avrei potuto restare lì in eterno. Comunque quella sera, a Kreuzberg, mi ero seduta in disparte. Alla fine dell’ultima fila, dietro una colonna, il più lontano possibile da tutti. Andreas, che era arrivato in ritardo, per non disturbare si era accomodato in fondo, proprio accanto a me. Indossava un completo nero e per tutto il tempo aveva sbuffato a ritmo, facendo scricchiolare la sedia. Al centro della sala quattro percussionisti in vesti femminili si aggiravano a piedi nudi, pestando sui tamburi e usando aquiloni e giocattoli curiosi, come fossero strumenti. Durante l’intervallo mentre qualcuno ci presentava, avevo avvertito la collosità del suo sguardo, intuendo che non me lo sarei più scrollato di dosso. Nonostante tutto avevo accettato immediatamente la sua offerta e inaugurato il materasso sul pavimento, quella notte stessa.

    Non sto facendo nulla di male, mi dico. Assolvendomi ogni volta che incrocio il suo sguardo. Perchè lui è innamorato di me. E lo dice anche. Lo ripete in continuazione. Ma io no. No. Io non sono mai stata innamorata. Non so cosa sia l’amore. Lo aspetto. So che da qualche parte esiste e so che mi riconoscerà lui. Perché io sono cieca. E ho un problema. Soffro di allucinazioni. No. Non sono allucinazioni. Lo so. È un ricordo. Hanno tutti il problema di non ricordare. Io ho il problema contrario. Non riesco a dimenticare. Anche se non voglio e combatto con tutta me stessa, accade. Non sento più il cuore battere. Il nulla bianco. No. Non voglio. Ma le immagini si formano lo stesso, senza che la mia volontà possa bloccarle. La chiazza rossa. Le gambe allargate in quella posa assurda. E i piedi nudi con le unghie laccate di verde. I suoi piedi, quelli di mia madre. Lei è salita all’ultimo piano con il suo vestitino floreale da casa e si è tolta le scarpe, prima di aprire la finestra e saltare nel vuoto. O forse se le è tolte dopo aver aperto la finestra? Ma perché? Ha spalancato le braccia e spiccato il volo, atterrando di sotto dove ci sono io, ad attenderla, in sella alla bici. E odo di nuovo e sempre il rumore sordo del corpo che si spezza, mentre come allora non riesco che a pensare perché. Perché hai sentito il bisogno di toglierti le scarpe, mamma?

    Sei responsabile nei confronti di chi ti ama

    L’affermazione che ho letto nel libro mi esplode nel cervello come una mina a scoppio ritardato sotto i tigli in fiore di Unter Den Linden, mentre inseguo Andreas che avvolto in una sciarpa di seta gialla si dirige a lunghe falcate verso la Porta di Brandeburgo.

    «Sei responsabile nei confronti di chi ti ama. Secondo te ha senso? Lo sostiene Murakami nel suo romanzo» chiedo affiancandolo. Non so perché, ma lo faccio.

    «Sarà un espediente per delineare il personaggio. Parlare di responsabilità è complesso. Ma non credo che tu ci tenga a ritenerti responsabile verso di me, mein Schatz.» Rallenta per potermi guardare, poi leggendo sulla mia faccia la risposta si ficca le mani in tasca e riprende la sua falcata solitaria. E no, che non posso sentirmi responsabile per qualcuno che mi ama senza esserne richiesto.

    Anche le nuvole corrono sopra le nostre teste. Lo strato superiore in un verso, quello inferiore nell’altro, creando una molteplicità di forme in continuo mutamento. Alcune si sfilacciano nell’azzurro: piccole isole che navigano solitarie.

    Vengo colta alla sprovvista quando dinnanzi a noi appare una distesa ondeggiante di cemento. Un mare grigio in cui figure multicolori annegano, sparendo e riapparendo.

    «Questo è il tanto contestato monumento agli ebrei di Eisenman» dice Andreas prendendomi per mano. Mi lascio trascinare. Concentrata sulle sensazioni, ogni singolo poro ricettivo. Ma resto fredda fra quelle steli che mi paiono gelide, e non provo dolore. Non riesco a cogliere il senso di questa rappresentazione. Non è un cimitero. Questi blocchi squadrati non mi ricordano le vittime. Penso a tutti i nomi scritti sulle pareti della sinagoga Pinkas, a Praga, e al pugno nello stomaco che ho sentito allora, il kippà sul capo. Qui odo delle voci risuonare allegre. Vedo bambini giocare sorridenti a nascondino e giovani seduti che spenzolando le gambe chiacchierano normalmente. Poi, a poco a poco, immergendomi

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