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Il Commissario Sartori. Tutte le inchieste
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Il Commissario Sartori. Tutte le inchieste

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Tra le poche firme italiane inserite nei “Gialli Mondadori”, Franco Enna è considerato uno dei maestri della letteratura di genere italiana. Sceneggiatore, drammaturgo e scrittore, Enna ha firmato alcune delle pagine più originali del dopoguerra, prime fra tutte quelle dedicate al Commissario Sartori, un poliziotto siciliano disincantato e sensuale che anticipa le vicende di Montalbano. Alberto Tedeschi, mitico direttore del “Giallo”, definì l’opera di Enna con il termine “giallo d’arte”. Un giallo d’arte personalissimo che ama e ricerca la contaminazione: hard boiled, racconto realistico, fiaba, l’intreccio indissolubile fra eros e thanatos, animano il mondo creativo di uno dei maggiori protagonisti del noir made in Italy. In questo volume sono raccolte tutte le inchieste del popolare Commissario Sartori: Il caso di Marina Solaris, Passa il condor, La bambola di gomma, Un poliziotto in vendita e L’occhio lungo.
LanguageItaliano
Release dateMar 24, 2020
ISBN9788893041935
Il Commissario Sartori. Tutte le inchieste

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    Il Commissario Sartori. Tutte le inchieste - Franco Enna

    2020

    IL CASO DI MARINA SOLARIS

    1. La metropoli sconosciuta

    La grande targa con la scritta «Roma» spuntò all'improvviso dalla foschia notturna; poi il treno si fermò alla banchina e il commissario Sartori scese con gli altri viaggiatori.

    Si trovò disorientato, spinto, sbattuto, con la valigia che gli picchiava contro il polpaccio e l'ombrello che spesso gli faceva lo sgambetto. Le luci delle insegne al neon nella grande stazione Termini lo stordivano.

    Non aveva più sonno. L'aria umida, odorosa di fumo, di gas e di polvere, gli rinfrescò la faccia. Si sentì oppresso dall'alto edificio, di cui non riusciva a scorgere i contorni, attraverso la pioggia.

    «Dotto'!... Dottor Sartori!»

    Vide una mano che si agitava tra la folla. La faccia raggiante, un po' paffuta, del brigadiere Corona gli fu davanti all'improvviso. Il commissario, che aveva sentito suo malgrado un piccolo tuffo al cuore, non si limitò alla formale stretta di mano, ma, quasi per riprendersi dal leggero panico che lo possedeva, abbracciò il concittadino.

    «Ha fatto buon viaggio?... Mi dia la valigia... Ma no, me la dia!... Ha visto mio padre? Come sta? Se sapesse come sono felice che lei sia stato trasferito a Roma... No, no, Mariastella ci sta aspettando per la cena. Abbiamo tardato apposta.»

    Non ci fu verso di far capire al brigadiere che era stanco e che avrebbe preferito andare subito a letto, dopo un bel bagno caldo. Fuori, sotto la pensilina della stazione, li aspettava una «pantera» della polizia. L'agente autista salutò militarmente il commissario, che gli porse la mano. Poi la rapida corsa attraverso la città, nel riverbero opaco delle luci, tra gli alti muri grigi dei palazzi e le auto sfreccianti nel caos. All'interno dei bar si scorgevano gli sprazzi azzurrognoli dei televisori accesi, con gruppi di persone che guardavano: gli italiani si stordivano con l'annuale insipida droga di Canzonissima¹. Per essere una metropoli, Roma gli appariva piuttosto provinciale. Non poté impedirsi di pensare al paese natale lasciato il giorno prima, ai parenti e agli amici, che a quell'ora o si trovavano anch'essi davanti ai televisori o facevano la solita partita a briscola al Caffè Roma.

    Una malinconia sottile e irritante lo invase, mentre Corona gli parlava dei colleghi, del servizio e del complesso mondo di via San Vitale.

    Quella notte dormì male nella camera dell'albergo trovatogli dal brigadiere Corona. C'era un gran movimento nei corridoi e qualcuno parlava ad alta voce in una stanza vicina; finché lui non poté fare a meno di protestare col portiere. Poi fu il silenzio, rotto spesso dal fragore delle motorette, dalle voci dei nottambuli che uscivano dai cinematografi. Nel dormiveglia avvertì l'assenza della moglie al suo fianco, e quella meno pungente di Tina e Carlo, i suoi ragazzi. La sua famiglia era rimasta in Sicilia.

    L'indomani alle nove Sartori si presentò alla Questura centrale. Il questore lo accolse con viva cordialità, fumò con lui un paio di sigarette, mentre parlavano di figli e di stipendio. La voce del capo, chiaramente di origine siciliana, lo distolse dalle preoccupazioni immediate derivanti dal servizio.

    «Vediamoci stasera, Sartori. Vuole? Andremo a cena insieme, così potremo parlare con più calma. Anch'io sono solo a Roma, momentaneamente.»

    «Quali saranno le mie mansioni? Non ho idea di...»

    «Uh, per questo c'è tempo! Ho qualcosa in mente per lei. Intanto, mi darà una mano nella Squadra mobile.»

    Sartori uscì un po' deluso.

    Nell'attraversare il cortile, sollevò gli occhi al cielo leggermente azzurro e trasse un profondo sospiro.

    Si mise a gironzolare per la città, che vedeva per la terza o quarta volta e che gli era quasi sconosciuta. Passo passo, scese per via Nazionale, s'inoltrò nelle viuzze dei paraggi, fiutando gli odori delle drogherie. La gente camminava spedita, come stesse per perdere un appuntamento importante, senza urtarsi sui marciapiedi o nei passaggi pedonali, evitando di misura la fiumana di automobili, motorette, autobus e autocarri che si riversava da tutte le parti. Le parlate erano molteplici. Colse al volo il dialetto siciliano, tra due signori eleganti, uno dei quali stava mettendosi al volante di una lunga Mercedes bianca. Poi un gruppetto di negri lo sfiorò parlando in francese; una bella donna indiana gli passò davanti, avvolta in un sari multicolore. Le ragazze in minigonna erano una tentazione continua.

    Era stordito.

    Entrò in un ristorante; mangiò svogliatamente, seduto a un tavolo d'angolo, sbirciando una ragazza in minigonna seduta più in là.

    Quando uscì, erano le due passate e piovigginava. La ragazza in minigonna lo sfiorò sulla soglia, gli sorrise come per chiedergli scusa e si allontanò ancheggiando. Di lei, Sartori ammirò soprattutto le belle gambe racchiuse in lunghi stivali a calza, di pelle nera.

    Anche la vista di quella sconosciuta lo immalinconì. In momenti come quello ricordava con particolare amarezza di aver compiuto quarantacinque anni e di aver mancato tutte le occasioni di prestigio sognate da adolescente. Alto, snello, i capelli a spazzola brizzolati alle tempie, sempre compìto nel vestire (la sua unica debolezza, con una inclinazione particolare per le cravatte), sapeva di poter piacere alle donne. Ma spesso, quando le circostanze gli avrebbero offerto l'occasione di una scappatella, il mesto volto della moglie lo fermava alle soglie del piacere.

    Un tassì lo portò alla Questura centrale.

    Il brigadiere Corona, che lo stava aspettando, gli indicò l'ufficio che il questore gli aveva assegnato provvisoriamente. Si trattava di una stanza piuttosto squallida, con una finestra che s'affacciava sul cortile. Non c'era modo di scorgere il cielo; si vedevano soltanto gli automezzi della polizia posteggiati qua e là e l'andirivieni della gente nell'androne.

    «Che gliene pare, dottore?» s'informò Corona.

    «Bello schifo», mormorò Sartori.

    Si sedettero a fumare.

    Il brigadiere cominciò a parlare del loro paese, Partanna, e questo era un argomento che a lungo andare infastidiva Sartori. Ora come ora, non voleva pensare ad altro che al servizio, non perché fosse particolarmente zelante ma perché sentiva il bisogno di sfuggire alle preoccupazioni.

    La porta si aprì per lasciar passare un uomo in borghese e due agenti in uniforme, che Corona gli presentò come il maresciallo Fantin e gli agenti Tortuoso e Mariani. La sua équipe, provvisoriamente, gli mandava a dire il capo; ed era proprio la provvisorietà della sua sistemazione che gli dava sui nervi.

    Fantin non aveva l'aria molto sveglia, ma doveva sapere il fatto suo, se non altro perché aveva ventidue anni di servizio. Tortuoso, un calabrese alla seconda rafferma o giù di lì, sembrava il tipo del segugio serio e deciso. Dei tre nuovi arrivati, chi ispirò maggior fiducia al commissario fu Mariani. Nativo di Reggio Emilia, era giovane, simpatico e di modi gentili. Sartori avrebbe puntato su di lui, e raramente si sbagliava nelle prime impressioni.

    Fecero portare del caffè dal piantone. Il corridoio davanti all'ufficio era ancora silenzioso. La gente stava facendo la siesta. Ma di lì a poco una «pantera» uscì dal cortile a sirena spiegata, interrompendo il maresciallo Fantin che stava illustrando al commissario quali fossero le esigenze della Squadra mobile. Con la sua parlata veneta, Fantin si faceva ascoltare con piacere.

    Per qualche giorno non successe niente.

    Nel frattempo, Sartori si fece accompagnare da Corona alla ricerca di un appartamento di almeno quattro camere. Ne visitò parecchi ma nessuno lo soddisfaceva.

    «Lo vorrei in mezzo al verde», diceva, «possibilmente poco lontano dal centro, in modo che i ragazzi non debbano far troppa strada per andare a scuola...»

    Per quell'anno Tina e Carlo avrebbero continuato a frequentare a Caltanissetta, dove erano ospiti dei nonni materni.

    La domenica fu una giornata disastrosa, anche se un pallido sole autunnale faceva scintillare i vetri delle finestre.

    Sartori rimase a letto, nell'alberghetto trovatogli dal brigadiere, fin quasi alle undici. Aveva rifiutato un invito a pranzo da Corona, anche se gli dispiaceva di rinunciare ai piatti siciliani di Mariastella. Ma in genere la cucina romana era di suo gusto; soltanto che, a lungo andare, sarebbe diventata una minaccia per la sua linea.

    Uscì dopo mezzogiorno, con una lieve sensazione di sbandamento nel muoversi, e per un motivo che di solito si vergognava un po' a rivelare a qualcuno (ne aveva parlato alla moglie, una volta, nell'intimità); se lasciava passare due o tre giorni senza sacrificare a Venere, diventava irritabile e perdeva sangue dal naso.

    Prima dell'una era già nel ristorante dove aveva visto la ragazza in minigonna e stivaloni. Ormai di lei sapeva molto. Sapeva che si chiamava Cristina Varecchia e che abitava in viale della Stazione Prenestina. Era una habitué del piccolo ristorante e, una volta che si era seduta al tavolo accanto a quello occupato dal commissario, questi aveva potuto leggere il nome e l'indirizzo su una busta posata sulla tovaglia.

    Aveva scambiato anche qualche frase con lei, e ora ogni volta che s'incontravano si salutavano con un sorriso e un cenno del capo. La voce della ragazza era calda e bassa; lo sguardo, che lanciava quasi sempre di sbieco, aveva una luminosità allettante. Poteva avere al massimo trent'anni; vestita con eleganza un po' bizzarra e, anche se non poteva dirsi bellissima, era decisamente seducente.

    Quel giorno, come aveva temuto, Cristina non c'era.

    Era la prima domenica che passava a Roma e quindi non poteva conoscere le abitudini della ragazza. Probabilmente era andata fuori città.

    Mangiò senza appetito dello stufato d'abbacchio, bevve due bicchieri di vino bianco dei Castelli e il caffè. Si concesse un whisky da Dagnino, che fece precedere da due cannoli alla siciliana. Poi si infilò in un cinema, dove per due ore si illuse di essere diventato uno sceriffo del West.

    Prima di tornare in albergo, decise di passare dalla Questura centrale per dare un'occhiata ad alcune pratiche in corso, prive di vera importanza.

    Quell'impulso doveva costargli caro in un prossimo futuro, era destinato a sconvolgergli l'esistenza. Ma Federico Sartori², commissario di Pubblica sicurezza, non poteva prevederlo. Tutta colpa di quella domenica solitaria nella grande baraonda della metropoli sconosciuta.

    Attraversò il corridoio quasi deserto, salutato dai pochi agenti che lo incontrarono, chiese a uno dei piantoni di portargli un caffè ristretto, quindi si diresse verso il suo ufficio e aprì la porta.

    Per una frazione di secondo ebbe l'impressione di aver sbagliato, di non trovarsi sulla soglia del suo laido ufficio presso la Questura centrale di Roma ma nell'anticamera del paradiso. Restò immobile, con la destra sul pomolo dell'uscio, come una statua di sale, a contemplare la visione che il caso (o forse uno dei suoi sogni di adolescente) gli aveva elargito. In quel momento, sua moglie era più lontana della luna (Fefè, mi pensi? Fefè, perché non scrivi più spesso?), e neppure il pensiero dei figli lo disturbava, ammesso che dei figli ragazzi possano impedire a un uomo nel pieno della sua maturità di ammirare una stupenda ragazza.

    La visione era lì, sulla poltroncina traballante davanti alla scrivania: lunghe gambe accavallate, minuscola gonna che sembrava una panciera, pelliccia che incorniciava un corpo che difficilmente la fantasia di un pittore sarebbe riuscita a creare; la scollatura triangolare del maglione color canarino forse per sbaglio riusciva a coprire l'ombelico. C'erano poi gli occhi, dall'iride verde, che guardavano tutto e tutti con un'ingenuità disarmante, come per dire: «Vedete? Non faccio male a nessuno. Madre natura mi ha cucinata così!»; e quel visino magro, dagli zigomi alti e sporgenti (così piacevano a lui i volti delle donne), dove soltanto la bocca larga e sensuale, imbellettata di rosa per intonarsi con i lunghi capelli biondissimi, rivelava una certa maturità.

    «Lei commissario?... Lei capo quaggiù?... Oh, io molto disperata, sir!... Mia amica sparita. Forse uccisa. Lei molto bella e italiani molto violenti...»

    Straniera.

    Bontà divina, non poteva essere che straniera! La ragazza tendeva le braccia verso di lui, come per attendere un contatto fisico.

    Il commissario Sartori varcò la soglia come in trance.

    2. La vichinga

    La ragazza aveva un sex appeal da togliere il fiato. E da dieci minuti, da quando cioè si era sparsa la voce negli uffici vicini, piantoni, agenti e sottufficiali inventavano pretesti per entrare nella stanza e inebetirsi di fronte alla vichinga. Poi Sartori mise tutti alla porta, a eccezione del brigadiere Corona, che faceva da scrivano.

    «Dica pure, signorina.»

    Si chiamava Harriet Larsen; era nata in Svezia ventidue anni prima, precisamente a Linköping (con la dieresi sulla o, aveva precisato, e il brigadiere aveva segnato i due puntini con scrupolosa attenzione), nell'Östergötland³ (altra dieresi sulla prima o; il brigadiere avrebbe messo le dieresi dappertutto, pur di farle piacere).

    «E allora, miss Larsen?»

    Poiché Corona sollevò lo sguardo, stupito da quel miss, Sartori non poté fare a meno di arrossire.

    «Oh, parli pure italiano!» esclamò la ragazza. «Io conosco benne suo linguo...»

    Era arrivata in Italia da poco meno di un anno. Da Stoccolma, dove aveva incontrato un belo fusto italiano che l'aveva convinta a darsi al cinema, era venuta direttamente a Roma. Aveva tentato di farsi presentare a Fellini, ma dopo lunghe ricerche e faticose anticamere aveva desistito.

    «Lei conosceva Fellini?» domandò Sartori.

    «No», rispose la ragazza, «ma tutti dire grande regista e grande passione per bele svedesi...»

    «Ah!»

    «Io ammiro molto Fellini...»

    «Sì, è un grande regista», ammise il commissario debolmente.

    La ragazza scosse la testa negativamente.

    «Oh, no!» esclamò con forza. «Solo grande bluff... Lui magnifico venditore di fumo.»

    Naturalmente, dopo aver instaurato una stretta quanto effimera alleanza tra Campania e Svezia, il belo fusto se l'era squagliata. Ma Harriet non si era persa d'animo e si era dedicata all'arte dello spogliarello, passando da un night all'altro. Ora si esibiva al Granchio Azzurro, un locale di lusso nei paraggi di via Veneto.

    Pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma, la ragazza aveva fatto amicizia con un'«artista» del Granchio Azzurro, una certa Katia, il cui vero nome però era Caterina Mascinelli, di Pescara, con la quale aveva preso in affitto un appartamentino di tre stanze in via Nomentana.

    Katia si era subito dimostrata un'amica sincera e Harriet le si era affezionata con quel calore di cui, checché se ne dica, sono capaci i nordici.

    «Ebbene?» chiese il commissario, vedendo che la ragazza esitava.

    Da sei giorni Katia era sparita e Harriet era molto preoccupata, perché l'amica non le aveva minimamente parlato di una partenza improvvisa. D'altronde, una congettura del genere era da scartare, dato che tutti gli effetti personali di Caterina Mascinelli si trovavano ancora nell'appartamento comune. Harriet aggiunse che il direttore del Granchio Azzurro era furibondo perché il «numero» di Katia costituiva una vera attrazione per il locale.

    «Lei è convinta che alla sua amica sia accaduta una disgrazia?»

    Harriet temeva di sì. Aveva fatto delle ricerche negli ospedali, ma senza risultato. Tra gli incidenti stradali di cui aveva avuto notizia dai giornali non aveva trovato nulla che si riferisse all'amica. La Millecento di Katia si trovava nel solito garage, in via Nomentana, dove la ragazza la teneva.

    «La sua amica aveva una relazione fissa?»

    Sì, l'aveva, anche se ciò non escludeva altre amicizie. Un certo Toto, non meglio identificato, le dimostrava un amore asfissiante. Harriet poteva solo dire in proposito che il giovane era romano e che lavorava alla Esso.

    «Lo conosce?»

    «Sì.»

    «Può descrivermelo?»

    Alto, biondo, elegante; portava gli occhiali e leggeva Playboy, di cui teneva sempre una copia in tasca. Aveva chiesto più volte a Katia di sposarlo. Ogni sera, dopo la mezzanotte, faceva una scappata al Granchio Azzurro per vedere la ragazza del cuore.

    «La sua amica come ha reagito alle proposte di matrimonio di questo Toto?»

    «Oh, lei ridere! Niente volere sposarsi, Katia!...»

    «E poi?»

    «Niente. lo finito. Lei trovare mia amica, vero?»

    I verdi occhi della vichinga si velarono di lacrime, mentre le sue mani si tendevano come per ricevere Katia in dono dal commissario.

    «Faremo tutto il possibile», rispose Sartori. «Intanto, sarà bene che io dia un'occhiata alla camera occupata dalla sua amica. Ha una fotografia, qui o a casa?»

    «Sì. A casa. Molte foto di Katia. Anche nuda...»

    Sartori scambiò un'occhiata col brigadiere, che abbozzò un sorrisetto ebete.

    «Brigadiere, viene con me?»

    La ragazza si alzò, imitando il commissario. Era più alta di lui di almeno dieci centimetri. Quando riaccostò i lembi della pelliccia, una nuvola di penetrante profumo francese avvolse i due uomini.

    3 Un caso oscuro

    Il palazzo era grigio, di molti piani, con un androne cupo dove il sole non penetrava mai.

    Harriet fece strada verso l'ascensore, sulla cui soglia attese i due funzionari, quasi impaziente.

    «Forse Katia morta», disse, mentre la gabbia di metallo saliva verso il settimo piano.

    «Che cosa glielo fa pensare?» domandò il commissario.

    La ragazza si toccò la mammella sinistra. Era la prima volta che tali attributi femminili avevano dei presentimenti, pensò il commissario.

    L'appartamento era arredato con molto buon gusto. Delle tre camere di cui si componeva, una era adibita a soggiorno-salotto; le altre due erano le camere da letto delle due ragazze.

    Quella di Katia era piena di oggetti multicolori, dal copriletto ai tappeti, alle stampe affisse alle pareti. Sartori ne fu favorevolmente colpito.

    «Permette, vero?»

    Cominciò a frugare nei cassetti, poi passò all'armadio. Molti giornali a fumetti erano accatastati accanto al letto. I vestiti di Katia erano lo strumento di una esistenza votata alla gioia: oltre che numerosi e bizzarri, avevano una personalità che certo rifletteva quella della ragazza.

    Corona si avvicinò al commissario tenendo in mano un grosso album di fotografie rivestito di marocchino rosso.

    «Questa è lei», disse.

    Harriet, che era rimasta trepidante e preoccupata sulla soglia della camera, s'intromise dicendo: «Sì, è Katia».

    Sartori incominciò a far scorrere le fotografie, anche a beneficio degli altri due che gli stavano ai lati.

    Avvertiva, con un vago turbamento, la pressione di Harriet sul braccio sinistro.

    Dalle foto, Caterina Mascinelli lo fissava con occhi ardenti. Piccola, graziosa, con corti capelli neri e un corpo dalle forme armoniose, lasciava intuire in sé una profonda gioia di vivere. Le pose avevano poche varianti. Le foto erano chiaramente riprese da diversi numeri di striptease. In qualche fotografia si notavano le facce di alcuni spettatori, un po' sfocate alle spalle della ragazza. I nudi facevano parte di una serie di dodici fotografie, di cui quattro a colori, probabilmente eseguite per qualche servizio giornalistico.

    «Molto carina!» commentò il brigadiere Corona. Il commissario Sartori assentì dicendo: «Ne scelga una di quelle meno...»

    «Ho capito. Per la stampa.»

    Il commissario si voltò verso Harriet, che fece un passo indietro con una certa precipitazione. Forse si era accorta di essere stata per qualche istante a stretto contatto col funzionario. Nei suoi occhi verdi, Sartori lesse una simpatia confusa, mista a bisogno di aiuto e a qualche altro sentimento che sfuggiva a una definizione precisa.

    «Quando ha visto la sua amica l'ultima volta?»

    Una settimana prima, il lunedì. Poco prima di mezzogiorno, Harriet si era alzata ed era andata dal parrucchiere. Prima di uscire, aveva aperto l'uscio della camera di Katia e aveva visto l'amica al telefono, ancora insonnolita e visibilmente contrariata.

    Harriet aveva cominciato a dirle che stava uscendo, ma Katia le aveva fatto bruscamente cenno di non disturbarla, e lei aveva richiuso l'uscio, un po' risentita.

    «Quella è stata l'ultima volta che l'ha vista?» domandò Sartori.

    «Sì.»

    «Quando è tornata dal parrucchiere non l'ha più trovata a casa?»

    Harriet non era tornata dal parrucchiere subito. Alle dodici e tre quarti, già pettinata, si era recata nel solito ristorante dove consumava i pasti.

    «Quale ristorante?»

    «Una trattoria di via Castelfidardo... Il padrone si chiama Genesio...»

    Corona prese nota sul suo taccuino.

    «Una trattoria toscana?» domandò il brigadiere.

    «Credo di sì...» rispose la ragazza.

    «Anche la sua amica viene a mangiare di solito in quella trattoria?» riprese Sartori.

    «Se non ha altri impegni, sì.»

    «E quel giorno, lunedì, venne?»

    «No.»

    «L'aspettò?»

    «Sì. Io parlare molto con Genesio...»

    «Fino a che ora l'aspettò?»

    Harriet si mordicchiò un labbro.

    «Quasi le tre. Poi, io via...» rispose dopo una lieve esitazione, i verdi occhi spalancati sul funzionario, come in attesa di un verdetto decisivo.

    «Fece ritorno a casa?»

    «No.»

    «Dove andò?»

    Harriet si strinse nelle spalle. Aveva fatto una lunga passeggiata fino a piazza Barberini, senza una meta precisa. C'era un po' di sole e la città l'attirava.

    Sartori la capiva. Era accaduto anche a lui, in quei giorni.

    «A che ora fece ritorno a casa?» s'informò.

    «Verso le quattro e mezzo... o le cinque.»

    «E la sua amica non c'era?»

    «No.»

    «A che ora era uscita?»

    «Non lo so.» Non ha chiesto alla portinaia?»

    «No... Perché chiedere? Niente motivo. Katia libera di fare suoi comodi...»

    Sartori fece alcuni passi per la stanza e si avvicinò alla finestra. Spostò una tendina dai vetri e guardò fuori. I tetti dei palazzi di fronte andavano su e giù verso porta Pia. Il cielo si stava rannuvolando. Si era levato un po' di vento; della biancheria stesa ad asciugare su un ballatoio lontano danzava nel vuoto.

    Il commissario si voltò a fissare la ragazza.

    La bellezza di lei, il suo fascino soprattutto, con quella sorta di spudorata innocenza negli occhi e nella voce, lo turbavano.

    «Quando fece ritorno a casa, la camera della sua amica era in ordine?» domandò.

    «No», rispose Harriet. «Io fatto pulizia.»

    «Perché?»

    «Non capire... Katia mia amica. Lei fare così molte volte con mia camera.»

    Sartori annuì.

    «Solitamente, siete voi stesse che badate all'appartamento?»

    «Sì.»

    «Non ha notato niente di strano, quando ha fatto pulizia nella camera della sua amica?»

    «No.»

    Sartori accese una sigaretta e tornò ad avvicinarsi alla finestra. Il paesaggio dei tetti lo attirava, forse per il suo squallore. O forse lui si sforzava di distogliere lo sguardo dalla figura seducente della svedese. Non volle approfondire la sua condotta e, senza girarsi, riprese: «La sua amica tiene un diario?»

    «Di...ario?» scandì Harriet. «Cosa essere?»

    «In inglese, diary... journal...»

    «Ah, capito!» esclamò Harriet. «No, Katia niente diario...»

    Il commissario cercò un posacenere. Il brigadiere fu sollecito a portargliene uno, preso dal tavolino da notte.

    «Signorina, mi dica sinceramente... Siete solite ricevere visite maschili a casa vostra?»

    Harriet spalancò i begli occhioni pieni di meraviglia.

    «Uomini qui?» esclamò.

    «È quello che voglio dire.»

    La ragazza scosse la testa.

    «Mai uomini qui», disse con fermezza, mentre un lieve rossore le affiorava agli zigomi, stranamente. «Noi non butane. Libero amore, sì, ma quando ci piace.

    «Qui, in casa?»

    «No, mai...» rispose la ragazza con più vigore.

    Lo sguardo di Sartori si posò sull'apparecchio telefonico, situato sul tavolino da notte.

    «Il telefono è in comune?» domandò e, vedendo che la ragazza non capiva, soggiunse: «Avete un solo numero di telefono?»

    Un solo numero, con un apparecchio in ciascuna stanza.

    «Tre apparecchi?» esclamò il commissario, «Perché?»

    «Per comodità... Noi siamo molto pigre.»

    Passarono nel soggiorno, attraverso un breve corridoio, dove Sartori sostò per aprire un armadio a muro. Dentro c'erano valigie, cianfrusaglie, una racchetta da tennis e biancheria da letto.

    «Chi gioca a tennis?»

    «Io... Un tempo molto brava. Ora poco...»

    Su un tavolo rotondo a tre gambe, situato vicino a una delle due finestre del soggiorno, c'erano delle rose gialle in un vaso di ceramica azzurra. Una libreria spaziosa s'innalzava lungo la parete tra le due finestre, piena di volumi disposti con ordine. Sartori si soffermò a curiosare. Molti erano libri di studio e di consultazione in inglese e in svedese; pochi i romanzi, alcuni dei quali in italiano, ma di autore straniero.

    «Questi libri sono suoi?»

    «Ah, certo!»

    «Vedo testi di chimica e...»

    «Sono farmacista», spiegò Harriet.

    Sartori sollevò lo sguardo. Era veramente sorpreso. Il brigadiere fissava la ragazza sbalordito.

    «Mi scusi», disse il commissario, «perché fa lo striptease, allora? Lei è intelligente, giovane, colta...» esitò, «e bella anche, certo. A quanto mi è dato di capire, appartiene a una buona famiglia...»

    «L'avventura mi piace», spiegò Harriet con un sorriso di infantile fierezza. «La vita non è banco di farmacia. Chiunque sapere vendere medicinali; pochi sapere vivere... La vita è movimento, novità, gente nuova, paesi nuovi... strade, muri, persone, alberi, mare...»

    Sembrava che declamasse una poesia di Cardarelli⁴.

    Sartori assentì debolmente, forse intuendo che nelle parole di quella ragazza, nata sotto altre latitudini, si celava il segreto di quell'esistenza che a lui, nonostante tutti i suoi sforzi, continuava a configurarsi come un enigma.

    «E per Katia? Che cos'è la vita, per Katia?»

    «Oh!... Per Katia la vita è arrivare alla ricchezza, alla notorietà... Lei buona cantante. Forse lei arrivare alla fama... Charlie Fondi presto la lanciare alla televisione. Già fatto un provino, a Katia...»

    Il brigadiere Corona ricordò al funzionario che Charlie Fondi era un presentatore italoamericano che andava per la maggiore. Harriet, che aveva capito i dubbi del commissario, soggiunse: «Charlie Fondi presenta la famosa... come dire?... il famoso show Saluti e baci... Mai visto?»

    «Ne ho sentito parlare», rispose Sartori.

    Si avvicinò al tavolo rotondo e con un dito sfiorò una rosa.

    «Questi fiori sono un regalo?»

    «No. Io comprati, domenica...»

    Il commissario si voltò a guardare la ragazza, che pareva contemplarlo estatica.

    «Ricorda che cosa stava dicendo la sua amica, quando lei aprì la porta per salutarla, lunedì mattina?»

    «Al telefono?»

    «Sì.»

    La ragazza scosse la testa.

    «No. Non ricordare. Forse non capito...»

    «Però ha detto che sembrava arrabbiata. Non è così?»

    La ragazza annuì.

    «Sì, arrabbiata», confermò. «Mi mandare via con la mano... Mai fatto così con me. Con me, sempre gentile, Katia, sempre affettuosa...» Si portò una mano alla bocca, come per un pensiero improvviso. «Forse ricordare due o tre parole...»

    «Dica pure», la esortò il commissario.

    «Katia arrabbiata, sì... Parlava forte, quando io aprire la porta. Lei dire: È troppo, è troppo! Resto all'asciutto!... Proprio così. Asciutto voler dire non bagnato vero?»

    Il brigadiere Corona non poté trattenere un sorriso.

    Sartori non rispose; stava rimasticando le parole citate dalla svedese.

    «Lei crede che la sua amica stesse parlando di denaro?» domandò con improvviso calore.

    «Denaro? Già, forse!...»

    «Se è così, qualcuno stava chiedendo del denaro alla sua amica. Non le pare?»

    «Possibile.»

    «Un uomo?»

    «Possibile.»

    «Non ha idea di chi si possa trattare?»

    «No, non proprio.»

    Sartori sbirciò verso il ballatoio lontano e, per un momento, i suoi pensieri inseguirono il balletto dei panni stesi ad asciugare.

    «La sua amica aveva dei risparmi?»

    «Sì, certo. Anch'io risparmi...»

    «Li tiene in casa?»

    «No, in banca. Anche io tengo i miei risparmi in banca...»

    «La stessa banca?»

    «Sì.»

    «Quale?»

    «Banco di Napoli.

    «Quale via?»

    «Vicino Parlamento... Via del Parlamento, sì. Noi spesso andare a sentire discussioni dei deputati...» Rise. «Noi ridere molto. Tutti parlare, parlare, con parole grosse come ruote autocarro, e cose sempre andare male...»

    Corona stava annotando.

    Il commissario si guardò attorno. I mobili, gli oggetti sparsi qua e là, non riuscivano a dargli un'idea precisa della personalità di Caterina Mascinelli. L'atmosfera delle camere viste non aveva un carattere ben definito.

    «Permette che dia un'occhiata alla sua camera?»

    «Mia camera?»

    «Sì... Badi bene, può rifiutarsi, se vuole. Non ho un regolare mandato.»

    Il brigadiere guardò il superiore con raccapriccio. Era evidente che non si spiegava quella dichiarazione, che conosceva per averla sentita qualche volta nei film americani.

    «Preco.»

    Harriet guidò i due uomini verso il corridoio e, quando ebbe aperto la porta di fronte a quella della camera di Katia, si mise da parte e osservò intimidita il commissario.

    Sembrava la camera di un'adolescente. Il bianco e il rosa prevalevano. Il letto, di legno antico, aveva un baldacchino adorno di merletto bianco, con fronzoli e lunghi veli che scendevano fino al tappeto. Una grossa bambola dai capelli neri campeggiava vicino alla testata. Due orsacchiotti e un somarello sardegnolo sembravano confabulare di misteriosi eventi, sopra una poltrona. Un profumo, il «suo» profumo (Fefè, dove sei? Fefè, che fai?), invadeva ogni angolo della grande camera: si aveva l'impressione di navigare in un elemento nuovo, diverso di quelli elencati in chimica, come se quella porta si aprisse su un altro pianeta. Oltre i vetri della finestra chiusa, il vento si trastullava con lunghi rampicanti dalle zampe verdi e gialle. L'intera parete di fondo, a sinistra della finestra, era coperta da un enorme ingrandimento fotografico che rappresentava una veduta notturna di città nordica, forse Stoccolma. La toletta faceva pensare a una vetrina di Pigalle.

    Harriet teneva gli occhi bassi, come vergognosa di mostrare quella che lei doveva considerare la sua intimità.

    «Non ha altro da dirci?» s'informò Sartori.

    La ragazza agitò i lunghi capelli biondi per far capire che aveva detto tutto.

    «Se dovessero esserci novità, si metta subito in contatto con me, alla Questura centrale. Mi chiamo Sartori.»

    Ebbe la tentazione di stringerle la mano, ma vi rinunciò. In strada trovarono la pioggia.

    4 Il Granchio Azzurro

    Si doveva andare quasi a tentoni fra i tavoli, le sedie, i camerieri che guizzavano come equilibristi e le coppie che danzavano, ma si urtava sempre qualcuno, una spalla nuda sfiorava, una schiena ardita premeva, zazzere imbrillantinate e chiome laccate racchiuse in una nuvola di cosmetici e di sudore. Col decametro, si sarebbe dovuta misurare la superficie dell'epidermide femminile scoperta, al Granchio Azzurro.

    Era un night alla moda, dove a una certa ora si faceva del cabaret spinto e insulso; lo strip, d'altro canto, era una presa in giro e arrivava ai limiti concessi dal codice penale. Sulla pista da ballo, avvolta da una tenebra luminescente, le coppie fingevano di danzare, assordate da un'orchestrina di cinque zazzeruti, bardati di giacconi gialli e verdi come guardie papaline.

    Sartori si diresse subito verso il retro, fendendo la massa in trance.

    Gino Salice, il direttore, che l'aveva conosciuto quel pomeriggio stesso, gli svolazzò incontro agitando le braccia in segno di saluto. Dal lato opposto della sala, una ragazza bruna e graziosa, con un sofisticato abito da sera che si sarebbe potuto chiudere in una scatola di cerini, si lanciò verso il funzionario miagolando: «Beviamo insieme una coppa di champagne, caro?»

    Gino Salice emise un barrito di spavento e sradicò la donna dal funzionario strillando: «Vattene, scimunita!... Questa è la legge!» Poi, cambiando tono ed espressione, si rivolse al commissario. «Dottore bello, quale onore! È arrivato all'ora giusta. Vede che confusione? E ogni sera è così, Dio sia lodato e san Gennaro ringraziato. Ma che sto a parlare? Venga, venga, le offro un vische che non ha mai bevuto in vita sua...»

    Attraverso i suoi gesti, le sue parole, il suo agitarsi, Napoli affiorava con prepotenza.

    Sartori tagliò corto.

    «È arrivato?»

    «Eccome!... Puntuale come le tasse. Quando batte mezzanotte, lui spunta laggiù come la luna a Marechiaro. Sempre in cerca di Katia, Dio lo fulmini...»

    «Dov'è?»

    «Nel camerino della vichinga. Le faccio strada.»

    «Non occorre. Me lo indichi...»

    Uscirono dalla bolgia per passare in un corridoio malamente rischiarato, che puzzava di muffa e di cantina.

    «Grazie, lei vada pure.»

    Il commissario spinse la porta del camerino senza bussare. Harriet stava imbellettandosi davanti alla specchiera. Alta, formosa senza inutili esuberanze, con indosso un babydoll verde oliva più trasparente del cristallo, pareva riempire lo sgabuzzino, odoroso di cipria e di sudore umano. In un angolo, seduto su una poltroncina piuttosto scomoda, c'era un giovanotto esile e biondo, vestito con un'eleganza un po' volgare; l'unica nota gentile, in lui, erano gli occhiali con le lenti sorrette da una montatura dorata.

    «Oh, il mio belo comisario!» esclamò la ragazza, voltandosi di scatto, mentre una smorfia di gioioso stupore le allungava il viso. Qualcosa, nei suoi occhi, diede un certo rimescolio a Sartori. Ma fu per pochi istanti, perché subito l'attenzione del commissario si spostò sul biondino, che si stava alzando intimidito.

    «Io levo il disturbo, allora», disse il giovanotto.

    «Cercavo proprio lei», lo fermò Sartori. «Lei è l'amico di Caterina Mascinelli, vero?»

    «Be', sì!...»

    «Più che un amico, direi, no?»

    «Be', sì!...»

    «Vorrei rivolgerle qualche domanda», proseguì Sartori, dando alla sua voce un tono discorsivo. «Prego, si rimetta a sedere...» II biondino ubbidì. «Come saprà, la signorina Mascinelli è scomparsa da sei giorni, e la polizia, su segnalazione della signorina qui presente, la sta cercando...»

    «Anch'io la cerco», disse il giovanotto con un filo di voce.

    «Dove, qui al night

    Il biondino arrossì.

    «Ieri ho fatto una corsa fino a Pescara...» rispose quasi in tono di protesta. «Mi illudevo che Katia fosse andata da sua madre... Non so, Io speravo. E invece...»

    «Invece?»

    «Non si è vista.»

    Il commissario si sistemò su uno sgabello, tra il giovanotto e la ragazza, e accese una sigaretta. Sembrava che meditasse. In realtà, la presenza di Harriet che si stava infilando tutto un armamentario intimo di merletti neri, gli impediva di concentrarsi.

    «Lei si chiama Toto?» riprese poco dopo.

    «Mi chiamano così. Il mio vero nome è Salvatore, Damma Salvatore.»

    «Di Roma?»

    «Be', non proprio!... Sono nato ad Anzio. La mia famiglia abita ancora lì. Fu ad Anzio che conobbi Caterina tre anni fa...»

    Harriet ebbe un moto di stupore, che non sfuggì al funzionario.

    «Che ci faceva ad Anzio la signorina Mascinelli?» chiese Sartori.

    «La bambinaia... Così mi disse, almeno. Una specie di babysitter, insomma, presso una ricca famiglia del posto...»

    «Ricorda il nome di questa famiglia?»

    «No... Non l'ho mai saputo, anzi.»

    «Lei che lavoro fa?»

    «Sono contabile alla Esso, all'EUR...»

    Il commissario aspirò una lunga boccata di fumo e la espulse verso il pavimento polveroso. Nel suo campo visivo, la bella svedese era una realtà prepotente che lui non riusciva a ignorare.

    «Signor Damma, ha tentato di spiegarsi la scomparsa della signorina Mascinelli?»

    «Oh, sì, ho tentato!... Ma senza risultato.» Il tono del biondino, ora, era improntato all'angoscia. «Per me, è un mistero. Gliel'ho detto anche a Harriet... Perché andarsene via così, all'improvviso, senza una parola, senza...»

    S'interruppe di colpo. Sartori temette che stesse per scoppiare in singhiozzi. Harriet stava indossando un complicato abito stile fin de siècle.

    In corridoio si levò una voce: «Harriet, tra cinque minuti!»

    «Okay!» rispose la ragazza, ormai abbigliata per lo spogliarello. Poi si mosse in un fruscio di stoffe rigide e, posandogli una mano sulla spalla, mormorò al commissario: «Io vado... Dopo ho finito. Mi aspettare?»

    E in quel momento Federico Sartori, maturo poliziotto siciliano, arrossì come un collegiale, si impaperò nel rispondere: «Oh, be', non so. Forse...» mentre, simile a una frustata, l'immagine della moglie gli compariva davanti (Fefè, che fai? Fefè, dove sei?).

    La ragazza uscì squittendo come una scimmietta. Prima di richiudersi, la porta lasciò sgusciare le note lontane di una musica infernale.

    Il biondino teneva gli occhi bassi.

    «Facciamo un'ipotesi», disse il commissario. «Badi, dico ipotesi, perché in realtà non dispongo di alcun elemento in proposito... Se la signorina Mascinelli fosse trovata morta, anzi uccisa, lei che cosa penserebbe? Voglio dire, avrebbe dei sospetti contro qualcuno?»

    Il giovanotto, che aveva sollevato la testa di scatto, lo fissava atterrito.

    «Uccisa?» ansimò.

    «Santo cielo, non si formalizzi! Ho detto uccisa per fare una ipotesi. Oggi sono stato all'Ufficio persone scomparse, e le due sole donne trovate morte in questi giorni sono state identificate. Ma questo non significa niente.»

    Salvatore Damma scosse la testa con fare bovino.

    «Contro chi potrei avere dei sospetti?» mormorò. «Lei non conosceva Caterina... Ma perché parlo di lei al passato?» si affrettò a soggiungere. «Caterina è una brava ragazza, gentile con tutti, con tanto cuore...»

    Con i pollici e gli indici tracciò le dimensioni presunte del cuore della ragazza scomparsa.

    «Ci sono stati rapporti intimi tra voi due?» indagò il commissario.

    «Be', sì!»

    «Lei come la considerava, la sua amante o la sua fidanzata?»

    «Oh, la mia fidanzata, certo!... Io la voglio sposare. Ma Caterina è ambiziosa, aspira alla ricchezza, alla fama.»

    L'interrogatorio si esaurì in breve. Sartori congedò il giovanotto e accese un'altra sigaretta, indeciso se restare o andarsene. Restare significava gettarsi a capofitto in un'avventura sul cui epilogo non osava neppure fantasticare; andarsene equivaleva a una fuga ignominiosa per la sua virilità e, perché no, per i suoi sentimenti. Perché quella svedese bella, seducente e misteriosa balzava fuori da un antico sogno di adolescente per guidarlo nei meandri inaccessibili del desiderio insoddisfatto.

    Rimase tra quelle quattro pareti strette e profumate, con gli abiti e gli indumenti intimi di Harriet gettati qua e là, come a segnare il cammino del piacere.

    La porta si spalancò per lasciar passare la vichinga seminuda, carica di abiti stridenti e profumati, inseguita da uno strascico di applausi.

    «Ecco qui il mio belo comisario!» (Bello, bello, 'stu omone mio!, era solita esclamare la moglie anni prima, nei momenti di intimità, quando il piacere si faceva più acuto in lei.)

    Si fermò a fissarlo dall'alto, dal vertice della sua statura di femmina stupenda, le lunghe gambe nude, un triangolo di lamé sul pube. Lui non avrebbe saputo dire come avvenne. L'iniziativa partì da entrambi: lei si chinò, lui si protese, e le loro bocche furono unite, gli abiti scivolarono sul pavimento, Harriet si trovò seduta sulle gambe dell'uomo, rispose alla sua furia, tutto in lei si dischiuse, si frantumò, sbriciolando la patina bionda del suo corpo in gemiti e mugolii. Un turbine di brevi parole incomprensibili scaturì dalle labbra di lei. Un'asse del pavimento del corridoio scricchiolò. Sartori balzò in piedi. Fu la sua salvezza.

    Candido come un giglio, il brigadiere Corona apparve sorridendo.

    «Grosse novità, commissario!»

    Gli occhi di Sartori lo incenerirono.

    «Grazie, brigadiere. Mi aspetti pure al bar, vengo subito.»

    Corona si ritirò in punta di piedi, la porta si richiuse, l'asse del corridoio scricchiolò ancora una volta.

    Harriet scoppiò in una risata, alla quale Sartori fece eco suo malgrado.

    «Credi che abbia capito?» le chiese.

    Per tutta risposta, la ragazza gli porse uno specchio. Sartori gelò: aveva la faccia impiastricciata di rossetto.

    «Tu maschera!» bisbigliò Harriet stringendoglisi ancora addosso. Lo baciò rapida, più volte, sulle labbra. «Tu bella dolce maschera del mio amore...»

    Lui si sentiva estatico, diluito da una tenerezza che lo appagava in ogni fibra del suo essere.

    «Sei una cara bambina», mormorò.

    «Noi andare a casa mia insieme, poi. Tu aspettare al bar...»

    Il commissario si rimise in ordine e uscì dal camerino. Era stordito ed euforico, quando raggiunse il brigadiere a un tavolo d'angolo, in fondo al bancone del bar, mentre sulla pedana si esibivano due ragazze e un damerino in una danza frenetica.

    «Che cosa le è venuto in mente di irrompere così...» disse Sartori sedendosi di fronte al brigadiere. Ma il suo tono non era di rimprovero.

    «Mi scusi, io non...»

    «Lasciamo andare...» Sartori fece un cenno al cameriere, ordinò un gin-tonic, accese una sigaretta.

    «E allora?»

    «L'automobile di Caterina Mascinelli si trova al garage Consoli, in via Nomentana, dove solitamente la tiene. È una Millecento Fiat di colore biancolatte...» Preciso scrupoloso, fino alla nausea. «La Mascinelli l'ha lasciata lì domenica pomeriggio e non si è più vista. Ho perquisito la macchina, ma non ho trovato nessuna traccia sospetta. Nel cassetto c'erano sigarette Marlboro (tre pacchetti), un flacone di pillole anticoncezionali (un prodotto svizzero, certo acquistato di contrabbando), il libretto di circolazione intestato alla medesima Mascinelli.»

    Sartori ascoltava attento, mentre sorbiva il suo gin-tonic. Corona aveva davanti a sé una birra tedesca, di cui bevve un piccolo sorso, quasi timidamente.

    «Nient'altro?»

    «Sono stato anche alla trattoria toscana di via Castafidardo. È gestita da certo Armorio Genesio, di Prato. Questi dichiara di aver visto la Mascinelli domenica verso le quattordici circa, l'ultima volta. La ragazza era sola. Ha mangiato, ha scambiato quattro parole col proprietario e se n'è andata via. Sembrava normale. Ha anche scherzato col cameriere, un certo Ottone Luigi, detto Gigi.»

    Lo spettacolo si concluse in un'orgia di note stridenti. Le coppie ripresero a danzare.

    «Sono stato anche al Banco di Napoli», riprese Corona, consultando un blocchetto di appunti. «La Mascinelli aveva sul conto due milioni e settecentocinquantamila lire, fino a lunedì undici.»

    «Però!»

    «Martedì, cioè il giorno dodici, si è presentato allo sportello un certo Damma Salvatore e ha prelevato un milione e mezzo dal conto della Mascinelli, mediante un regolare assegno...»

    «Interessante», mormorò Sartori.

    «Venerdì quindici è arrivato un assegno di cinque milioni, che è stato accreditato alla Mascinelli...»

    Il commissario drizzò le orecchie.

    «A firma di chi era l'assegno?»

    «Di un certo Tommaso Gualtiero Solaris. Questo signore è praticamente il proprietario della fabbrica di elettrodomestici Cosmos, sita al chilometro trentacinque della via Pontina. Sa, ora molti industriali trasferiscono i loro stabilimenti oltre Roma, per avere le sovvenzioni della Cassa del Mezzogiorno...»

    «Chissà quale servizio gli avrà fatto la Mascinelli per una somma simile!»

    «Già!» esclamò il brigadiere, dopo aver bevuto una lunga sorsata di birra. «Vorrei proprio saperlo...»

    «Cosmos», mormorò Sartori come tra sé. «La televisione trasmette la pubblicità di questa marca. Ricorda lo slogan? Una Cosmos vi rende più giovani...»

    «Chi sa perché più giovani, poi. Non è mica una medicina...»

    «Ho parlato poco fa con Damma Salvatore», disse il commissario. «l'amico della Mascinelli.»

    «Ah!»

    «Sembrava disperato per la scomparsa della ragazza, che lui non riesce a spiegarsi. Mi aveva fatto una buona impressione, anche. Ma la notizia che lei mi ha portato mi lascia perplesso...»

    Sartori ebbe un fremito, scorgendo Harriet in fondo alla sala, e si affrettò a soggiungere: «Grazie, brigadiere. Può andare a dormire, se vuole. Io mi fermo ancora un poco.»

    Dopo aver stretto la mano che il superiore gli porgeva, Corona se ne andò. Il commissario rimase immobile a contemplare la figura della ragazza che avanzava verso di lui, mentre una sottile, lenta, dolcissima scarica elettrica gli saliva verso la nuca.

    5 Una faccia nuova

    Si svegliò in preda a una piacevole sensazione di novità e subito, nella penombra della camera, avvertì un profumo di Chanel numero cinque e di femmina. L'ampio velo bianco che ricadeva dal baldacchino del letto come la cortina di un'alcova gli ricordò il luogo in cui si, trovava. Stoccolma gli apriva le braccia luminose dalla grande foto sulla parete. Alla sua sinistra, tra le lenzuola azzurre, sconvolte, Harriet dormiva esausta, il bel profilo disteso, le labbra appena dischiuse, i denti piccoli e bianchi a far mostra di sé.

    Sartori guardò l'orologio, alla luce della piccola lampada rimasta accesa. Le nove e venticinque. Di là dalle tapparelle abbassate doveva essere giorno da tempo. Pioveva, rovesci d'acqua si abbattevano sulla casa e di tanto in tanto il tuono rotolava sulla metropoli.

    I giornali del mattino dovevano già essere nelle edicole, con la fotografia di Caterina Mascinelli e l'annuncio della sua misteriosa scomparsa.

    Scese piano e a piedi nudi si recò nel bagno, dove Harriet gli aveva preparato l'occorrente per radersi. La sua camicia era già stata lavata e, poiché il tessuto era di quella fibra artificiale che non richiede stiratura era già pronta per essere indossata.

    In cucina preparò il caffè e ne bevve due tazze, indeciso se portarne a Harriet. Decise di lasciarla dormire. I platani di via Nomentana si agitavano nel vento.

    Dopo che si fu vestito, fu tentato di dare un'occhiata nella camera di Katia. L'ordine degli oggetti, il lette composto e il silenzio disponevano a tetre congetture sulla sorte della ragazza scomparsa. In bagno, aveva notato la borsa igienica di Katia, il suo spazzolino da denti, infilato in un bicchiere di plastica segnato da una K. Chi parte, anche per un viaggio breve, non dimentica a casa i piccoli oggetti indispensabili alla igiene personale. E poi ammesso che li avesse potuti comprare in qualsiasi profumeria, perché eclissarsi senza lasciare due righe all'amica tanto amata? Perché non telefonarle, semmai, se fosse stata costretta a partire all'improvviso?

    Il suo sguardo si posò sull'album di fotografie rilegato in marocchino rosso. Cominciò a sfogliarlo accanto alla finestra, contro i cui vetri si scagliava il temporale.

    Rivide la figura graziosa di Caterina Mascinelli nelle pose ricavate dai suoi spettacoli al Granchio Azzurro. In modo particolare concentrò la sua attenzione su quelle che riprendevano la ragazza in mezzo al pubblico. In undici delle sedici fotografie, il commissario notò la presenza di un uomo dai folti baffi biondi, quasi calvo, vestito con raffinata eleganza.

    Quelle foto dovevano essere state scattate in tempi diversi, perché lo sconosciuto non indossava sempre lo stesso vestito: in due, portava l'abito da sera; in cinque, un abito grigio di taglio sportivo e una piccola cravatta a farfalla; in altre due era addirittura in maniche di camicia, con un panciotto di velluto scuro istoriato di disegni a fiorami; nelle ultime, portava un completo scuro, forse blu, e appariva alquanto euforico, con un alto bicchiere nella sinistra e un grosso sigaro tra i denti.

    Non fu soltanto la sistematica apparizione dell'uomo nelle fotografie ad attirare l'attenzione del commissario, ma il suo atteggiamento: c'era in lui qualcosa, una sorta di fluido, che lo univa segretamente alla ragazza. Non si trattava di un sentimento diretto, passione amore o desiderio, ma di un oscuro legame che Sartori non era in grado di definire. L'uomo infatti occupava sempre un tavolo vicino al quale Katia si lasciava fotografare. In una fotografia Io sconosciuto stava ritirando un mazzo di rose bianche dalla fioraia del locale, e il commissario avrebbe giurato che quei fiori fossero destinati alla ragazza.

    Si sorprese turbato da quella constatazione, anche se non sapeva darne una valutazione precisa.

    Tornò a frugare nell'armadio, riaprì tutti i cassetti, compreso quello del tavolino da notte, dove trovò, tra sigarette, fiammiferi, rossetti vari e batuffoli di cotone, una copia di Playboy. La rivista, sulla cui copertina un'americana standard si metteva in mostra, recava in un angolo un numero di sei cifre tracciato con inchiostro verde. Una sottile penna a sfera con inchiostro verde cadde sul tappeto, quando Sartori prese dal cassetto il fascicolo.

    Per un istante fu tentato di formare quel numero al telefono (non poteva trattarsi che di un numero telefonico), ma la voce di Harriet che lo chiamava lo distrasse.

    «Fffederico!...»

    La ragazza lo aspettava a braccia tese, ancora racchiusa nell'involucro del sonno.

    «Come, sei già pronto? Vai via?» esclamò assumendo una posizione yoga dietro la bianca cortina. Nei suoi occhi, Sartori lesse una dedizione profonda, totale, che lo mise a disagio.

    «Bambina, sai bene che sono un poliziotto e...»

    Lei lo attirò con violenza e se lo strinse al petto senza parlare. Lui capì che stava piangendo.

    «Ma che fai, sciocchina» esclamò fissandola. «Perché queste lacrime, ora?»

    «Io... io sono stupida», farfugliò Harriet. «Io ho molto amore per te. Tu mi credi, vero?»

    «Ti credo.»

    «E tu? Tu non hai amore per Harriet?»

    Sartori la fissò a lungo, grave, in silenzio. Poi le prese il volto tra le mani, la baciò brevemente sulla bocca bisbigliando: «Ho paura di amarti anch'io, piccina, e questo è un disastro...»

    «Anch'io ho paura dell'amore. Ma sono piena di amore per te...» Ebbe una risatina nervosa e scosse la testa, come per scacciare un pensiero tentatore. «Ma non dire niente per ora, vero? Noi amare. nostro amore. È tutto dire, eh?»

    «D'accordo, bambina!»

    «Che cosa tu avere in mano?»

    Sartori si ricordò di aver portato con sé l'album delle fotografie e la copia di Playboy, e le mostrò il calvo dai folti baffi biondi.

    «Conosci quest'uomo?»

    «Ma certo!... È Gualtiero. Un uomo molto ricco, molto importante...»

    «Gualtiero come?»

    «Noi lo chiamare Gualtiero e basta. Qualcuno lo chiamare Gualtiero Cosmos, perché proprietario grande fabbrica elettrodomestici Cosmos... Anche nostro frigorifero essere un Cosmos...»

    Sartori, che aveva avvertito un piccolo tuffo al cuore, disse: «Allora so come si chiama: Tommaso Gualtiero Solaris...»

    «Oh, giusto, Solaris! Ora ricordare... Perché tu mi domandare di lui?»

    «Così, un'idea. Che cosa puoi dirmi di questo Solaris?»

    «Oh, poco!» rispose Harriet sdraiandosi in una posa ingenuamente tentatrice. «Lui molto amico di Gino Salice. Anzi, socio, credo. O lui dare denaro per night, non so... Gualtiero venire spesso al night. Lui offrire champagne a tutti. Molto generoso. Molto generoso. Molto gentile anche...»

    «Con Katia?»

    «Con Katia, con me... con tutte.»

    «È andato a letto con Katia, che tu sappia?»

    Harriet lo fissò contrariata.

    «Voi uomini tutti uguali», scattò con voce stridula, «sempre pensare la stessa cosa...»

    «Non te lo chiedo per semplice curiosità, tesoro. Sto concludendo un pensiero e conducendo un'indagine su un caso che può anche risultare di omicidio.»

    La ragazza gli prese una mano e se la portò alle labbra dicendo: «Tu mi scusare, Fffederico. Io stupida, ecco... Katia andava a letto con Gualtiero? Non so, Non credo. No, sono sicura. Gualtiero ha una bella, bellissima moglie, è molto innamorato di lei. Gualtiero viene sempre con sua moglie, che si chiama Natascia...»

    «Natascia? È un nome russo?» domandò lui.

    «Forse, non so. Ma la moglie di Gualtiero è slava...»

    «Ricordi quando hanno fatto alla tua amica queste fotografie?»

    «Forse un mese fa. Forse meno. Anzi, molto meno. Sono sicura... Gualtiero ha avuto idea. Ha fatto venire un fotografo apposta. Lui voleva lanciare Katia per cinema.»

    Sul retro di ogni foto c'era un timbro con la scritta: «Studio fotografico Ramelli, via del Babuino 9, Roma».

    Sartori mostrò alla ragazza il numero segnato sulla copertina di Playboy.

    «Ti dice niente?»

    «Un numero di telefono», rispose Harriet. «Questa è la scrittura di Katia. Con inchiostro verde... lo ho comprato sabato una penna con inchiostro verde per Katia.»

    «Allora, la tua amica ha annotato questo numero tra sabato o lunedì mattina.»

    «Sì Fffederico...» Harriet s'interruppe, come per un pensiero improvviso, e soggiunse: «Ora io penso. Da quando Katia è scomparsa, Gualtiero non si è più visto al night...»

    Il commissario restò a meditare su quelle parole.

    6 Un indizio

    In albergo trovò due messaggi, uno del brigadiere Corona e l'altro del maresciallo Fantin. Il portiere, un giovanotto di nome Gianni, che aveva fatto il pugile fino a pochi mesi prima, aveva un fare deferente che dava ai nervi al commissario.

    Sartori salì in camera sua e si mise in contatto con il suo ufficio. Sollecito, zelante, prolisso, il maresciallo Fantin s'impalò sull'attenti all'altro capo del filo. Informò il funzionario che la questura di Pescara aveva interrogato la madre di Caterina Mascinelli, una donna semplice, che viveva del suo lavoro di sarta. La signora Mascinelli non vedeva la figlia da quasi un anno, nel corso del quale aveva ricevuto soltanto cinque cartoline illustrate da Roma, da Milano e da San Felice Circeo. L'ultima cartolina, precisamente quella spedita da San Felice Circeo, recava la data del tredici ottobre. Poiché la ragazza era scomparsa il lunedì undici, si era autorizzati a supporre che due giorni dopo fosse ancora viva, ammesso che oggi non Io fosse più.

    Il commissario ordinò a Fantin di richiedere alla signora Mascinelli le cartoline della figlia, che presumibilmente la donna aveva conservato.

    «Si tratta di una cartolina. È già nelle mani del commissariato di Pescara», confermò Fantin. «Telefono subito che ce la mandino per espresso.»

    «Bene... Ah, un'altra cosa, maresciallo!» esclamò Sartori. «Guardi a chi corrisponde questo numero di telefono: ottantacinque dodici ventuno.»

    «Posso accertarlo nel giro di pochi minuti.»

    «Molto bene. Mi chiami in albergo, allora. Grazie.»

    Si cambiò d'abito, calzò un altro paio di scarpe, mentre meditava sulla necessità di prendere in affitto un appartamento. Ma per farne che cosa, dal momento che la sua famiglia non sarebbe potuta venire a Roma prima della chiusura delle scuole?

    Il pensiero della famiglia gli diede un senso di vuoto allo stomaco.

    E Harriet?

    In bilico sui suoi sentimenti, avvertì prepotente la certezza di non poter fare a meno di lei.

    Lo squillo del telefono lo liberò dall'angoscia del momento. Era il maresciallo Fantin.

    «Dottore, quel numero corrisponde a una certa Corallo Elisabetta, di anni sessantacinque, nata a Frascati e residente a Roma da una trentina d'anni. Abita al Quadraro, in via dei Quintili 230. Fino a qualche anno fa, la Corallo ha esercitato la professione di ostetrica...»

    «Ma guarda!» esclamò Sartori con vivo interesse. «Non può dirmi altro sul suo conto?»

    «Non ho avuto il tempo di approfondire...» si scusò il maresciallo Fantin.

    «Faccia subito delle ricerche, allora», proseguì Sartori, prendendo nota dell'indirizzo della donna. «Mi prepari le notizie per le due. Invece di venire in ufficio, telefonerò. Alle due, anzi, mi mandi il brigadiere Corona in albergo, con l'automobile.»

    «Bene, dottore!»

    «Grazie, maresciallo. Forse mi ha dato una buona traccia.»

    «Dovere, signor commissario.»

    Sartori ripose il ricevitore, ma subito dopo richiamò Fantin per incaricarlo di assumere informazioni sul conto di Tommaso Gualtiero Solaris, il proprietario degli stabilimenti Cosmos.

    Era euforico.

    Il caso Mascinelli cominciava a prendere una dimensione più precisa nella sua mente.

    Uscì.

    La pioggia continuava a cadere a rovesci. Poiché non aveva tempo da perdere, andò a mangiare a una tavola calda nelle vicinanze del Viminale: stufato con cavoletti di Bruxelles, due uova all'ostrica (omaggio a Venere), mezzo litro di Frascati e dolce.

    Corallo Elisabetta, ostetrica. Che Katia stesse telefonando a lei, quel lunedì mattina, quando Harriet era andata a salutarla? («troppo, è troppo! Resto all'asciutto!»)

    Ordinò un Johnnie Walker; poi ne comprò una bottiglia, che portò in albergo. Una volta in camera sua, si sdraiò sul letto con l'intenzione di schiacciare un sonnellino. Erano le due meno venti. Il telefono non gli permise di addormentarsi.

    «C'è il brigadiere Corona nella hall», gli annunciò il portiere.

    Hall. Una stanza di sei metri per quattro, con un banco contro il quale si doveva strisciare per introdursi nell'ascensore. Evidentemente l'ex pugile voleva illudersi di essere al Tamanaco.

    «Lo faccia salire.»

    Mise i piedi a terra, prese due bicchieri e, quando Corona bussò alla porta, stava versando del whisky.

    «Buongiorno, dottore. Disturbo?»

    Severo, composto, col cappello in mano e l'impermeabile nero bagnato, faceva pensare a un impresario di pompe funebri.

    «Venga, brigadiere.» Sartori gli porse uno dei bicchieri. «Beva con me al successo delle nostre indagini.»

    Il commissario vuotò il suo bicchiere d'un fiato. Corona interruppe la bevuta per dare sfogo a un accesso di tosse.

    «Gesummaria, e cos'è, spirito?» esclamò appena ebbe ripreso fiato.

    «Whisky. Mai bevuto prima?»

    Corona ebbe un pallido sorriso.

    «Veramente no», ammise. «Ma è buono. Un po' forte...»

    Si sedette sulla seconda sedia che si trovava nella camera. La pioggia non accennava a cessare. Sartori socchiuse la finestra per fare uscire il fumo delle sigarette. Un tram passò stridendo sulle rotaie.

    «Dovrò cambiare albergo», disse a un tratto il commissario. «Qui non si può chiudere occhio la notte. Mi trova una buona pensione?»

    «È presto fatto», rispose il brigadiere. Azzardò un'altra sorsata di liquore e ne parve soddisfatto. Poi soggiunse: «Il maresciallo Fantin sta facendo le ricerche che lei ha disposto. Abbiamo saputo che Solaris nelle ultime elezioni si è presentato come candidato al parlamento, nella lista del Movimento Sociale, ma non è stato eletto. Lui però si lascia chiamare onorevole...»

    «Ah!»

    «Ha un appartamento ai Parioli, un grande attico, dove vive con la moglie e le due figliolette, di dieci e otto anni. La moglie è un gran bel pezzo di donna, di origine slava, e un tempo faceva l'indossatrice e la modella...»

    Piroshka, pensò Sartori, un nome che lo affascinava, aprendogli misteriosi orizzonti di terre lontane. Seguendo un pensiero improvviso, andò a prendere l'album di fotografie trovato nella camera di Caterina Mascinelli e lo aprì a caso. Rivide la ragazza in uno dei suoi artificiosi atteggiamenti erotici e la faccia dura di Gualtiero Solaris alle sue spalle. Ma il commissario cercava un'altra persona, che gli parve di trovare di lì a poco avvolta nella penombra della sala, seduta al fianco dell'industriale: Piroshka. La sua immagine era un po' sfocata ma abbastanza chiara per farsi un'idea dei suoi lineamenti. Aveva il volto magro, triangolare, la bocca carnosa, il collo lungo e delicato, il seno ardito nella scollatura ampia. Attraverso le lunghe ciglia socchiuse, forse artificiali, gli occhi apparivano profondi e insondabili, pieni di una luce che si sarebbe detta di furore o di fredda determinazione. La donna portava i lunghi capelli chiari, forse rossi, acconciati in armonioso disordine attorno al capo.

    «Eccola, dov'essere lei!» disse Sartori, mostrando la fotografia a Corona. «Mi è stato detto che Solaris non si stacca mai dalla moglie, neanche per andare al night...»

    «O è la moglie che non si stacca mai da lui?» osservò acutamente il brigadiere.

    «Un'ipotesi intelligente.»

    Anche in altre fotografie si notava la presenza di colei che con tutta probabilità era la signora Solaris. Il brigadiere proseguì: «In genere, il sabato e la domenica i Solaris li passano ad Anzio, dove possiedono una grande villa... Veramente è il vecchio Solaris il proprietario della villa, un ex magistrato che ha fatto parlare molto di sé prima della guerra...»

    Squillò ancora il telefono. Erano le due spaccate e, naturalmente, puntuale come un cronometro, Fantin rispettava l'impegno preso col funzionario.

    «E allora, maresciallo?»

    «La Corallo Elisabetta è stata coinvolta due volte in reati di procurato aborto. Undici anni fa, su una minorenne. Ma se la cavò per insufficienza di prove. Cinque anni più tardi fu sospettata di aver fatto abortire una francese che lavorava a Roma. Anche questa volta niente contro di lei...»

    «Molto bene, maresciallo.»

    «Il brigadiere Corona le ha detto di Solaris?»

    «Me ne stava parlando proprio in questo momento. Io vado a fare la conoscenza dell'ostetrica.»

    Prima di uscire, Sartori bevve un altro sorso di whisky. Il brigadiere aveva rifiutato di fare il bis. Aveva già gli occhi lucidi e, certo a causa della elevata gradazione alcoolica del liquore bevuto, nel parlare smozzicava qualche parola. Il commissario lo prese cordialmente in giro, mentre infilava l'impermeabile. Pioveva ancora. Quella pioggia cominciava a stancare.

    Un'autoradio della polizia li stava aspettando all'uscita. Al volante si trovava l'agente Mariani, che si affrettò ad aprire la portiera.

    7 Sartori si disorienta

    Via dei Quintili era una strada di periferia, sporca e malandata, invasa da frotte di ragazzini rumorosi e di utilitarie in sosta vietata. A causa dei tombini otturati, la pioggia aveva tramutato il fondo stradale nel letto di un fiume rabbioso dov'era impossibile camminare senza bagnarsi fino alle caviglie.

    L'autoradio si fermò davanti a un portone sventrato. Sartori e il brigadiere ne scesero e corsero a ripararsi sotto l'androne, dov'erano raccolti dei ragazzi che giocavano a carte. Non c'era portineria. Sui lastroni del cortile, consunti dal tempo e orlati di erbaccia, la pioggia martellava testarda. Alcuni bidoni per la spazzatura erano accostati contro il muro di fondo, dove si aprivano delle porte che conducevano nel sottoscala. Al primo piano, lungo la facciata interna della casa, correva un balcone dalla ringhiera di ferro rattoppata qua e là. Un odore di cavoli, misto a quello più forte dell'immondizia bagnata, investì i due uomini.

    «A quale piano abita la signora Corallo?» domandò il brigadiere ai ragazzi.

    «Al terzo, scala a destra», rispose un brunetto dalla faccia sporca.

    Si inerpicarono su una ripida scala dai gradini smussati. Al terzo piano, Corona premette un pulsante sistemato su una porta accanto a un biglietto stinto, con la scritta: «Corallo Elisabetta ostetrica diplomata». Poiché non ne ottenne alcun suono, bussò con energia.

    «Chi è?» domandò una vocina dall'interno.

    «Polizia», rispose il brigadiere.

    La porta si socchiuse e una faccia rugosa di donna apparve nello spiraglio.

    «Polizia?»

    Il brigadiere mostrò la sua tessera. La porta si aprì e i due funzionari varcarono la soglia.

    «La signora Corallo?»

    «Sono io.»

    «Dobbiamo parlare con lei un momento. Questo è il commissario Sartori.»

    La donna era vestita decentemente, con un abito grigio ferro che le arrivava sotto il ginocchio (un abito per uscire, si disse Sartori). Doveva avere poco più di sessantacinque anni, ma appariva ancora piena di energia, con un cipiglio che dimostrava la sua lunga esperienza nelle battaglie della vita. I capelli, raccolti a crocchia sulla nuca, erano stati colorati in una tinta che andava dall'azzurro al rossiccio, certo per nascondere la canizie, con un risultato quanto mai discutibile. La sua figura era quella di una donna anziana della piccola borghesia, ma dietro gli occhiali a stanghetta due pupille chiare, sempre in movimento, sprizzavano malizia e apprensione insieme.

    La donna li introdusse in un tinello pulito e chiaro, dalle pareti tappezzate a fiori. In mezzo al tavolo, coperto da una tovaglia di tela cerata a scacchi, campeggiava un vaso con dei fiori finti.

    «Si accomodino. Posso offrire qualcosa? Un bicchierino di cognac, un caffè...»

    «No, grazie», rispose il commissario, prendendo posto vicino al tavolo. Mentre il brigadiere si sedeva dal lato opposto, continuò: «Si sieda anche lei, signora, così potremo parlare con più calma. Permette che fumi?»

    «Ma certo, che diamine!» rispose la donna con un risolino forzato.

    Andò a prendere un posacenere a forma di conchiglia, che mise davanti al funzionario. Tutti quei preliminari sembravano destinati ad accentuare l'ansietà della donna, che prese posto di fronte al commissario, seduta sull'orlo della seggiola, come in visita.

    «Vorrei che mi dicesse qualcosa sul conto della signorina Caterina Mascinelli, meglio conosciuta col nome di Katia. Penso che avrà letto i giornali...»

    «Non leggo mai i giornali. Dicono sempre le stesse cose... Ha detto Mascinelli, commissario?»

    «Caterina Mascinelli, sì.»

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