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Solo le donne degli altri
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Solo le donne degli altri

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About this ebook

Pietro è un giovane medico, svogliato e privo di ambizioni. Lavora con scarsa dedizione, scansando ogni responsabilità e si gode la vita, intrecciando solo freddi rapporti con donne già sposate. L’ultima, la bellissima Amanda, una ragazza che abita in una cascina isolata assieme al marito Glauco, rompe i suoi schemi e lo fa innamorare. Dopo qualche mese di relazione clandestina, decidono insieme di cominciare una convivenza e Pietro, finalmente, si incarica di parlare con Glauco, che invece si libera dell’orgoglio togliendosi la vita di fronte a lui. Solo qualche secondo dopo, sul luogo del suicidio, il telefono del morto si mette a suonare. Sul display compare il nome di Amanda. In realtà si tratta di qualcuno che l’ha rapita e che sta usando il suo cellulare. Pietro, ignaro, risponde. L’interlocutore detta disposizioni senza appello: se Glauco non sarà capace di completare un certo lavoro che non viene specificato, Amanda sarà prima torturata e poi uccisa al sorgere del sole. Pietro, vedendosi costretto, decide di impersonare Glauco e va incontro alla notte più lunga di sempre.
LanguageItaliano
Release dateMar 22, 2020
ISBN9788868104016
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    Solo le donne degli altri - Roberto Capocristi

    Roberto Capocristi

    SOLO LE DONNE DEGLI ALTRI

    Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104016

    Immagine di copertina su licenza

    Adobestock.com

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave, 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    Il nostro catalogo completo lo trovi su

    www.librisumisura.it

    Roberto Capocristi

    SOLO LE DONNE

    DEGLI ALTRI

    Romanzo

    INDICE

    1

    2

    3

    4

    5

    6

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    63

    L’AUTORE

    CATALOGO

    1

    Le donne degli altri erano state un punto fermo nella vita di Pietro Valli.

    Fin da ragazzo aveva saputo prenderle, servirsene e poi lasciare che i mariti e i fidanzati se ne curassero.

    Non era sua intenzione ascoltarne le lamentele, condividerne la giornata storta, attendere che finisse un’indisposizione o che ritornasse il buonumore.

    Per la verità, non gli interessavano nemmeno il lavoro e gli amici.

    La sua famiglia poi, una coppia di genitori medici, ricchi, stimati e sempre pronti ad aiutarlo, era servita solo a lubrificare quegli ingranaggi utili per ottenere una laurea con voti discreti, la specializzazione in Medicina Generale e la sospetta assegnazione in tempo record di un posto vacante da medico di famiglia. Medicina Generale, c’era scritto sul cartello che faceva bella mostra di sé accanto alla porta del suo ambulatorio e lui, a soli trentaquattro anni, già disponeva di quel piccolo locale in affitto. Era inserito all’interno di un anonimo edificio polivalente di proprietà del Comune, circondato da una recinzione in ferro piuttosto triste, dipinta di verde e sormontata da una serie di piante da giardino lasciate a loro stesse. Nel medesimo edificio trovavano posto una farmacia, una cartoleria e la piccola biblioteca che il Municipio metteva a disposizione dei cinquemila abitanti del paese.

    Pietro Valli era un cittadino, figlio di cittadini e cresciuto sotto il cielo a scacchi del centro di Torino. Tuttavia, quando si era offerta la possibilità di esercitare la professione di medico di famiglia fra le risaie, aveva ringraziato le forti leve di suo padre e si era detto pronto a trasferirsi. Era accaduto in fretta, senza alcuna nostalgia nei confronti dei suoi vecchi amici, delle sue abitudini e di tutte quelle noiose cerimonie che sopportava con fatica.

    In un paio di anni, anche e soprattutto facendo valere l’ascendente del suo ruolo di medico nei confronti delle persone, era riuscito ad avere delle amanti, leggere e disimpegnate come voleva lui. Era stato con una quarantenne stanca del marito distratto e svogliato, con una ragazza di venticinque anni insicura e fragile, e con Fiorella, una sua paziente insaziabile ninfomane, che lui aveva saputo dividere con un paio di uomini prestanti. Si era avvicendato a loro con la naturalezza di un cambio di biancheria, senza che nessuno mai avesse accampato delle pretese o dei diritti di precedenza.

    La vita di Pietro, insomma, fino a un certo punto si era svolta in coerenza ai suoi disegni, senza contraccolpi, dispiaceri o responsabilità.

    Eh sì, perché Pietro aveva imparato a fuggire dalle responsabilità, sia nella vita di tutti i giorni, sia nella sua professione.

    Sebbene fosse solo al secondo anno di esercizio, era stato capace di ricacciare l’entusiasmo proprio dei giovani e quella voglia di buttare il cuore oltre all’ostacolo che nutriva le ambizioni dei principianti. Così, senza troppi rimorsi, si limitava a prescrivere medicine, analisi e visite specialistiche.

    Non dava mai brutte notizie, lui. Glissava, si trincerava dietro terminologie ostili e rimetteva le sentenze di vita e di morte nelle parole ferme di qualche suo collega coraggioso. Quando entrava una persona con gravi affezioni nel suo ambulatorio, lui sapeva congedarla con una pacca sulla spalla, l’indirizzo di un luminare da andare a trovare e le migliori rassicurazioni che sapeva dare. Lo faceva trincerando le sue espressioni tristi dietro quella barba incolta e sotto un casco di capelli scuri, eredità mai estinta della sua passione per l’Heavy Metal. La sua faccia da bravo ragazzo, belloccio, abbronzato, sicuro di sé e pieno di umana comprensione dentro quei suoi grossi occhi neri, lo rendeva inattaccabile. Pietro suscitava simpatie, nelle donne soprattutto, mamme, nonne e ragazze.

    La BMW parcheggiata davanti al suo ambulatorio lo metteva di buonumore e il cielo terso delle belle giornate estive lo chiamava fuori a correre, fra i campi allagati e i borghi che si intravedevano in lontananza, all’ombra del campanile parrocchiale. Quando il cielo si rabbuiava o chiamava a sé la pioggia, c’era sempre una bella palestra ad attenderlo.

    Lì aveva conosciuto Amanda e il giocattolo si era rotto.

    2

    Emma detestava attendere.

    Poteva trovarsi di fronte a un panorama o all’ombra di una palma a contemplare l’oceano, ma se chi doveva arrivare tardava anche di un solo minuto, il suo umore cominciava a volgere irrimediabilmente al cattivo.

    A giudicare dall’orologio appeso alla parete, il tempo stava trascorrendo invano e i ricordi emergevano come pesci morti dal pozzo nero della memoria. Non era nulla al confronto delle cicatrici che ancora bruciavano sotto la pelle, ma lei avrebbe preferito evitare di imparare a memoria i santi del calendario e le provenienze di quelle decine di cartoline, costrette su un tabellone con delle puntine da disegno e ormai irrimediabilmente accartocciate sugli angoli. L’ultima sulla destra ritraeva un paesaggio urbano, con un minareto che si stagliava netto sullo sfondo di un tramonto infuocato. Doveva essere di molti anni prima, quando ancora internet non aveva abolito i francobolli e le penne tracciavano su carta le emozioni di un viaggio.

    Il capitano Martelli era arrivato dalla stanza accanto, ma con quasi tre quarti d’ora di ritardo e quando ormai l’ordine di servizio era stato imparato a memoria. Lei lo aveva accolto con l’intenzione di un sorriso, che doveva avere suonato come una smorfia di rabbia. Lasciando aperta la porta alle sue spalle, accaldato e agitato, non si era nemmeno scusato. C’erano delinquenti da domare, dopotutto, e quell’uomo aveva l’aria di uno capace di fare molto bene il suo mestiere. Il cenno con la mano aveva indicato di rimanere seduti, sebbene Emma non avesse avuto alcuna intenzione di alzarsi, salutare o riverire.

    Il capitano aveva celebrato quegli automatismi, che sicuramente si ripetevano ogni giorno, come la tiratura del giornale, la Messa della sera o la partenza del Regionale delle sette e trenta dal binario 11. Avvolto in una nuvola di sudore aveva guardato all’interno primo cassetto. Era sembrato soddisfatto e il cassetto si era chiuso sotto una spinta decisa. Il telefono era andato a finire sul piano da lavoro e la chiave della sua Giulia fresca di concessionaria, allineata accanto e parallela all’IPhone. La giacca della divisa, nera con le mostrine colorate e i gradi argentati, era stata appesa alla spalliera della poltrona. Il caldo, evidentemente, aveva il potere di sbriciolare le formalità.

    Emma si era chiesta la ragione di quel distintivo da paracadutista appuntato sul petto e che cosa avesse a che fare con uno addestrato a catturare i banditi camminando sulla Terra come un qualunque essere umano. In ogni caso, l’assassino che avrebbe dovuto inseguire si era ormai dileguato nel buio e lei portava le immagini di quella scena con sé. Erano impresse nella memoria come le pitture rupestri sulle pareti di una grotta e sarebbero rimaste lì per sempre.

    Le foto segnaletiche erano racchiuse dentro un grosso classificatore dorso 12 ad anelli. Era blu, dava l’impressione di pesare un quintale e puzzava di plastica. Il capitano Martelli non aveva aggiunto altro. Dal frigo erano uscite un paio di bottigliette d’acqua assieme a dei bicchieri in carta.

    — Se vuole bere non faccia complimenti… — disse indicando il set da servizio più dozzinale che si potesse immaginare. Lei aveva rifiutato, fingendosi concentrata sulle foto.

    La prima pagina era stata girata senza che nessuno dei sospettati avesse fatto accendere la lampadina. Sulla seconda il dito era passato sotto ogni ritratto fino al terzo e indugiato sul profilo del quarto. Un cartello componibile riportava la data del primo giugno 2011 e un codice alfanumerico di otto cifre intervallate con dei trattini. La staffa su cui si appoggiava la testa era per metà immersa nei capelli crespi e dall’orecchio si intravedeva un po’ di cerume rinsecchito. Martelli attese qualche secondo e poi intervenne con voce pacata.

    — Potrebbe essere lui, Emma?

    Passandosi le mani nei capelli corti e accarezzandosi il fianco della testa, aveva finito col mettersi a giocare con l’orecchino di opale. L’espressione accigliata si era illuminata per un momento, poi il viso era tornato ad assumere la solita durezza. Come per un vezzo, si era stirata le sopracciglia con i due pollici, quindi aveva lasciato cadere la mano sul classificatore.

    — Sono tutti neri in questo registro?

    — Non è una questione di razzismo. Dividiamo le foto segnaletiche per colore della pelle, perché le persone tendono a classificare i loro simili partendo da quello, appunto. Se la può consolare, i quaderni con la razza caucasica sono di gran lunga superiori di numero.

    Gli occhi scuri di Emma erano rotolati addosso al capitano come un tiro destinato allo strike, quelli di Martelli, invece, avevano virato in direzione della porta aperta. Nel corridoio c’era un agente che andava avanti e indietro con un dossier tenuto sotto il braccio e dalla stanza del maresciallo Samperi si sentivano suonare i Ramones alla radio: I don’t want to be buried in a Pet Sematary, i don’t want to live my life again... Nel cortile sul retro si stava organizzando la camionetta per il cambio di guardia al cantiere e qualcuno strillava ordini senza preoccuparsi troppo della discrezione. Il meccanico in officina collaudava una sirena appena riparata, facendola suonare e smettere di continuo.

    — Non è lui. Gli somiglia ma no...

    — È sicura Emma?

    — Sicura capitano. Undici decimi e un rimasuglio di memoria eidetica...

    — A ventitré anni?

    — Sì.

    — La memoria eidetica è tipica dei bambini e degli Asperger. Lo sa?

    — E allora io devo essere un po’di tutti e due… E le labbra si serrarono insieme come una sentenza. L’ufficiale, armato della pazienza e del rispetto che si doveva avere nel suo ruolo, si rassegnò a quei comprensibili capricci.

    — Le dice qualcosa quel volto?

    — Non è lui — concluse Emma. Martelli appoggiò i gomiti sul tavolo e la invitò a proseguire.

    Dopo quattro pagine, un senegalese noto per avere tentato di sparare a un tabaccaio, aveva catturato l’attenzione. Nella foto presentava un vistoso ematoma allo zigomo destro, frutto di un timbro in bronzo che il negoziante gli aveva scagliato addosso colpendolo in pieno. Emma lo studiò nei particolari e bocciò il sospetto.

    — L’attaccatura dei capelli. Era molto più bassa…

    — Ne è sicura?

    — Memoria eidetica, si ricorda?

    Martelli vide un accenno di sorriso su quelle labbra sottili e impertinenti. L’orecchino ballonzolava avanti e indietro e sulle tempie una velatura di sudore indicava un po’ di stanchezza.

    — Andiamo avanti. Si ricordi che la sua testimonianza sarà molto importante!

    Emma, vinto il mal di testa che si era insinuato a partire dal collo rigido, si era rilassata. La concentrazione era tornata.

    Aveva studiato con attenzione quei volti. Alcuni di loro portavano impresse le sofferenze che l’Africa sapeva infliggere ai meno fortunati, altri nascondevano a fatica cattiveria e perversione. Erano giovani e anziani, scuri e meno scuri, belli e brutti, stempiati e capelloni. In quel carosello di vite vissute e marchi indelebili sulla pelle e nell’anima, Emma non era riuscita a individuare nessuno che somigliasse, nemmeno lontanamente, al volto dell’uomo che aveva impresso nella sua memoria.

    3

    La pallina dello sfigmomanometro scendeva lentamente lungo la colonnina. Nelle orecchie arrivava un battito flebile e lento.

    Con un’occhiata veloce, Pietro annotò l’esordio della pressione massima e attese qualche secondo che anche la minima fosse stabilita.

    Conosceva bene il signor Montello, un settantenne con il vizio della partita a scopa e sempre troppi baristi e camerieri a gironzolargli intorno. Nonostante quella predilezione per il bianco frizzante, quel giorno la pressione era impeccabile.

    — Centoventi su ottanta. Direi che va bene!

    Il paziente si mise a sedere sul lettino e prese ad arrotolarsi la manica della camicia. Quel braccio, bianco come il latte, per abitudine doveva stare coperto anche sotto la canicola estiva. Quel giorno di inizio estate il termometro non era mai sceso sotto i trenta gradi ed erano già le diciassette e quaranta.

    — Mi ha prescritto la pastiglia lei, dottore. Si ricorda? Una intera ogni mattina.

    Per quanto pigro, se ne ricordava eccome. — Cosa ne dice di provare a ridurre la dose. Facciamo un paio di settimane a metà e poi ci aggiorniamo. Non sarebbe male riuscire a scaricare un po’ i reni…

    — Ma no, dottore! Con tutte le pastiglie che ho già preso in vita mia!

    Pietro si lasciò investire dal fuoco sacro del medico responsabile. La cosa durò un attimo e, in quel frammento di tempo, si immaginò di iniziare un discorso sulla riduzione degli alcolici e sulla buona reputazione della passeggiata quotidiana per il sistema cardiovascolare. Dal momento che il signor Montello era già pronto a salutare, dopo avere ritirato una nuova prescrizione del farmaco ipotensivo, decise di non contraddirlo e si mise al computer.

    — La ricontrollerei nuovamente fra un paio di settimane — consigliò, mentre si accarezzava la barba radunando il pizzetto in una specie di treccina. — Tanto più se continua a fare questo caldo.

    La stampante emise la prescrizione. Pietro la raccolse nel cassettino e indossò gli occhiali da vista. Erano finti e servivano a creargli quel difetto artificiale che tranquillizzava i pazienti.

    — Lei è il mio dottore preferito!

    — La ringrazio. Non me ne voglia il dottor Cassaro buon’anima…

    — Pace all’anima sua, ma dottore, me la passi, il Cassaro era davvero un rompicoglioni!

    Pietro si alzò in piedi spolverandosi il camice. Sotto portava la maglietta celebrativa del tour 2015 dei Metallica. Era un ricordo di Las Vegas, dove era volato praticamente apposta con la scusa di festeggiare l’assegnazione del posto di Medico della Mutua. L’aveva accompagnato Milena, una ragazza in crisi di fidanzamento con un agente della Polizia Stradale. Di ritorno in Italia, contenta della scappatella, si era riconciliata con il suo uomo che nel frattempo era stato promosso ad assistente. — Bene, allora. Si riguardi e mi saluti la signora.

    Se ne andò dopo un saluto che assomigliava a una riverenza. Pietro lo vide uscire e ripararsi la testa calva sotto un cappello di paglia, mentre si infilava in tasca il portafoglio con la ricetta. Guardandolo dalla finestra, si era persuaso che il bar all’angolo sarebbe stata la sua prossima destinazione.

    — Avanti — disse. E dalla sala di attesa si sentì spostare una sedia.

    Era la signora Cogliano, meno di quarant’anni e l’ipocondria che la stava lavorando ai fianchi. Da quando era titolare dell’ambulatorio, Pietro l’aveva vista arrivare a settimane alterne e sempre con il sospetto di una malattia senza appello. Quel giorno la camicetta le si era intrisa di sudore solo nell’attraversare la piazza e l’attesa doveva essere stata snervante.

    Temeva che un neo sulla schiena stesse virando a melanoma e anzi, da un paio di giorni ne era ormai certa. Si presentò con degli occhiali da sole con le lunette enormi e la borsetta a busta tenuta stretta sotto al braccio. Il trucco approssimativo rendeva macabro il suo volto teso e anche il rossetto era stato applicato senza attenzione. Esordì con il solito saluto tremulo.

    — Buongiorno dottore.

    — Si accomodi, prego. Indicò la sedia dinanzi alla scrivania e si mise a sedere a sua volta. L’occhio verificò l’ora: fra meno di quindici minuti avrebbe potuto chiudere. A casa l’attendeva un disco dei Def Leppard che si era assicurato la settimana prima al mercato del vinile di Torino. Ci era andato con Amanda, la donna sposata che era stata capace di far saltare gli schemi della sua esistenza. Non voleva ammetterlo ma, passo dopo passo, giorno dopo giorno, si era insinuato il germe dell’amore in lui. Adesso aveva attecchito e le radici di quel fusto che prometteva di crescere stavano stringendo forte il suo muscolo cardiaco e non solo.

    C’è un neo preoccupante.

    Lo guardò in attesa di vedere la disperazione dietro a quella barba: — Davvero dottore, ha preso una brutta piega!

    Pietro si alzò senza commentare e si armò di una lente potente. — Si metta qua, a favore di luce. Gli diamo un’occhiata subito.

    Lei obbedì e arrivò una zaffata di deodorante stick. Quando sollevò la camicetta si vide la cinghia del reggiseno attorcigliata su se stessa.

    Il neo sembrava normale, solo un leggero arrossamento sui bordi appena frastagliati. La simmetria era rispettata e anche il colore si presentava piuttosto uniforme. Nessun rigonfiamento o rilievo significativo.

    — Ha avuto qualche parente che in passato si è ammalato di melanoma, signora?

    La domanda fu interpretata come una sentenza. — Dottore, è grave?

    — Ma no, secondo me non è niente!

    — No, no, nessun parente — sospirò.

    — Bene. In quel momento suonò il telefono. La signora Ralli, madre di tre figlie, era preoccupata perché una puntura di insetto aveva ridotto l’avambraccio della mezzana in un unico e preoccupante gonfiore. Lui la stette ad ascoltare e concluse che sarebbe bastato un po’ di cortisone applicato localmente, con l’opzione di virare alle pastiglie se le cose non si fossero risolte in breve. Quando ebbe finito, vide che l’orario delle visite era virtualmente passato. Le diciotto e dieci, e una giornata che prometteva meraviglie fino al calare del sole.

    Riprese il filo del discorso solo dopo avere rivolto un pensiero ad Amanda.

    Gli occhi verdi come un lago di montagna si materializzarono nella sua mente assieme a quelle labbra incantevoli. La perfezione della sua pelle liscia si risolveva solo nelle sue sopracciglia sottili. Da sotto i capelli biondi, il bianco perlaceo dell’orecchino invogliava una carezza. La immaginò sorridente e poi la vide vaporizzarsi in una dissolvenza cinematografica. La sua paziente, al confronto, sembrava un materasso vecchio.

    — È preoccupata perché lo vede arrossato. Lo è, ma potrebbe benissimo trattarsi di un’infiammazione dovuta allo sfregamento. Magari le bretelle del reggipetto… Si sentì così antico nel pronunciare quella parola reggipetto ma, dopotutto, voleva mantenere un certo distacco professionale. La signora Cogliano, che doveva essere andata su internet a cercare notizie, aveva alimentato la sua ipocondria con un carburante molto spinto.

    — Mio padre, dottore. È mancato quattro anni fa per un tumore del pancreas.

    E le cose potevano essere collegate. In quel momento, Pietro si ricordò di averlo studiato. Si era osservata una certa tendenza ad ammalarsi di melanoma, se fra i parenti c’era stato qualcuno che aveva avuto problemi seri al pancreas. La situazione si stava ingarbugliando, ed erano già le diciotto e quindici. Si persuase che avrebbe rinunciato all’aperitivo, al diavolo! Il disco dei Def Leppard no, quello doveva suonare a tutto volume prima che arrivasse quel rompicoglioni del suo padrone di casa. Fece una veloce ispezione della pelle sulla schiena, quindi chiese di vedere anche le altri parti dell’epidermide.

    — Secondo me non è niente. La sentì finalmente respirare. — In ogni caso, io consulterei uno specialista. Conosco un ottimo dermatologo, un luminare. Le prendo un appuntamento, se vuole. Diversamente possiamo valutare la cosa fra una settimana, dopo avere curato l’infiammazione, benintesi…

    Si sentì un vigliacco. La sua incertezza avrebbe condannato la paziente a non dormire per almeno una settimana, mettendola nelle condizioni di elaborare nuovi e ancora peggiori scenari di malattie normali. Ma lui non era uno specialista, dopotutto, non aveva voluto diventarlo ed erano già le diciotto e venti.

    — Quante possibilità ci sono che questa cosa sia pericolosa?

    In piedi dinanzi alla finestra, prese gli occhiali in mano e scostò la tendina. Il paese stava cominciando a ravvivarsi e un gruppo di ciclisti era appena passato provocando quell’impercettibile rumore fra le ruote e il pavè. A ovest, la luce del sole calante si sposava con la superficie dell’acqua delle risaie in un bagliore dorato.

    — Zero virgola…

    — E mi

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