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CONCERTO una notte come questa
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CONCERTO una notte come questa

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About this ebook

Non ci si deve mai illudere di aver dato alla propria vita delle solide fondamenta, perché la vita in un attimo si può prendere tutto. Uscita da una brutta esperienza, Laura si ritrova circondata da affetti e situazioni che non sono più quelli di un tempo. Le persone che la circondano sembrano cambiate, il mondo stesso sembra cambiato. L’unico appiglio è la sua creatività, alla quale si aggrappa per ritornare a vivere. Ma a sbarrarle la strada si presentano dubbi provenienti dal passato, insicurezze mai superate, vicende governate da chi si sta approfittando della situazione per il proprio tornaconto.

Attorno a lei, Paola, la sua compagna, Mary, amica e amante di un tempo, Emma, fondatrice del suo fan club affrontano i propri fantasmi, inseguono i propri sogni, combattono per se stesse e per lei. Ma nessuna di loro, compresa Laura, potrà mai vincere la battaglia se non lascerà andare qualcosa, se non sarà disposta a perdere tutto.

È questa una storia di donne che parla alle donne: un concerto di musica generata dal suono della loro fragile e coraggiosa esistenza.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 18, 2020
ISBN9788831663892
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    CONCERTO una notte come questa - Laura Zoe Pace

    LP

    PRESENTAZIONE

    Non ci si de­ve mai il­lu­de­re di aver da­to al­la pro­pria vi­ta del­le so­li­de fon­da­men­ta, per­ché la vi­ta in un at­ti­mo si può pren­de­re tut­to. Usci­ta da una brut­ta espe­rien­za, Lau­ra si ri­tro­va cir­con­da­ta da af­fet­ti e si­tua­zio­ni che non so­no più quel­li di un tem­po. Le per­so­ne che la cir­con­da­no sem­bra­no cam­bia­te, il mon­do stes­so sem­bra cam­bia­to. L’uni­co ap­pi­glio è la sua crea­ti­vi­tà, al­la qua­le si ag­grap­pa per ri­tor­na­re a vi­ve­re. Ma a sbar­rar­le la stra­da si pre­sen­ta­no dub­bi pro­ve­nien­ti dal pas­sa­to, in­si­cu­rez­ze mai su­pe­ra­te, vi­cen­de go­ver­na­te da chi si sta ap­pro­fit­tan­do del­la si­tua­zio­ne per il pro­prio tor­na­con­to.

    At­tor­no a lei, Pao­la, la sua com­pa­gna, Ma­ry, ami­ca e aman­te di un tem­po, Em­ma, fon­da­tri­ce del suo fan club af­fron­ta­no i pro­pri fan­ta­smi, in­se­guo­no i pro­pri so­gni, com­bat­to­no per se stes­se e per lei. Ma nes­su­na di lo­ro, com­pre­sa Lau­ra, po­trà mai vin­ce­re la bat­ta­glia se non la­sce­rà an­da­re qual­co­sa, se non sa­rà di­spo­sta a per­de­re tut­to.

    È que­sta una sto­ria di don­ne che par­la al­le don­ne: un con­cer­to di mu­si­ca ge­ne­ra­ta dal suo­no del­la lo­ro fra­gi­le e co­rag­gio­sa esi­sten­za.

    LZP

    CAPITOLO 1

    RU­MO­RE FOR­TE E IN­DI­STIN­TO

    1.

    Ver­so la fi­ne di giu­gno, do­po qua­si un me­se di cal­do tor­ri­do, so­prag­giun­se­ro i pri­mi tem­po­ra­li esti­vi. La cal­da sta­gio­ne era ar­ri­va­ta in an­ti­ci­po, con la sua ap­pic­ci­co­sa umi­di­tà, e la piog­gia an­zi­ché rin­fre­sca­re non fe­ce che peg­gio­ra­re la si­tua­zio­ne. Quan­do Pao­la tor­nò da New York, do­po sei me­si di as­sen­za, fu ac­col­ta da una ca­lu­ra sof­fo­can­te e da esu­be­ran­ti zan­za­re di cui non ave­va mai, nep­pu­re per un at­ti­mo, sen­ti­to la man­can­za. Ap­pe­na mi­se il na­so fuo­ri dall’ae­ro­por­to, si ri­fu­giò nel­la sua au­to e an­che se stan­chis­si­ma si mi­se al­la gui­da. Non era tan­to per la sua in­na­ta at­ti­tu­di­ne a eser­ci­ta­re un at­ten­to con­trol­lo su tut­to, ma so­lo per ave­re la prio­ri­tà sul­la re­go­la­zio­ne del con­di­zio­na­to­re. Lo mi­se in­fat­ti al mas­si­mo e par­tì per tor­na­re a ca­sa.

    Al suo fian­co, un uo­mo dall’aspet­to ro­bu­sto, e per cer­ti ver­si bel­lo e vi­ri­le, sta­va a brac­cia con­ser­te ten­tan­do di ri­pa­rar­si lo sto­ma­co dal fred­do ed evi­ta­re co­sì una con­ge­stio­ne.

    «Hai fred­do Mi­ke?»

    «No, co­sa te lo fa pen­sa­re? So­lo per­ché qui ci so­no die­ci gra­di e io so­no in ma­ni­che cor­te?»

    «Hai sen­ti­to che cal­do c’è fuo­ri?»

    «Sì, ap­pun­to… fuo­ri. Co­mun­que è esta­te. Ca­pi­ta a vol­te che ci sia cal­do.»

    «Non co­sì.»

    «Sì, ma non è che de­vi raf­fred­da­re l’in­te­ra cit­tà con la tua mac­chi­na.»

    «Quan­to esa­ge­ri…»

    Pao­la guar­dò dal­lo spec­chiet­to la fi­glia che ri­po­sa­va nei se­di­li po­ste­rio­ri. La ra­gaz­zi­na sta­va dor­men­do ri­pa­ra­ta da una co­per­ta di co­to­ne leg­ge­ro. Nel ve­der­la tran­quil­la, pro­se­guì man­te­nen­do co­stan­te la tem­pe­ra­tu­ra dell’abi­ta­co­lo.

    Co­me par­cheg­giò nel giar­di­no di ca­sa, sen­tì pro­ve­ni­re dal­la sua de­stra un gran­de so­spi­ro di sol­lie­vo. La­sciò pe­rò cor­re­re, or­mai del tut­to cat­tu­ra­ta dal­la fe­li­ci­tà di es­se­re ar­ri­va­ta. Spen­se l’au­to e una vol­ta sce­sa si av­viò stan­ca­men­te ver­so il bau­le.

    Lo sguar­do a ter­ra con­cen­tra­to sui suoi pas­si pe­san­ti le im­pe­dì di ac­cor­ger­si del­la gran quan­ti­tà di be­go­nie ros­se e gial­le che, ri­go­glio­se, osten­ta­va­no la pro­pria va­ni­tà dai por­ta­va­si ap­pe­si ai da­van­za­li. L’er­ba, ver­de co­me pit­tu­ra fre­sca bril­lan­te, era sta­ta ta­glia­ta da po­co. Era sta­to Mi­ke a da­re di­spo­si­zio­ni al giar­di­nie­re. Il pra­to da­va la sen­sa­zio­ne di es­se­re mor­bi­do e di po­ter­si sten­de­re per ab­ban­do­nar­si a un be­ne­fi­co ri­po­so; co­sa che Pao­la avreb­be fat­to vo­len­tie­ri. In­ve­ce, com­ple­ta­men­te as­sor­ta nel pren­de­re dal­la mac­chi­na le nu­me­ro­se va­li­gie, non si ac­cor­se di nul­la e non die­de al­cu­na sod­di­sfa­zio­ne all’uo­mo che si era pro­di­ga­to nell’al­le­sti­re il lus­su­reg­gian­te ben­ve­nu­to.

    Un pa­io di ti­mi­di col­pet­ti sui fi­ne­stri­ni la fe­ce sob­bal­za­re. Al­zò lo sguar­do quel tan­to che ba­sta­va per ve­de­re Flo­ra all’in­ter­no dell’au­to. Sua fi­glia era ri­ma­sta im­mo­bi­le, con l’espres­sio­ne di una che si sen­te in col­pa per es­se­re di pe­so, in at­te­sa che qual­cu­no l’aiu­tas­se a scen­de­re. Pao­la la os­ser­vò al­li­bi­ta: com’era pos­si­bi­le che si fos­se di­men­ti­ca­ta del­la fi­glia?

    Si re­se con­to che pu­re Mi­ke, in­ten­to ad aiu­tar­la con le va­li­gie, si era scor­da­to che i se­di­li po­ste­rio­ri dell’au­to ospi­ta­va­no il mo­ti­vo del­la lo­ro lon­ta­nan­za da que­sto pae­se. Ap­pe­na si ac­cor­se del­la si­tua­zio­ne, l’uo­mo si pre­ci­pi­tò ad apri­re la por­tie­ra, af­fan­nan­do­si in scu­se, co­me se quell’in­com­ben­za fos­se di sua re­spon­sa­bi­li­tà.

    Pao­la lo la­sciò fa­re, era co­sì spos­sa­ta da non tro­va­re nell’im­me­dia­to la for­za di rea­gi­re. Nel­la bat­ta­glia con­tro la ma­lat­tia di Flo­ra era sta­ta un’in­crol­la­bi­le guer­rie­ra, ma ora sen­ti­va il pe­so dell’ar­ma­tu­ra che non era an­co­ra riu­sci­ta a to­glier­si. Tut­to il dan­na­to mon­do era di nuo­vo sul­le sue spal­le. O al­me­no, que­sta era la sua sen­sa­zio­ne.

    Lo sta­to di pro­stra­zio­ne in cui si tro­va­va non le im­pe­dì, tut­ta­via, di co­glie­re lo sguar­do del­la fi­glia che era ri­ma­sto in­col­la­to al suo, an­che quan­do Mi­ke le ave­va fat­to se­gno di ag­grap­par­si al brac­cio per scen­de­re. Era uno sguar­do di ri­chie­sta quel­lo di Flo­ra. De­si­de­ra­va che sua ma­dre, ora che era­no tor­na­te, non smet­tes­se di oc­cu­par­si di lei, che non la la­scias­se so­la. Pao­la ci mi­se un po’ a de­ci­frar­lo. Quan­do col­se quel mu­to ma elo­quen­te dia­lo­go, an­dò da Mi­ke e si ri­vol­se a lui con gen­ti­lez­za.

    «Gra­zie Mi­ke, l’ac­com­pa­gno io. È un mo­men­to im­por­tan­te per noi.»

    Ec­co­me, se lo era. Quan­do era­no par­ti­te per New York, ave­va­no la­scia­to tra quel­le quat­tro mu­ra muc­chi di so­gni im­prov­vi­sa­men­te in­fran­ti, tan­ta an­go­scia e pre­oc­cu­pa­zio­ne per l’av­ve­ni­re. Ma­dre e fi­glia, do­po aver sco­per­to che que­st’ul­ti­ma sof­fri­va di una ra­ra ma­lat­tia car­dia­ca, ave­va­no pas­sa­to un pe­rio­do in cui all’oriz­zon­te non com­pa­ri­va mai il lo­ro fu­tu­ro. Ave­va­no vis­su­to con­cen­tra­te nel dif­fi­ci­le com­pi­to di ad­do­me­sti­ca­re i pen­sie­ri, in mo­do che fos­se­ro sem­pre an­co­ra­ti al pre­sen­te o al mas­si­mo al gior­no do­po. Ora quel­la brut­ta pa­ren­te­si del­la lo­ro vi­ta era fi­ni­ta.

    Pao­la rea­liz­zò che se non ci fos­se sta­ta Lau­ra con lo­ro a re­ga­la­re mo­men­ti di ca­ri­ta­te­vo­le sva­go, sa­reb­be­ro mor­te di cre­pa­cuo­re. Mal­gra­do la no­ti­zia del­la ma­lat­tia di Flo­ra l’aves­se di­strut­ta, la sua com­pa­gna ave­va com­ple­ta­men­te mes­so da par­te se stes­sa e pas­san­do so­pra al pro­prio do­lo­re si era de­di­ca­ta a ti­rar su di mo­ra­le tut­ta la fa­mi­glia.

    Men­tre avan­za­va con Flo­ra sot­to­brac­cio, a pas­si len­ti, Pao­la sen­tì una stret­ta di no­stal­gia e le ven­ne da pian­ge­re. Ave­va pen­sa­to a Lau­ra ogni se­con­do del suo lun­go viag­gio di ri­tor­no. Non le sem­bra­va ve­ro che fos­se ar­ri­va­to il mo­men­to di ri­ve­der­la.

    Ten­tan­do di trat­te­ne­re le la­cri­me, cer­cò istin­ti­va­men­te Mi­ke. In quei me­si era sta­to il so­li­do fu­sto su cui si era ag­grap­pa­to il suo cor­po quan­do dal pian­to si fa­ce­va fra­gi­le. La sen­sa­zio­ne era che lui, in qual­che mo­do, po­tes­se ri­for­nir­la di for­za. Era sta­to il suo per­so­na­le di­stri­bu­to­re di se­re­ni­tà.

    Ades­so, pe­rò, era un’al­tra si­tua­zio­ne. Ce l’avreb­be fat­ta a fa­re a me­no di lui?

    Pao­la lo guar­dò di sfug­gi­ta, per­ce­pen­do an­che da lon­ta­no la sua de­lu­sio­ne per es­se­re sta­to mes­so in di­spar­te in un’oc­ca­sio­ne co­sì im­por­tan­te. Do­ve­va pe­rò es­ser­si ras­se­gna­to, op­pu­re nu­tri­re una for­te spe­ran­za, per­ché dai suoi mo­vi­men­ti e dal­la sua espres­sio­ne ap­pa­ri­va tri­ste, ma de­ter­mi­na­to a pro­se­gui­re in ciò che sta­va fa­cen­do.

    2.

    Pao­la si chie­se se non stes­se ti­ran­do trop­po la cor­da con lui. For­se do­ve­va con­ce­der­gli qual­co­sa di più. Du­ran­te il sog­gior­no ame­ri­ca­no si era più vol­te po­sta la que­stio­ne e so­lo in que­sto mo­men­to si re­se con­to di non aver­la an­co­ra ri­sol­ta: era ri­ma­sta im­pi­glia­ta tra le sue co­se e se l’era por­ta­ta con sé, as­sie­me al­le va­li­gie.

    Ora che si tro­va­va fi­nal­men­te a ca­sa, pros­si­ma a ri­ve­de­re la sua com­pa­gna di vi­ta, la si­tua­zio­ne le ap­par­ve pe­rò mol­to chia­ra: Mi­ke an­da­va te­nu­to al suo po­sto. A New York si era ag­grap­pa­ta a lui sen­za al­cu­no scru­po­lo, ben con­sa­pe­vo­le che trat­tan­do­si di una con­di­zio­ne tem­po­ra­nea non sta­va met­ten­do le ba­si per nes­su­na vi­ta fu­tu­ra. In fon­do era sta­to un re­ci­pro­co scam­bio: lui era sta­to ac­can­to al­la don­na che ama­va e lei ave­va avu­to un so­ste­gno co­stan­te.

    Tut­ta­via, ades­so, do­ve­va por­re mag­gior cau­te­la nel lo­ro rap­por­to. Le abi­tu­di­ni ini­zia­li si sa­reb­be­ro po­tu­te pro­trar­re per sem­pre, co­me una spe­cie di im­prin­ting che poi sa­reb­be sta­to do­lo­ro­so rin­ne­ga­re. Era una le­zio­ne che Pao­la ave­va im­pa­ra­to a sue spe­se. Il ri­schio era di tro­var­si, sen­za vo­ler­lo, su una stra­da vo­lu­ta da al­tri, ma­ga­ri con­tra­ria al pro­prio sen­so di mar­cia. E mai co­me in que­sto mo­men­to la don­na non vo­le­va cor­re­re un si­mi­le ri­schio.

    Pro­ce­den­do a te­sta bas­sa, con Flo­ra a brac­cet­to che a sua vol­ta la so­ste­ne­va, Pao­la eb­be la sen­sa­zio­ne di cal­pe­sta­re la frec­cia che in­di­ca­va il per­cor­so vo­lu­to dal de­sti­no. Quel­lo cioè che l’avreb­be por­ta­ta ad al­lon­ta­nar­si da Mi­ke per ri­con­giun­ger­si a Lau­ra.

    Po­chi pas­si ed en­tra­ro­no in ca­sa. Flo­ra ini­zia­va ad an­si­ma­re, per­ciò Pao­la la fe­ce ac­co­mo­da­re sul di­va­no e si se­det­te lì ac­can­to, sfi­ni­ta. Mi­ke le rag­giun­se su­bi­to do­po con le pri­me va­li­gie.

    «Mi ero di­men­ti­ca­to del pro­fu­mo di que­sta ca­sa,» dis­se l’uo­mo, una vol­ta en­tra­to, re­spi­ran­do a pie­ni pol­mo­ni.

    Pao­la lo guar­dò sor­pre­sa, per­ché quel­lo era sta­to an­che il suo pri­mo pen­sie­ro. Pro­vò pu­re un cer­to fa­sti­dio, e ci vol­le un at­ti­mo per ca­pi­re a co­sa fos­se do­vu­to. Il suo ti­mo­re più gran­de era che Mi­ke, una vol­ta a ca­sa, si com­por­tas­se co­me se lo­ro fos­se­ro com­pa­gni di vi­ta. Si re­se con­to che l’uo­mo l’ave­va ap­pe­na fat­to, im­pa­dro­nen­do­si di una sen­sa­zio­ne che non spet­ta­va di di­rit­to a un ospi­te di pas­sag­gio. Che ne sa­pe­va lui del pro­fu­mo del­la lo­ro fa­mi­glia?

    Eb­be pe­rò la lu­ci­di­tà, mal­gra­do la stan­chez­za, di trat­te­ner­si dal ri­bat­te­re. Pri­ma di al­lo­ra Mi­ke non era mai sta­to di trop­po, i suoi com­men­ti non era­no mai sem­bra­ti fuo­ri po­sto. Rea­liz­zò, in un mo­men­to di sin­ce­ra in­tro­spe­zio­ne, di non aver mai pro­va­to per lui al­cun sen­ti­men­to di av­ver­sio­ne fin­ché le era ser­vi­to. Nean­che quan­do ol­tre­pas­san­do i li­mi­ti dell’ami­ci­zia ave­va sfio­ra­to quel­li dell’in­va­den­za. Pao­la gli ave­va la­scia­to cre­de­re che quell’in­ti­mi­tà fos­se gra­di­ta. Ma non era co­sì. L’ave­va ca­pi­to so­lo ades­so. Per­ciò avreb­be vo­lu­to pa­ga­re il con­to e li­be­rar­si in fret­ta di chi le ave­va elar­gi­to la pre­sta­zio­ne.

    Al­lo stes­so tem­po, non po­te­va ne­ga­re che Mi­ke era sta­to im­por­tan­te per la sua sta­bi­li­tà psi­chi­ca e fi­si­ca. Era sta­to gra­zie al­la sua pre­sen­za se era riu­sci­ta a dor­mi­re per qual­che ora di fi­la, con­sa­pe­vo­le che se fos­se suc­ces­so qual­co­sa a Flo­ra lui l’avreb­be sve­glia­ta. Op­pu­re a con­ce­der­si qual­che ba­gno ri­las­san­te nel­la va­sca con l’idro­mas­sag­gio pre­sen­te nell’ap­par­ta­men­to in cui ave­va­no con­vis­su­to. Ora, pe­rò, il piat­to del­la bi­lan­cia ca­ri­co dei sen­ti­men­ti osti­li che pro­va­va per lui pen­de­va ro­vi­no­sa­men­te ver­so il bas­so.

    Non fe­ce nep­pu­re in tem­po a rea­liz­zar­lo che Mi­ke le si av­vi­ci­nò con un bic­chie­re d’ac­qua per Flo­ra. Pao­la non era riu­sci­ta ad al­zar­si per pren­der­lo ed era pro­prio ciò che ser­vi­va a sua fi­glia, in quel mo­men­to di af­fan­no.

    «Gra­zie Mi­ke,» dis­se sol­tan­to.

    La stan­chez­za. La stan­chez­za è ne­mi­ca dei sen­ti­men­ti e del­la sin­ce­ri­tà. In pre­da al­la stan­chez­za si ac­cet­ta a vol­te di non com­bat­te­re, di non di­re, di non espor­si. Si te­me di non ave­re le for­ze per so­ste­ne­re l’on­da d’ur­to dei sen­ti­men­ti al­trui, i qua­li, esplo­den­do, po­treb­be­ro an­da­re in mil­le pez­zi. Per te­ner fe­de a ciò che pro­va­va, Pao­la avreb­be do­vu­to con­ge­dar­lo, sep­pu­re con gen­ti­lez­za. Sa­reb­be sta­ta la co­sa più cor­ret­ta e one­sta an­che se avreb­be in­fran­to, al­me­no al mo­men­to, i so­gni del suo fe­de­le ac­com­pa­gna­to­re.

    In­ve­ce lei, che si sen­ti­va am­mac­ca­ta co­me se fos­se sta­ta tra­vol­ta da uno schiac­cia­sas­si, ap­pe­na Mi­ke eb­be fi­ni­to con le va­li­gie gli dis­se:

    «Ti fer­mi an­co­ra con noi ve­ro? C’è la de­pen­dan­ce pron­ta per te. Non sen­tir­ti in ob­bli­go, ma se ri­ma­ni ci fa dav­ve­ro pia­ce­re».

    Pao­la ci ave­va mes­so tan­ta con­vin­zio­ne nel dir­lo. Non per con­vin­ce­re lui, ma per con­vin­ce­re se stes­sa che sta­va fa­cen­do la co­sa giu­sta. All’im­prov­vi­so, Mi­ke che si av­vi­ci­na­va con il bic­chie­re d’ac­qua le era sem­bra­to, an­co­ra una vol­ta, la sal­vez­za di tut­ti i suoi ma­li, pas­sa­ti e fu­tu­ri, ed eb­be pau­ra di per­der­lo.

    «Lo fa­rò vo­len­tie­ri, Pao­la. Ri­mar­rò fi­no a quan­do avre­te bi­so­gno di me.»

    3.

    Il rap­por­to tra Pao­la e Mi­ke ave­va avu­to uno svi­lup­po im­por­tan­te du­ran­te il lo­ro sog­gior­no ame­ri­ca­no. An­che se all’ini­zio la don­na ave­va ac­cet­ta­to che Mi­ke la rag­giun­ges­se ol­treo­cea­no per so­la con­ve­nien­za, con il tem­po si ri­tro­vò ad am­met­te­re di sen­tir­si be­ne ac­can­to a un uo­mo che si pren­de­va cu­ra di lei.

    Pao­la era an­da­ta a New York per sot­to­por­re sua fi­glia Flo­ra a un de­li­ca­to in­ter­ven­to al cuo­re. La ra­gaz­za sof­fri­va di una ra­ra pa­to­lo­gia di cui era­no ve­nu­te a co­no­scen­za ca­sual­men­te. Nes­sun sin­to­mo si era mai ma­ni­fe­sta­to in lei e se la pre­a­do­le­scen­za con la sua ven­ta­ta di ri­bel­lio­ne in­te­rio­re non l’aves­se spin­ta a in­si­ste­re con sua ma­dre per iscri­ver­si a cal­cio, nes­su­no l’avreb­be mai sco­per­ta. I con­trol­li ac­cu­ra­ti a cui si sot­to­po­ne­va­no le gio­va­ni cal­cia­tri­ci ave­va­no in­di­vi­dua­to l’ano­ma­lia elet­tri­ca del cuo­re e le ave­va­no per­mes­so di cu­rar­si e di vi­ve­re.

    Do­po que­sta tri­ste sco­per­ta, ave­va­no pas­sa­to un pe­rio­do re­la­ti­va­men­te tran­quil­lo. Flo­ra, non po­ten­do più de­di­car­si ad at­ti­vi­tà spor­ti­ve in­ten­se, si era li­mi­ta­ta a ti­rar cal­ci al pal­lo­ne con­tro il mu­ro o a pal­leg­gia­re con Lau­ra, quan­do que­st’ul­ti­ma non era in tour­nee. In quei mo­men­ti Pao­la ama­va se­der­si su­gli sca­li­ni che da­va­no sul giar­di­no a os­ser­var­le, cro­gio­lan­do­si nel pia­ce­re di ave­re ac­can­to quel­le due splen­di­de crea­tu­re e fe­li­ce di pro­va­re per lo­ro un amo­re che, sor­pren­den­do­la, le sem­bra­va co­stan­te e ine­sau­ri­bi­le. Non po­te­va cer­to so­spet­ta­re quel­lo che sa­reb­be ac­ca­du­to più tar­di.

    Un re­pen­ti­no ag­gra­var­si del­le con­di­zio­ni di Flo­ra l’ave­va fat­ta par­ti­re d’ur­gen­za, nel gen­na­io di quell’an­no. Lau­ra sta­va fi­nen­do il tour e Pao­la ave­va in­si­sti­to che ri­ma­nes­se in Eu­ro­pa, per te­ner fe­de ai suoi im­pe­gni pro­fes­sio­na­li. Era­no da po­co ve­nu­te fuo­ri da un pe­rio­do ar­ti­sti­co un po’ gri­gio, per via del­la con­dot­ta ir­re­go­la­re di Lau­ra, de­di­ta più al be­re che al can­ta­re. Di con­se­guen­za, in quel mo­men­to, per non ri­schia­re di but­ta­re all’aria tut­ti gli sfor­zi era fon­da­men­ta­le che non fa­ces­se sal­ta­re al­cun con­cer­to.

    La ma­lat­tia di Flo­ra non era tut­ta­via l’uni­ca sven­tu­ra che Pao­la si sa­reb­be ri­tro­va ad af­fron­ta­re in quel pe­rio­do. Do­po qua­si un me­se di sog­gior­no in Ame­ri­ca, ri­ce­vet­te in­fat­ti una chia­ma­ta che le avreb­be cam­bia­to non po­co la vi­ta.

    Era il 12 feb­bra­io dell’an­no in cor­so. A New York ne­vi­ca­va sen­za so­sta da qua­si una set­ti­ma­na. Quel gior­no pe­rò ave­va smes­so. Pao­la uscì dall’ospe­da­le in­cam­mi­nan­do­si sul­la stra­da ri­co­per­ta di ne­ve, al­la ri­cer­ca di un lo­ca­le do­ve po­ter man­gia­re qual­co­sa di di­ver­so dal so­li­to snack. La si­tua­zio­ne e il tram­bu­sto di quel­la tra­sfer­ta for­za­ta le ave­va­no tol­to l’ap­pe­ti­to ed era di­ma­gri­ta non po­co. Qual­che se­ra pri­ma, da­van­ti al­lo spec­chio, si era pre­oc­cu­pa­ta. Si era ac­cor­ta che il se­no svuo­ta­to era leg­ger­men­te ca­du­to e qual­che ru­ga di trop­po si era im­pa­dro­ni­ta del suo vi­so, co­me un av­vol­to­io af­fa­ma­to di gio­vi­nez­za, to­glien­do­le un bel po’ di quel­la fre­schez­za che le ab­bo­na­va al­me­no die­ci an­ni. Nes­su­no le ave­va mai da­to la sua ve­ra età e tut­ti si stu­pi­va­no quan­do di­ce­va di ave­re qua­ran­ta­tré an­ni. Ades­so pe­rò non po­te­va più van­tar­si del bo­nus che sen­za al­cu­no sfor­zo le era sem­pre sta­to con­ces­so dal­la vi­ta. Le pre­oc­cu­pa­zio­ni e il di­ma­gri­men­to l’ave­va­no fat­ta in­vec­chia­re. Per que­sto si era im­po­sta di non sal­ta­re più nem­me­no un pa­sto.

    Pri­ma di ri­ce­ve­re la chia­ma­ta, Pao­la sta­va sor­ri­den­do al­la ca­me­rie­ra in­ten­ta a pre­pa­rar­le un sand­wi­ch con pa­ta­ti­ne frit­te. Avreb­be poi cer­ca­to un ta­vo­lo tran­quil­lo do­ve si­ste­mar­si per col­le­gar­si ai so­cial e se­gui­re il con­cer­to di Lau­ra, co­me fa­ce­va sem­pre quan­do dall’al­tra par­te dell’ocea­no la sua com­pa­gna si esi­bi­va. Quel po­me­rig­gio pe­rò, de­gli ami­ci di fa­mi­glia di Lau­ra l’ave­va­no ri­co­no­sciu­ta e l’ave­va­no trat­te­nu­ta per par­la­re dell’af­fer­ma­zio­ne del­la ra­gaz­za in Eu­ro­pa. Pao­la non se l’era sen­ti­ta di ta­glia­re cor­to. Era­no due per­so­ne gen­ti­li, inol­tre le pro­cu­ra­va non po­co pia­ce­re di­scu­te­re del suc­ces­so di Lau­ra, di cui lei stes­sa era ar­te­fi­ce, e sfrut­ta­re l’oc­ca­sio­ne per far no­ta­re (or­mai lo fa­ce­va con chiun­que) che ne­gli Sta­ti Uni­ti nes­su­no si era de­gna­to di pren­der­la in con­si­de­ra­zio­ne.

    «Co­mun­que ver­re­mo a New York ab­ba­stan­za pre­sto, tut­te as­sie­me. Flo­ra sa­rà se­gui­ta da un car­dio­lo­go in Ita­lia, ma Da­ve vor­rà di si­cu­ro ri­ve­der­la.»

    Pao­la ave­va con­clu­so co­sì, ri­vol­gen­do­si a Ste­pha­ny, fi­dan­za­ta di Na­than, una spe­cie di cu­gi­no di Lau­ra, ni­po­te del­la nuo­va com­pa­gna di suo pa­dre. Vi­so ac­qua e sa­po­ne, di una bel­lez­za sem­pli­ce ma for­se trop­po co­mu­ne, Pao­la ave­va ca­pi­to su­bi­to che nu­tri­va per la can­tan­te un pro­fon­do af­fet­to. In quei po­chi mi­nu­ti in pie­di, la ra­gaz­za era riu­sci­ta a rac­con­tar­le del pe­rio­do in cui ave­va la­vo­ra­to con lei nel­lo stu­dio di Da­ve. Co­sì le ave­va con­fi­da­to che Lau­ra era re­go­lar­men­te in ri­tar­do, ma a par­te quel­lo, l’al­le­gria che por­ta­va lad­do­ve la gen­te spes­so pian­ge­va e l’im­pe­gno che ci met­te­va nel por­ta­re a ter­mi­ne qual­sia­si com­pi­to le ve­nis­se da­to le ave­va­no fat­to gua­da­gna­re la sua pro­fon­da sti­ma. Men­tre l’ascol­ta­va, Pao­la si era ri­tro­va­ta a pen­sa­re che se Ste­pha­ny aves­se avu­to più tem­po e an­che un po’ più di co­rag­gio sa­reb­be ar­ri­va­ta a con­fi­dar­le di es­ser­se­ne per­fi­no in­na­mo­ra­ta. Quan­do le ave­va ri­fe­ri­to del lo­ro fu­tu­ro viag­gio ne­gli Sta­tes, in­fat­ti, la ra­gaz­za si era il­lu­mi­na­ta e si era rac­co­man­da­ta di es­se­re av­vi­sa­ta per ave­re il tem­po di dar­le una de­gna ac­co­glien­za e ma­ga­ri or­ga­niz­za­re un par­ty in suo ono­re. Ma que­sto bel­lis­si­mo so­gno ri­ma­se sul ci­glio di una por­ta soc­chiu­sa, in­ca­pa­ce di muo­ve­re un pas­so ver­so il mon­do. Ciò che ac­cad­de in quell’istan­te non la­sciò al­cu­na spe­ran­za di rea­liz­zar­lo. Al­me­no, non su­bi­to.

    Pao­la ap­pog­giò con de­li­ca­tez­za una ma­no sul brac­cio di Ste­pha­ny, scu­san­do­si di do­ver­la in­ter­rom­pe­re. Ave­va sen­ti­to il te­le­fo­no suo­na­re e ave­va but­ta­to un oc­chio per ca­pi­re chi la sta­va chia­man­do, pron­ta a non ri­spon­de­re, per non man­ca­re di ri­spet­to ai suoi ami­ci. Il no­me del tour ma­na­ger di Lau­ra che chia­ma­va a quell’ora pe­rò le fe­ce scat­ta­re un cam­pa­nel­lo d’al­lar­me.

    Phil era un omo­ne di co­lo­re, dall’aria bo­na­ria. Pao­la l’ave­va scel­to ol­tre che per le re­fe­ren­ze no­te­vo­li an­che per la staz­za che sem­bra­va in gra­do di pro­teg­ge­re il mon­do sen­za trop­pa fa­ti­ca. E se riu­sci­va a di­fen­de­re il mon­do, fi­gu­ria­mo­ci Lau­ra, esi­le co­me un giun­co e al­ta for­se la me­tà di lui. Con Phil si sen­ti­va di so­li­to a fi­ne con­cer­to, per il re­so­con­to del­la se­ra­ta. Pao­la si aspet­ta­va sem­pre che qual­co­sa an­das­se stor­to, or­mai cer­ta di non po­ter­si fi­da­re di nes­su­no. Fi­no­ra, pe­rò, Phil si era com­por­ta­to egre­gia­men­te. Co­sa po­te­va es­se­re ac­ca­du­to per chia­mar­la a nean­che me­tà se­ra­ta?

    «Scu­sa­te­mi…» dis­se Pao­la, con i bri­vi­di che scen­de­va­no e sa­li­va­no sul­la schie­na in bloc­co, co­me fos­se­ro su un ascen­so­re im­paz­zi­to, «dev’es­se­re suc­ces­so qual­co­sa».

    Co­me ri­spo­se, Pao­la do­vet­te sco­sta­re il te­le­fo­no dal­le orec­chie per­ché le ur­la in sot­to­fon­do sem­bra­va­no vo­ler­le tra­pa­na­re il tim­pa­no. Una vo­ce che pa­re­va lon­ta­nis­si­ma cer­ca­va di tra­smet­te­re del­le in­for­ma­zio­ni con pa­ro­le con­vul­se e in­com­pren­si­bi­li.

    «Phil! Phil! Cri­sto! Cal­ma­ti! Non sen­to nien­te. Ti vuoi spo­sta­re e dir­mi che suc­ce­de?»

    Con vo­ce stri­du­la, con­ti­nua­men­te in­ter­rot­ta dal re­spi­ro in af­fan­no, il gran­de Phil riu­scì a ri­fe­rir­le co­sa sta­va ac­ca­den­do.

    «Spa­ra­no, spa­ra­no… al­la gen­te… od­dio… de­vo tro­var­la… non ve­do Lau­ra… Non la ve­do, Pao­la!»

    Poi do­ve­va es­ser­gli ca­du­to a ter­ra il te­le­fo­no an­co­ra ac­ce­so, men­tre scap­pa­va. Pao­la non sen­tì più la sua vo­ce, ma so­lo gri­da e pa­ro­le rei­te­ra­te in fran­ce­se, in­gle­se e ita­lia­no, se­gna­li ine­qui­vo­ca­bi­li di una si­tua­zio­ne com­ple­ta­men­te fuo­ri con­trol­lo.

    Pao­la ri­ma­se at­tac­ca­ta al mi­cro­fo­no, spe­ran­do che Phil tor­nas­se a re­cu­pe­ra­re il te­le­fo­no. Ma non ac­cad­de.

    Nell’istan­te in cui la li­nea si in­ter­rup­pe, e con es­sa an­che le po­che spe­ran­ze di ave­re su­bi­to qual­che no­ti­zia, Pao­la si but­tò tra le brac­cia dei suoi ami­ci. Scop­piò a pian­ge­re, sen­ten­do per la pri­ma vol­ta nel­la vi­ta quan­to inu­ti­le po­tes­se di­ven­ta­re in un at­ti­mo l’es­se­re uma­no. Pen­sò che pu­re Phil, con quel­la co­raz­za di bo­na­ria com­pe­ten­za ed ef­fi­cien­za non ave­va po­tu­to far nul­la. An­che lui era sta­to inu­ti­le di fron­te a un ma­le co­sì ina­spet­ta­to. All’im­prov­vi­so le si pa­ra­ro­no da­van­ti le mi­glia­ia di chi­lo­me­tri che la se­pa­ra­va­no da un even­to mo­struo­so, già or­mai ap­par­te­nen­te al­la sto­ria del­la sua vi­ta. Le sa­lì una rab­bia mai pro­va­ta pri­ma. Co­me si per­met­te­va il de­sti­no di stra­vol­ger­le l’esi­sten­za men­tre era dall’al­tro ca­po del mon­do? Com’era pos­si­bi­le che lei non po­tes­se fa­re nien­te per la per­so­na che ama­va?

    Fu gra­zie a que­ste do­man­de sen­za ri­spo­sta che quan­do vi­de la chia­ma­ta di Mi­ke, un nu­me­ro im­pre­ci­sa­to di mi­nu­ti do­po, as­so­ciò im­me­dia­ta­men­te il suo no­me a una sen­sa­zio­ne di li­be­ra­zio­ne. Se era vi­vo lui, do­ve­va es­ser­lo an­che Lau­ra. Mi­ke non avreb­be mai per­mes­so che le ac­ca­des­se qual­co­sa.

    Quel­la per­ce­zio­ne in­ten­sa e po­si­ti­va, in un ta­le mo­men­to di di­spe­ra­zio­ne, trac­ciò un sol­co per­ma­nen­te nel suo cuo­re, all’in­ter­no del qua­le ri­ma­se in­ca­stra­to il no­me di Mi­ke, da quell’istan­te le­ga­to per sem­pre al­la fi­ne di un in­cu­bo. Non cam­biò aspet­to nep­pu­re quan­do l’uo­mo le die­de la brut­ta no­ti­zia:

    «È vi­va, Pao­la. Ma è ca­du­ta dal pal­co, sem­bra che ab­bia sbat­tu­to la te­sta; ha per­so co­no­scen­za e l’han­no por­ta­ta in ospe­da­le d’ur­gen­za. Po­treb­be es­ser­ci qual­che pro­ble­ma se­rio, ora non ce lo san­no di­re».

    «Stai con lei per fa­vo­re, co­me se fos­si io. Non pos­so ve­ni­re via di qui,» l’ave­va pre­ga­to Pao­la.

    Mi­ke ave­va te­nu­to fe­de per un po’ all’im­pe­gno, men­tre a New York Pao­la era sta­ta ac­cu­di­ta da Ste­pha­ny e Na­than.

    La no­ti­zia del co­ma di Lau­ra di­ven­ne ben pre­sto uf­fi­cia­le, men­tre lo sta­to d’ani­mo di Pao­la si fe­ce sem­pre più pros­si­mo al­la di­spe­ra­zio­ne. Ad ag­gra­va­re la si­tua­zio­ne, c’era il fat­to che sua fi­glia non era an­co­ra fuo­ri pe­ri­co­lo. Di­ver­se com­pli­can­ze si era­no pre­sen­ta­te sen­za fa­re scon­ti, co­me se il suo ca­so fos­se un esem­pio da ri­por­ta­re nel ma­nua­le del­le av­ver­si­tà.

    Da­ve si fe­ce ca­ri­co del­la so­rel­la, pren­den­do con­tat­to con i me­di­ci che l’ave­va­no in cu­ra e in­vian­do a più ri­pre­se spe­cia­li­sti da va­ri pae­si d’Eu­ro­pa. Chie­se a Pao­la di po­ter­se­ne oc­cu­pa­re e in bre­ve tem­po la si­tua­zio­ne eb­be qual­che pic­co­lo ri­svol­to po­si­ti­vo.

    Fu in quel mo­men­to che Mi­ke pre­se la de­ci­sio­ne di rag­giun­ge­re Pao­la a New York.

    Dal gior­no dell’at­ten­ta­to, il chi­tar­ri­sta del­la band di Lau­ra vi­ve­va in uno sta­to di ur­gen­te ne­ces­si­tà di vi­ve­re. Scam­pa­to al­la mor­te gra­zie all’in­ter­ven­to del­la po­li­zia che ave­va neu­tra­liz­za­to l’uo­mo ar­ma­to, Mi­ke ave­va de­ci­so di an­da­re a pren­der­si ciò che man­ca­va al­la sua esi­sten­za per po­ter af­fer­ma­re di aver­la vis­su­ta pie­na­men­te. Quan­do pre­se at­to che la vi­ta è una so­la e che la sua si sa­reb­be po­tu­ta con­clu­de­re sen­za mai aver ba­cia­to la don­na di cui era da tem­po in­na­mo­ra­to, de­ci­se che quel­lo era un so­gno da rea­liz­za­re al più pre­sto. Per pri­ma co­sa, pe­rò, avreb­be do­vu­to tro­va­re il mo­do di star­le vi­ci­no sen­za la pre­sen­za del­la sua com­pa­gna. Ave­va per­ciò ap­pro­fit­ta­to del co­ma in cui era di­sgra­zia­ta­men­te ca­du­ta Lau­ra, per rag­giun­ge­re Pao­la ol­treo­cea­no.

    Il gior­no del tra­sfe­ri­men­to di Lau­ra al­la cli­ni­ca del ri­sve­glio in Ita­lia, Mi­ke te­le­fo­nò all’ami­ca di­sco­gra­fi­ca.

    «Ora che Lau­ra ver­rà tra­sfe­ri­ta, io ven­go a New York.»

    Pao­la pe­rò non si era mo­stra­ta d’ac­cor­do.

    «Pre­fe­ri­rei che ri­ma­nes­si con lei.»

    «Pos­so cer­car­ti qual­cu­no che stia con lei. Non cam­bia mol­to che ci sia io o qual­cun al­tro. Se le man­chi tu, Pao­la, a lei man­ca il mon­do.»

    Spro­fon­da­ta in un poz­zo di di­spe­ra­zio­ne, Pao­la non ave­va per­ce­pi­to il do­lo­re pro­vo­ca­to da quel­le pa­ro­le. Il suo cuo­re era or­mai pac­cot­ti­glia in­for­me, ane­ste­tiz­za­to so­lo da un uni­co pen­sie­ro: peg­gio di que­sto po­te­va es­ser­ci so­lo la mor­te e a quel pun­to sa­reb­be sta­ta un sol­lie­vo. Pao­la sen­tì l’esi­gen­za di ave­re qual­cu­no ac­can­to. E Mi­ke, il suo no­me, la sua vo­ce e la sua pre­sen­za le die­de­ro una par­ven­za di se­re­ni­tà; lie­ve, sof­fo­ca­ta dal do­lo­re, non de­si­de­ra­ta, ma c’era.

    «Va be­ne Mi­ke. Vie­ni. Ho bi­so­gno di te.»

    In nes­sun al­tro mo­do e in nes­sun’al­tra cir­co­stan­za, Mi­ke sa­reb­be po­tu­to en­tra­re co­sì in­ti­ma­men­te nel­la vi­ta del­la don­na.

    4.

    In­cam­mi­nan­do­si ver­so l’ospe­da­le, Pao­la re­spi­rò a fon­do l’aria fre­sca del mat­ti­no. Sul­la pel­le, il cal­do te­po­re dei pri­mi rag­gi di so­le le pro­cu­ra­va un in­so­li­to pia­ce­re. Le cel­lu­le del suo cor­po sem­bra­va­no ri­sve­gliar­si ad una ad una da un lun­go son­no. E i sen­si, rin­vi­go­ri­ti dall’im­prov­vi­sa per­ce­zio­ne di

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