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Prima dell'uragano
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Prima dell'uragano

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About this ebook

Una strage di gatti e un cinese assassinato dentro a un magazzino abbandonato a ridosso della ferrovia. E poi una strage di cani e un altro cinese ucciso su una strada di campagna, non lontano dalla zona industriale. Due macabri omicidi, rivendicati da una serie di volantini di stampo razzista, che sconvolgono, all'improvviso, la vita della ventosa, oscura e contraddittoria città di Borèa. È la sfida, senza indizi, che deve affrontare il commissario Andrea Varocchi, uomo dal carattere oscuro e contraddittorio come la città in cui vive e poliziotto con l'indole del cacciatore solitario. Ma questa volta l'impresa va oltre le sue forze: la sua vita privata è entrata in un tunnel senza fine e l'indagine, che incrocia i fasti perduti dell'industria cittadina e l'economia illegale che l'hanno sostituita, il dramma della tratta degli immigrati e il mondo della droga, lo proietta in un labirinto senza via d'uscita. Solo la bellezza di Luisa Lo Presti, il medico legale nei cui tratti Varocchi rivede la Valentina disegnata da Crepax, gli lascia intravedere uno spiraglio di luce e lo convince a fidarsi fino in fondo dei suoi colleghi. È così che, finalmente, arriva la svolta che rimette in moto l'indagine. E via via che il gioco di squadra, uniti al suo fiuto e alla sua astuzia da investigatore di razza, cominciano a ricomporre il complesso mosaico della realtà, il commissario Varocchi comincia a fare chiarezza anche dentro sé stesso. La soluzione dei misteriosi omicidi svelerà una verità più incredibile e inquietante di quella ipotizzata. E nella vita di Varocchi, finalmente, arriva a scatenarsi l'uragano che lo insegue da troppo tempo.
Damster edizioni
LanguageItaliano
Release dateMar 16, 2020
ISBN9788868104160
Prima dell'uragano

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    Prima dell'uragano - Luca Martinelli

    Luca Martinelli

    Prima dell’uragano

    Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104160

    Immagine di copertina su licenza

    Adobestock.com

    Elaborazione Damster

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave, 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    Negozio on line www.librisumisura.it

    Luca Martinelli

    Prima dell’uragano

    Caccia ai fantasmi
    per il commissario Varocchi

    Romanzo

    INDICE

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

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    Quel che mi resta da dire dopo la fine…

    L’AUTORE

    Parevami di muovere in un mondo di fantasmi

    (Alfred Tennyson)

    1

    Dalla sbarra di metallo che corre da una parete all’altra del capannone, a tre metri d’altezza, pendono, allineati come calzini stesi ad asciugare, i corpi decapitati di una trentina di gatti.

    Sono appesi per le zampe posteriori, come le bestie stipate dentro una cella frigorifera del macello pubblico.

    Le teste sono ammucchiate sul pavimento di cemento, al centro esatto della macabra fila penzolante nel vuoto.

    Gettata in mezzo al cumulo di occhi, nasi, baffi e orecchie felini, s’intravede la sagoma incerta di una figura umana.

    E c’è sangue. C’è sangue dappertutto.

    Le mie gambe s’inceppano all’improvviso, facendomi sbandare sotto l’effetto di una vertigine.

    Poi arriva il cazzotto della nausea. Alla bocca dello stomaco, nella gola, dentro le narici.

    Devo chiudere gli occhi e dare le spalle a quella scena raccapricciante.

    2

    Quando sono arrivato sul posto, l’agente scelto Garrone ha provato a mettermi in guardia. Ricordo tutto, parola per parola.

    – Vuole proprio vedere con i suoi occhi, dottore? – mi ha domandato, in tono quasi soffocato, quando mi sono avvicinato al grande cancello di metallo grigio davanti al quale si trovava.

    L’ho fulminato con uno sguardo incazzato dei miei. E poi ho fulminato anche l’agente Cellino che, a due passi dal collega, fissava una macchia giallastra che imbrattava il marciapiede. Allora ho capito che la spiegazione ai loro volti lividi non era la tramontana gelida e tagliente che sferzava la pelle.

    – Se non hai stomaco, hai sbagliato mestiere, ragazzo – ho detto in tono sprezzante.

    Senza alzare lo sguardo, Cellino ha scosso la testa e ha indicato il collega più anziano.

    – Che c’è Garrone? Ti è rimasta indigesta la cena?

    Ha mosso la bocca, ma sulla ferrovia è sfrecciato uno dei tanti treni notturni diretti verso la costa e il boato si è divorato la sua risposta.

    – Allora, Garrone, cos’è che ti è rimasto sullo stomaco? – ho ripetuto, quando il rumore di ferraglia si è andato spengendo in lontananza.

    – Là dentro è uno spettacolo orrendo – ha risposto balbettando a bassa voce; il che mi ha sorpreso, perché di solito tiene sempre la manopola del volume impostata sul livello massimo.

    L’eco del suo sussurro mi ha fatto ripensare alla telefonata concitata con la quale l’agente Cellino mi ha chiesto di intervenire sul posto. Forse ho sbagliato a non dare credito alla sua voce stridula e tremante che annunciava una carneficina. Non esagerava, ma sul momento non sono riuscito a fidarmi. Non mi fido mai dei pivelli, del resto; e Cellino è proprio questo, un pivello alla terza uscita d’emergenza, uno di quei novellini che sono capaci di impressionarsi anche solo per un cagnolino investito sulle strisce. Non che lo spettacolo di un cadavere, sia pure quello di un povero cagnolino travolto da un’auto, sia qualcosa di divertente, ma è pur vero che i giovani alle prime armi tendono sempre a esagerare. E carneficina è una definizione impegnativa, forte. Significa che devono esserci decine di morti ammazzati, e io, sinceramente, ho dubitato che fosse accaduto un evento di quella portata.

    Per carità, non è che Borèa sia una città tranquilla. Di crimini e di fattacci ne succedono a bizzeffe anche qui. Però non è un posto da massacri. Qui non siamo mica nel vecchio selvaggio Far West o in qualche territorio del Sud conteso da cosche mafiose rivali. Qui siamo nel dorato Centro Italia, terra di bellezze naturali e artistiche, onesti imprenditori e lavoratori, e cibo da leccarsi i baffi. Qui, le carneficine le fanno i terremoti e le alluvioni, mica i criminali. Finora, almeno.

    – È davvero orrendo, commissario – ha ripetuto Garrone.

    – Anche se è orrendo, devo comunque dare un’occhiata. Perché mi avete chiamato, sennò?

    Passandogli accanto, gli ho sfiorato la spalla di proposito, per farlo reagire. È stato come colpire il muro al quale stava appoggiato. Garrone è rimasto immobile, a fissare il girotondo blu del lampeggiante sopra il tetto dell’auto civetta.

    3

    Anch’io, ora, rimango fermo sul posto, imbambolato. Sembra quasi che lo spettacolo di morte che mi sta alle spalle sprigioni una forza magnetica irresistibile. Eppure non è questo il motivo che mi trattiene. La ragione è tutta umana e risiede nel profondo di me stesso.

    Detta così, si potrebbe pensare che eviti la ritirata perché temo che Garrone possa accogliermi con un sorriso sarcastico. Ma sarebbe un errore pensarlo. Garrone non si permetterebbe una reazione tanto audace. Non è stupido. Sa che, se lo facesse, lo sbatterei al perenne pattugliamento notturno della zona della Stazione Borèa Vecchia. Non gli piacerebbe doversela vedere con i droghieri nigeriani e l’esercito dei disperati che gravita loro intorno per supplicare una dose. No, non gli piacerebbe, perché quella è gente che ti aggredisce quando meno te lo aspetti. Svolti un angolo e ti ritrovi con un coltello o una siringa usata puntata sul collo. Per evitare questa prospettiva di carriera del gambero, lo so per certo, quando uscirò da qui dentro, Garrone rimarrà impassibile e muto come un pesce.

    La verità è un’altra. Se resto qui, a due passi dall’orrore, e non torno all’aria aperta a farmi schiaffeggiare dalla tramontana, la ragione vera è che alla mia età non si può più scappare davanti al male. Non scappi più, quando hai passato i quaranta e hai i capelli schizzati di bianco e ti sei fatto il pelo sullo stomaco a forza di turni di notte e di omicidi. Non scappi più nemmeno se quello che vedi assomiglia all’inferno in terra.

    Non scappi più, perché, se scappi una volta, poi sei costretto a scappare per il resto della vita.

    Tuttavia ora ho bisogno di una pausa, per dare alle tempie, alle narici, alla gola e alla bocca dello stomaco il tempo di smettere di pulsare e contrarsi.

     Conto dieci, venti, trenta respiri almeno. Conto a occhi chiusi, pensando al rumore e all’odore del mare, perché, per me, il mare è come il paradiso per chi crede in Dio. È il premio della pace e della serenità. Anche in pieno inverno, quando i cavalloni sono alti e sbattono con violenza contro gli scogli o sulla spiaggia.

    E allora conto e penso al mare. E finalmente, quando sento che il ritmo delle onde si è impadronito della mia mente, mi volto e torno a guardare la mattanza che mi ha sconvolto.

    È il modo peggiore per finire la settimana, mi dico. Una settimana che vorrei cancellare con una passata di spugna e che, invece, dentro gli occhi rivedo scorrere tutta, attimo per attimo, come la sequenza di un film.

    4

    Il mio lunedì l’avevo cominciato nello stesso modo con cui saluto l’alba di ogni lunedì: doccia, colazione alle sette al bar Star Trek, mezz’ora in ufficio per dare una scorsa ai giornali e poi via in macchina, in direzione del mercato settimanale.

    Ora, è bene chiarire che non vado al mercato per fare spese o perdere tempo. Le bancarelle e la merce esposta non m’interessano più di quanto potrebbe appassionarmi un film russo in lingua originale e senza sottotitoli. Quanto al resto, non sono un lavativo in fuga dall’ufficio. Anzi, l’ufficio è quasi diventato la mia prima casa. Che poi, se volessi fare l’assenteista, di certo non verrei al mercato; me ne andrei al mare, casomai.

    Infine, devo smentire anche le dicerie diffuse sul mio conto dall’ispettore D’Agnello. Secondo queste ciarle, le mie incursioni al mercato avrebbero due scopi ben precisi. Il primo, che comunque raggiungo per il semplice fatto di trovarmi sul posto, sarebbe quello di godermi lo spettacolo di gonne corte e pantaloni stretti che sculettano tra i banchi. Il secondo, che invece non ha fondamento alcuno, nemmeno involontario, sarebbe quello di approcciare le proprietarie di quei culi ancheggianti.

    No, D’Agnello fa solo battute scontate. Non può essere tanto cieco da non aver visto che per mirare e rimirare culi di ogni forma e dimensione, senza bisogno di venire al mercato, basta farsi una passeggiata di mezz’ora per una qualsiasi strada di Borèa. Quanto a un ipotetico approccio, poi, D’Agnello sa altrettanto bene che non riuscirei mai, in mezzo al caravanserraglio di bancarelle e gente che spinge da tutte le parti, ad attaccare bottone con una femmina allo scopo di concludere un appuntamento.

     No, la ragione delle mie visite al mercato è squisitamente professionale. Passo per incrociare lo sguardo con alcuni dei miei confidenti: i senegalesi che commerciano senza licenza la loro chincagliera, i napoletani che gestiscono il truffaldino gioco delle tre carte su tavolini improvvisati con le scatole di cartone, e la cinesina e i due pachistani che gestiscono tre banchetti non autorizzati.

    Se in città si sapesse che tollero un tale livello d’illegalità, si solleverebbe un vespaio di polemiche. Ma chiudere un occhio con qualche furfante che non mette in pericolo la vita dei cittadini onesti fa parte del gioco. È l’unico modo che ho per garantirmi le loro soffiate, lo strumento più efficace che conosca per tenermi aggiornato su ciò che si muove nei meandri del crimine cittadino.

    La gente non lo sa, ma sono state le loro dritte, in diverse occasioni, ad avermi permesso parecchi di quegli arresti eccellenti di cui sono stati contenti di leggere sulle pagine dei giornali.

    Insomma, le soffiate convengono a me e, di riflesso, convengono ai miei informatori. E io ho il vantaggio di stringere il coltello dalla parte del manico, perché i miei occhi e le mie orecchie nelle zone d’ombra della città sanno benissimo che, al minimo sgarro, finiscono dritti dietro le sbarre.

    Tornando a lunedì scorso, per una spesa in fazzolettini e accendini pari a sei euro, mi sono portato a casa due informazioni di prima mano. La prima mi ha svelato che i Black Axe e i maghrebini hanno raggiunto un accordo per spartirsi le zone dello spaccio: i mafiosi nigeriani, oltre alla zona della Stazione di Borèa Vecchia, si sono presi anche Piazza delle Logge; i nordafricani si sono ritirati dal centro storico, ma hanno ampliato la loro zona d’influenza sull’intero tratto del Lungofiume cittadino. Fine delle risse tra le due comunità, dunque; almeno fino a un prossimo sconfinamento.

    Con la seconda informazione, che ho acquisito gratis perché mai e poi mai tirerei fuori dieci euro per farmi truffare con le carte, Fante di Picche, invece, mi ha rovinato subito la festa.

    – In città ci sta un killer pericoloso – mi ha sussurrato all’orecchio. – È un ucraino. Sbava dietro la scia dei soldi per tutta Europa.

    Ho assorbito la soffiata con calma e, in prima battuta, ho pensato a un depistaggio. Ho pensato che volesse farmi abboccare a un’esca bella ghiotta, allo scopo di farmi tenere gli occhi lontani dal gruppo camorrista che, attraverso un complicato traffico di stracci e indumenti usati, rifornisce gran parte del locale mercato della droga. Magari all’orizzonte c’era l’arrivo di una grossa partita che aveva scatenato una frizione tra cosche rivali, il che rendeva plausibile la presenza di un killer, perché il mercato della droga, prima o poi, finisce sempre per scatenare una guerra. Ma poi, influenzato dalla notizia riguardante l’accordo tra i gestori dello spaccio, tutti asserviti alla camorra, mi sono convinto che voleva solo prendermi in giro. Perciò l’ho guardato come se mi avesse detto che la signora che gestisce il camion della gastronomia avesse appena moltiplicato, con uno schiocco di dita, i polli che giravano sullo spiedo.

    – Commisa’, pure il Biondo sta preoccupato assai – ha reagito Fante di Picche.

    Non è uno scherzo, allora, mi sono detto tra me, ed è una pessima notizia; devo tenere ben dritte tutte le antenne.

    E questo è stato solo l’antipasto della giornata, perché la sera, intorno alle otto, c’è stata la storia dell’aggressione nel parcheggio del Centro Commerciale Nord. Cinque segnalazioni, tutte anonime, s’intende, ma giunte al centralino nel giro di due minuti e mezzo, ci hanno avvertito che uno sconosciuto di razza bianca, alto e di corporatura atletica, con cappello da sci bianco, piumino nero e coltello in pugno, aveva tentato di assalire un giovane di razza asiatica che, agile come un puma, aveva scavalcato di slancio una siepe alta almeno un metro ed era riuscito a sfuggire al suo inseguitore. Ovviamente, la ricostruzione l’abbiamo dovuta rimettere insieme come un puzzle, perché ogni solerte cittadino, telefonando anonimamente in questura, ci aveva fornito solo una tessera o due del mosaico.

    Il questore ha sposato subito la teoria di un agguato per opera di un militante dell’ACAI, l’Associazione Cittadini Anti Immigrati, un movimento politico reazionario e razzista che predica l’espulsione dal suolo patrio di tutti i migranti, nessuno escluso, che sbarcano sulle nostre coste. Si dice anche che dentro l’ACAI si celerebbe una formazione paraterroristica, ma sono solo chiacchiere, perché non abbiamo uno straccio di riscontro concreto per rendere l’ipotesi credibile.

    La teoria del dottor Alvise Galimberti non mi ha convinto. Io ho subito propeso, e propendo ancora, per il gesto di un folle, perché nelle loro scorribande contro gli immigrati, i sodali dell’ACAI non hanno mai usato armi da taglio. Per tutta risposta, il questore mi ha avvertito di stare in campana. E se n’è andato.

    Peccato, avrei avuto altro da dirgli. Tipo il piccolo particolare dell’avvistamento di un killer ucraino in città, cosa di cui non lo avevo potuto informare prima, perché per tutto il giorno era rimasto fuori dall’ufficio e il suo cellulare era sempre stato irraggiungibile.

    Nei giorni successivi sarei voluto stare in campana, come mi aveva suggerito, ma proprio il martedì mattina sono finito dentro le pastoie di una vicenda insolubile, una roba di ristoranti e supermercati cinesi sigillati e sequestrati, perché propinavano ai clienti cibi mal conservati e prodotti in scatola privi di data di scadenza. A dire il vero, non sarebbe stata un’indagine di competenza della Squadra Mobile. Di solito a occuparsene sono quelli della Polizia Municipale o dei Nas. In questo caso, però, essendo implicati tre imprenditori in odore di mafia cinese, il magistrato ha passato la rogna al mio ufficio.

    Non ne sono stato felice. Non ho mai smaniato all’idea di andare a mettere il naso negli affari della mafia cinese, perché si deve nuotare in acque più oscure, profonde e pericolose di quelle delle altre cupole del malaffare. Per sguazzare dentro quell’abisso orientale e sperare di tirarne fuori qualche pesce, servirebbe essere sommozzatori esperti. Ma, maledizione, noi non abbiamo in dotazione né mute in neoprone né bombole d’ossigeno.

    Comunque sia, ho messo tutti i ragazzi della squadra a lavorare sul caso. Passare al setaccio e sequestrare i ristoranti e i supermarket sono state operazioni abbastanza semplici da portare a termine. I nodi al pettine sono venuti quando è giunto il momento dei controlli presso l’azienda alimentare da cui si rifornivano, perché a questo punto la storia è andata a infilarsi nel solito vicolo cieco delle aziende fantasma. La Wu Food è risultata essere una società fittizia, un marchio e una ragione sociale che esistono solo sulla carta. E, infatti, al numero 87 di via Silente ci siamo trovati di fronte allo scheletro di un ex edificio produttivo, una vera rarità all’interno del quartiere Mezzogiorno che, con il confinante quartiere Ponente, costituisce il moderno Parco Artigianale e Industriale della provincia. Non mi ha sorpreso che le indagini ci abbiano condotto fino a quell’ossatura di mattoni anneriti dalle fiamme di un incendio che, è poi emerso nelle ore successive, risaliva a diversi anni fa.

    Non mi sono stupito, dicevo, perché le carte mi avevano insospettito fin da subito. Bisognava essere stupidi o in malafede per non rendersi conto della singolarità del fatto che la Wu Food, marchio di chiara matrice cinese, avesse come titolare il signor Danilo Tagliaferri, nome di chiara matrice italiana. Il che, a sua volta, ci ha portato diritti in un secondo vicolo cieco, quello del fenomeno dei prestanome.

    Come per la Wu Food, infatti, anche Tagliaferri è risultato esistere solo sulla carta. È regolarmente iscritto all’anagrafe e ha il domicilio al numero 6 di via dell’Orto, in pieno quartiere Fortezza, nel cuore del centro antico della città. Il locale, però, è disabitato da sempre. Del resto, anche se ormai non mi sorprendo più dell’abisso nel quale può precipitare l’esistenza di certe persone, vivere in una rimessa senza finestre non sarebbe facile. Perché questo c’è al numero 6 di via dell’Orto, una rimessa abbandonata da decenni, con la serratura completamente mangiata dalla ruggine. E il rappresentante della proprietà, il presidente di un ente benefico che vende libri e oggetti usati per finanziare progetti umanitari in Eritrea, ha escluso di aver mai affittato lo sgabuzzino a chicchessia.

    Insomma, giunti a ieri sera alle sette e mezzo, dopo quattro giorni passati a sbatterci di qua e di là per mezza città, tutto ciò che avevano prodotto le nostre ricerche è che avevamo la necessità di svolgere ulteriori indagini. E che dovevamo tenere sotto stretta osservazione uno dei ristoratori in odore di mafia, un certo Bao Zhu, perché è saltato fuori che in Francia, una decina d’anni fa, era stato indagato per truffa, usura ed esercizio illegale del gioco d’azzardo. Per carità, non è mai stato condannato, ma con certi soggetti è sempre bene stare sul chi vive.

    E a questo punto di ieri sera, finalmente, mi sono messo in viaggio per raggiungere Nina.

    5

    Nina è uscita dal letto e, in tutta la sua sfolgorante nudità, ha ancheggiato nella mia direzione. Ho visto la scena dentro lo specchio davanti al quale mi stavo annodando la cravatta. Mi ha contemplato per un momento e poi mi ha abbracciato, cingendomi da dietro. Ho avuto un brivido e inarcato la schiena. Aveva i capezzoli duri, la porca, e sentirmeli premere contro la carne, anche se filtrati dal cotone spesso della camicia, ha riacceso il terminale del desiderio che sonnecchiava dentro le mie mutande.

     Nina non ha agito senza motivo. Era conscia dell’effetto che i suoi capezzoli avrebbero ottenuto. È stata una mossa studiata, la sua. Negli ultimi tempi non vorrebbe mai lasciarmi andare. Non le bastano più le due ore del nostro incontro settimanale.

    Non ho potuto biasimarla, perché ormai ho il sospetto che, dentro di lei, sia saltato completamente il meccanismo del rapporto tra prostituta e cliente. Da qualche tempo in qua lei vive il nostro incontro del venerdì sera con un’intensità e un desiderio che sono tipici dell’amante e non della donna che vende un po’ di piacere. E deve essere insopportabile, per lei, sapere che per me, questo incontro del venerdì sera, è solo una sorta di rito.

    Per me andare da Nina è un po’ come andare alla cena annuale del circolo del tennis. Sai già cosa succede quando ti presenti in sala: gli stessi volti, lo stesso antipasto, lo stesso primo piatto, lo stesso secondo di carne con lo stesso contorno, lo stesso, palloso discorso del presidente, lo stesso dolce, lo stesso caffè.

    Ha sempre la stessa scansione anche il mio venerdì: io esco dall’ufficio alle sette e mezzo, parto a bordo della mia Dacia Sandero un po’ ammaccata, a metà della tangenziale mi fermo al McDonald’s, ingoio un doppio cheeseburger e una Coca, sopportando le battute sceme e le risate sguaiate di una tribù di adolescenti, rimonto sulla Dacia Sandero un po’ ammaccata, arrivo a casa di Nina, salgo nel suo appartamento, le chiedo di spogliarsi e di farsi guardare, e poi i soliti abbracci, i soliti baci, i soliti morsi accennati, la solita giostra del fare sesso, e i soliti centocinquanta euro che lascio sul comodino prima di andarmene.

    Eppure, nonostante sia questa la natura del nostro rapporto, Nina ha cominciato a complottare per trattenermi con sé.

    È questo che, da un po’, mi ha convinto che debba esserci sotto qualche implicazione sentimentale, che poi è un modo raffinato per non dire complicazione…

    Per come la vedo io, Nina rinuncerebbe volentieri ai soldi che le passo, pur di potermi avere con sé. E non solo il venerdì sera. Lei, l’ho capito da come mi guarda e mi tocca, mi vorrebbe nel suo letto ogni sera, fino al mattino. Ed è proprio per questo motivo, allo scopo di farmi restare al suo fianco, che Nina è venuta a strusciarsi contro di me mentre mi annodavo la cravatta.

    Non lo nego, la puntura dei suoi capezzoli contro la mia schiena mi ha fatto subito inalberare, in mezzo alle gambe. Ma ho anche una testa che funziona e, per quanto Nina sia bella e una bomba di piacere, ho categoricamente escluso l’ipotesi di trattenermi oltre le consuete due ore.

    – Non stasera – ho detto, divincolandomi dal suo abbraccio.

    – Perché?

    – Non posso restare.

    – Non ti piaccio?

    – Sai bene che mi piaci, ma stasera non posso restare.

    Si è arresa. È arretrata fino al bordo del letto e si è seduta sul materasso. Mi ha rivolto uno sguardo imbronciato e, lo ammetto, ho quasi avuto voglia di strappare via cravatta e camicia e fiondarmi su di lei. Perché Nina, nuda, è uno spettacolo sconvolgente. È una mulatta, un meraviglioso incrocio nato da padre italiano e madre brasiliana, con la pelle bruna e lucida, le curve generose, i capelli neri ondulati, due perle d’occhi, anch’essi neri, che luccicano come una candela nel buio. E quando è imbronciata, la sua bellezza diventa irresistibile. Però, ecco, io non sono convinto che la bellezza salverà il mondo. Di certo, non salverà me. Così ho distolto lo sguardo, ho dato un’altra stretta al nodo della cravatta e ho cominciato a mettermi la giacca.

    – Non resti mai. Torni sempre da lei – ha sibilato, rabbiosa. – Fai come tutti gli altri. Scopi con l’amante, ma dormi con la mogliettina che ti serve e riverisce.

    Mi sono voltato di scatto, la giacca infilata per una manica sola, e mi sono avventato contro di lei. L’ho afferrata per le spalle, a pochi centimetri dal collo, e ho preso a scuoterla.

    – Che ne sai, te, di come mi tratta mia moglie?

    – Smettila – ha urlato.

    Non l’ho ascoltata. Ho continuato a scuoterla.

    – E te? Te lo ricordi chi sei? Ti pago. Te non sei un’amante. Sei una puttana.

    L’ho detto con cattiveria, in quel momento. L’ho detto proprio con la precisa intenzione di offenderla, di umiliarla. E dalle lacrime che le sono scese sulle guance, ho capito che il colpo aveva raggiunto il bersaglio. Ma, anziché placarmi, ho avuto un nuovo rigurgito

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