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Linea Gotica
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Linea Gotica

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About this ebook

Se quattro corpi senza nome tornano alla luce dopo settanta anni; se uno di loro è quello del comandante partigiano Lupo, anche se non potrebbe esserlo; se tutti preferiscono dimenticare; se su una serie di delitti che insanguina il paese si allunga l’ombra di quella vecchia storia risalente alla guerra; se passato e presente si mescolano senza soluzione di continuità; se l’inaspettata soluzione dell’enigma è un capolavoro di razionalità e logica; se l’ultima parola di questa storia non è di condanna, ma di pietà… Linea Gotica è un omaggio alla detective story, ma anche un romanzo storico che mescola la finzione narrativa con vicende realmente accadute, un’occasione per parlare della complessità delle relazioni tra le persone, ma anche per riflettere sul tema della Resistenza, la cui trasmissione della memoria – anche attraverso opere di finzione letteraria – si pone come uno dei possibili compiti della letteratura “cosiddetta” di genere, che da sempre ha fornito un apporto essenziale alla costruzione di una cultura condivisa.
LanguageItaliano
Release dateMar 16, 2020
ISBN9788868104139
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    Linea Gotica - Massimiliano De Luca

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    Massimiliano De Luca

    Linea Gotica

    Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104139

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave, 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    Negozio on line www.librisumisura.it

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    Massimiliano De Luca

    LINEA GOTICA

    Romanzo

    INDICE

    Personaggi principali

    Prologo

    1

    2

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    Epilogo

    L’AUTORE

    Personaggi principali

    Massimiliano Maier, storico

    Alexandra Dubois, lettrice di francese

    Giulio Santoro, partigiano, presidente sezione ANPI

    Alvaro Settis, comandante partigiano della Brigata Luigi Bosi

    Eleonora Settis, sua figlia

    Franco, partigiano della Brigata Luigi Bosi

    Mariano, partigiano della Brigata Luigi Bosi

    Pierangelo Marsi, figlio dell’ex podestà di Corvaia

    Andrea Ferrari, agente di commercio

    Marisa Ferrari, sua moglie

    Sara De Lellis, amica di Marisa Ferrari

    I coniugi Borselli, vicini di casa dei Ferrari

    Luigi Ambrosio, sindaco di Corvaia

    Don Onorio, parroco

    Lorenzo Croce, medico

    Enzo, proprietario della locanda La Quiete

    Raoul, un abitante di Corvaia

    Ahmed Hani Moustafa, immigrato senza permesso di soggiorno

    Antonino Spinesi, comandante della stazione dei carabinieri di Corvaia

    Marzio Roversi, Brigadiere

    Stefano Belladonna, Appuntato

    Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.

    Albert Camus, La peste

    Prologo

    Dell’antica imponenza della casa colonica era rimasto ben poco; difficile immaginarsi ciò che era stata, e anche quello che forse sarebbe potuta tornare ad essere. Il grosso del lavoro l’avevano fatto i bombardieri alleati nell’agosto del ’44, del resto se ne erano occupati il tempo e l’incuria riducendola a un cumulo di macerie sulle quali la natura aveva preso la sua rivincita, colmando con una fitta vegetazione i vuoti di parte del tetto e delle mura crollate. 

    La ruspa lavorava senza sosta, sollevando cumuli di sterpaglie e rami d’albero tagliati dalla squadra dei boscaioli e accatastandoli in uno spiazzo dove bruciava alto il fuoco. Un uomo in giacca e cravatta che indossava l’elmetto protettivo aveva dispiegato una grande carta sul cofano di un pick-up e discuteva con due collaboratori indicando con il dito alcuni particolari del disegno che riproduceva la colonica e i terreni adiacenti una volta terminato il lavoro; gli uomini annuivano.

    Il conducente fermò la ruspa abbassando la benna sino a terra, scese e si diresse verso i tre che visionavano il progetto.

    – Comincio a spostare anche le macerie davanti al portone?

    L’uomo in giacca e cravatta rivolse meccanicamente lo sguardo verso il quadrante dell’orologio e annuì con un cenno della testa.

    – Faccio venire il camion così puoi caricarle direttamente sul cassone.

    L’altro accese una sigaretta, ma non ebbe il tempo di fumarne la metà che il camion era già in posizione, e con una imprecazione riprese il suo posto.

    Il portico e la parete della facciata erano in larga parte crollati, e le macerie costituivano un blocco alto almeno tre metri e largo dieci. Gli ingegneri aspettavano che venisse liberato l’ingresso per capire quali muri dovessero essere abbattuti e quali ricostruiti; poi sarebbero passati a valutare la stabilità dei solai interni.

    Il lavoro proseguì fino alle tredici; poi gli operai, richiamati dal caposquadra, si ritirarono per il pranzo e ripresero attorno alle quattordici e trenta. Un paio di ore dopo, quello che rimaneva della facciata della casa era libero ed era finalmente possibile accedere all’interno.

    L’uomo della ruspa spense il mezzo, emerse dalla nube di polvere che aveva sollevato e si accese un’altra sigaretta.

    – Andiamo a vedere, ma facciamo attenzione – disse l’ingegnere rivolto ai suoi collaboratori.

    I tre si avvicinarono con cautela; i muri perimetrali, spessi oltre mezzo metro, erano in larga misura intatti, ad eccezione dell’area circostante il portone di ingresso. All’interno, anche la parete di fronte era in piedi; sulla destra, illuminata dalla luce che inondava la stanza attraverso il tetto sfondato, una porta di legno resisteva ancorata ai cardini. Sul pavimento, i resti delle travi portanti del tetto, tegole e parte del solaio impedivano il passaggio.

    – Aiutateci a liberarci di questi calcinacci, e attenti che non salti fuori qualche vipera.

    Con l’aiuto di alcuni operai, venne aperto un passaggio all’interno della stanza.

    – Sono passate le diciassette, è ora di staccare – provò a obiettare uno.

    – Solo un momento: non sei curioso di vedere cosa c’è dall’altra parte?

    L’altro accennò un sì con la testa, più per il fatto di non voler contrariare il suo superiore che per convinzione.

    – E se è chiusa a chiave?

    – Vediamo.

    La porta dapprima non si mosse, poi spingendo più forte si aprì verso l’interno; il tetto era quasi completamente crollato e l’ultima luce del pomeriggio illuminava la stanza.

    – Mi pare ci sia poco da vedere: se l’interno è tutto così, facciamo prima a buttar giù tutto e ricostruire da zero – commentò quello che aveva fretta di staccare dal lavoro.

    – Aspetta – lo interruppe il capo cantiere – cos’è questo?

    Indicò qualcosa che sporgeva da un cumulo di detriti, proprio davanti a loro. D’istinto si chinò per vedere meglio, ma si ritrasse immediatamente con un movimento brusco all’indietro. Grigio di polvere, solo a tratti coperto da una manica di tessuto consumato dal tempo, sporgeva da sotto una trave quello che una volta era stato il braccio di un uomo, le ossa della mano aperta verso l’alto, come in una disperata richiesta d’aiuto.

    1

    Quando fuori campo si sente gridare la donna, si capisce che è troppo tardi. I tedeschi hanno portato via l’uomo che avrebbe dovuto sposare il giorno seguente e lei si strappa dalle braccia dei vicini di casa che vorrebbero trattenerla.

    Corre verso il camion che sta partendo, seguendo un istinto disperato che non accetta la separazione. È un attimo: un soldato spara, lei non si contorce, cade, come fulminata, in mezzo alla strada, vittima inutile di una spirale di odio e insensibilità, di uomini che la guerra ha reso non più tali. Il figlio che accorre piangendo viene portato via dal prete che ha assistito alla scena. Il camion si allontana. Come nella vita, la donna scompare dallo spaccato di mondo raccontato dal film.

    Maier fermò la registrazione. Si chiese se dovesse anche quest’anno proiettarlo in aula a fine corso; gli pareva che, col passare del tempo, le reazioni degli studenti si fossero fatte sempre più tiepide; che la pellicola fosse accolta con sempre minore partecipazione emotiva, come se si trattasse di una fiction, e non di un documento storico che testimoniava, senza retorica, una pagina buia della nostra storia recente. In parte capiva i motivi di quel disinteresse crescente; ma per lui era diverso, e lo era sempre stato. La sua storia era scritta nel suo nome di battesimo, lo stesso del nonno, strappato dalla sua casa nel ghetto ebraico di Roma assieme alla moglie e agli altri familiari.

    Le avvisaglie della tragedia cominciarono la mattina del 26 settembre 1943, quando i rappresentanti della Comunità Israelitica vennero convocati presso Villa Wolkonsky, dove li attendeva il Comandante della Polizia tedesca a Roma, Herbert Kappler. L’ufficiale disse loro che in cambio di cinquanta chili d’oro avrebbe annullato il rastrellamento di duecento ebrei romani che altrimenti sarebbero stati deportati, concedendo loro trentasei ore di tempo.

    Venne convocata d’urgenza una riunione, nella quale fu deciso di accettare la proposta e di cominciare immediatamente a raccogliere l’oro tra la comunità. Faticosamente venne raggiunta la soglia dei cinquanta chili, a cui vennero aggiunti ulteriori trecento grammi per evitare discussioni con i nazisti; si trattava per la maggior parte di oggetti che avevano un valore affettivo superiore a quello commerciale, soprattutto ricordi di famiglia.

    Kappler delegò il Capitano Schutz a verificare che gli accordi venissero rispettati; questi inizialmente contestò la mancanza di cinque chili, poi, dietro insistenza dei numerosi testimoni presenti, accettò di effettuare di nuovo la pesatura, e infine di incamerare il mezzo quintale d’oro pattuito, per il quale non emise nessuna ricevuta.

    I peggiori timori si concretizzarono a partire dal 14 ottobre, in cui Kappler fece saccheggiare le due biblioteche dove erano conservati volumi dall’altissimo valore culturale e storico, e sequestrare gli elenchi completi degli appartenenti alla comunità; grazie alle informazioni in loro possesso, integrate dalla delazione di fascisti romani, all’alba di sabato 16 ottobre 1943 – poco più di un mese dalla firma dell’armistizio – centinaia di soldati circondarono il Ghetto e arrestarono 1259 ebrei successivamente deportati ad Auschwitz.

    Le ultime ore del tempo a loro disposizione servirono per nascondere i figli, tra i quali suo padre, in un rifugio ricavato all’interno della cantina, il cui accesso era celato da una rastrelliera per bottiglie. Quando alcune donne erano andati a prenderli, i genitori stavano già arrivando ad Auschwitz, da cui non avrebbero fatto ritorno: Kappler, con un telegramma inviato al comandante del campo di sterminio Rudolf Hoess, si raccomandò di riservare loro trattamento speciale. Solo sedici uomini e una donna si sarebbero salvati.

    E proprio nella guerra che non aveva vissuto, fin dalla prima adolescenza Maier trovò il contesto naturale per la sua voglia di conoscere e di capire. La facoltà di storia, poi il dottorato di ricerca a Parigi; quindi un accidentato percorso fatto di incarichi e collaborazioni, e infine il concorso e la cattedra da associato in una facoltà del Nord Italia. Fu come colmare una mancanza, iniziare a percorrere a ritroso la strada interrotta da chi era venuto prima di lui. Cominciare il viaggio che ti riporta a casa.

    Dopo oltre settant’anni la Seconda Guerra Mondiale era ancora piena di misteri da chiarire, fatti da accertare, responsabilità da attribuire. Era stato sul lago di Como alla ricerca del fantomatico tesoro di Mussolini, aveva contribuito al ritrovamento di alcuni quadri che gli uomini di von Choltitz avevano trafugato nei giorni precedenti la resa di Parigi e sfuggiti alle ricerche dell’MFAA. Partecipato in qualità di consulente alle indagini su alcune delle stragi più efferate compiute dai nazifascisti - Fosse Ardeatine, S. Anna di Stazzema, Montesole -, scritto libri su uomini ed episodi poco conosciuti, opponendosi ai revisionismi e per le ragioni di chi aveva combattuto dalla parte giusta. Aveva condiviso i ricordi e le speranze deluse degli anziani partigiani che avevano lottato per un Paese diverso da quello che era diventato. Sentiva di dover tenere viva la memoria di quanto era accaduto e tramandarla ai più giovani, perché sapessero e non dimenticassero.

    Spostò lo sguardo verso la finestra; il pomeriggio cedeva sempre più lentamente il passo alla sera, e la bella stagione era già più di una promessa. Lo spaccato di cielo a sua disposizione si animava delle evoluzioni di uno stormo di rondini guidato dalla perfezione matematica di un codice misterioso che ne faceva un corpo unico. Indugiò a guardarle, affascinato, sino a che non scomparvero dalla sua vista; fu in quel momento che squillò il telefono. Maier sorrise nel riconoscere il nome apparso sul display.

    – Buonasera professore.

    – Come stai, ragazzo mio? È da parecchio tempo che non ci vediamo. A proposito, ho letto il tuo ultimo libro: complimenti. A quanto pare ho seminato bene.

    Santoro era una delle persone che avevano influito di più sulla sua formazione, come storico ma anche come uomo. Si era fatto la campagna di Grecia e di Albania, ed era riuscito a tornare indietro da Stalingrado, riportando a casa anche la sua fedele mula; poi, il giorno stesso dell’armistizio aveva gettato via la divisa da ufficiale ed era passato con la Resistenza. Con il nome di battaglia Nasca aveva militato nella brigate partigiane Garibaldi, sotto la guida del Comandante Barbato, operative nella valle del Po. Era stato il suo docente di storia contemporanea all’università, e fidato consigliere nel proseguo degli studi. Da oltre vent’anni, dopo il pensionamento, presiedeva una sezione locale dell’Associazione Partigiani d’Italia, e di tanto in tanto le loro strade continuavano a incrociarsi.

    – Come sta?

    – Gli anni passano sempre più in fretta, e questo significa che va tutto abbastanza bene; ma ciò non toglie che febbraio saranno novanta, e non posso non farci i conti. Ti ho chiamato per una faccenda che credo possa interessarti.

    – Mi dica pure di cosa si tratta.

    – È una faccenda – come potrei definirla? – particolare, tanto che preferirei parlarne di persona. Dimmi quando potrebbe essere possibile vederci un momento.

    Maier pensò in fretta, per non dare l’impressione di far pesare la sua disponibilità.

    – Anche domani: mattina o pomeriggio, come crede. Il giorno seguente sono impegnato perché chiudo le lezioni del semestre; nel caso potremmo andare al successivo.

    – Domani verso le sedici a casa mia andrà benissimo. Ti pregherei di dedicare un po’ di tempo per fare una piccola ricerca prima di passare da me. Prendi un appunto: Alvaro Settis, nome di battaglia Lupo; non dovrebbe essere difficile raccogliere informazioni su di lui, così mi risparmi la fatica di raccontarti tutto e veniamo subito al dunque. A domani, allora.

    Le note biografiche su Alvaro Settis riassumevano una vita troppo breve che però aveva lasciato un segno indelebile nella memoria degli abitanti delle zone dove aveva vissuto.

    Era nato nel 1915 a Corvaia, un piccolo paese nei dintorni del passo del Giogo, tra la Toscana e l’Emilia, da una famiglia relativamente benestante (il padre era un funzionario comunale, la madre insegnante di latino); aveva conseguito la maturità classica, poi la laurea in lettere antiche a Firenze. Nel 1935 si sposa con Bianca Romei, di Borgo san Lorenzo, nello stesso anno nasce la prima figlia Eleonora.

    Diventa membro del Partito Comunista Italiano, e nell’ottobre del 1936 insieme a un numeroso gruppo di antifascisti parte per la Spagna, dove combatte nella Brigata Garibaldi.

    Alcune immagini corredavano questi anni; la prima lo ritraeva a mezzo busto, di tre quarti, come se si fosse voltato in quel momento verso l’obiettivo, il volto affilato incorniciato da una barba rada che si allunga sul mento. L’immagine è sgranata, ma non toglie niente all’espressività dello sguardo che sembrava seguirti ovunque. La didascalia indicava che era stata scattata nei pressi di Guadalajara, nel marzo del ’37, quando il battaglione Garibaldi era ancora parte della XII Brigata Internazionale. Nella seconda è ritratto di fronte, la giacca aperta, i capelli scarmigliati non si sa se dal vento o dalle tante notti passate all’aperto, proteggendosi alla meglio dal maltempo di quei giorni. Sorride, ostentando il suo coraggio.

    Settis viene ferito nel giugno del 1937, e dopo essere curato continua a combattere sino al febbraio del 1939. Espatriato in Francia, è internato nel campo di concentramento di Le Vernet, ma a seguito dell’occupazione tedesca viene rimpatriato in Italia, e nel maggio del 1941 condannato al confino nell’isola di Pantelleria; è qui che nasce la figlia Beatrice. Liberato nell’agosto 1943, in stretto contatto con i dirigenti del clandestino Partito Comunista contribuisce alla formazione di nuclei partigiani operanti nella zona dell’alto Mugello.

    In un’altra foto sta dividendo il cibo assieme ai suoi compagni di Brigata. Indossa pantaloni corti e camicia, per cui doveva essere successiva al suo rilascio, tra il ‘43 e il ‘44. Anche qui sorride, i folti capelli scuri pettinati con cura all’indietro e le labbra strette attorno a una sigaretta. La barba ha lasciato il posto a un curato pizzo. Anche gli altri sorridono: nel campo sembra regnare un’atmosfera distesa, di grande ottimismo. Nella lotta di liberazione partecipa ad alcune importanti azioni contro i tedeschi, distinguendosi per il suo coraggio, sino a divenire comandante della Brigata partigiana Luigi Bosi con il nome di battaglia Lupo.

    Un’altra immagine lo ritrae alla guida di una motocicletta; non si vede chi sia il suo passeggero. Anche in questa occasione il suo volto è disteso. La

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