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Labbra sull’orlo di un bicchiere di spritz
Labbra sull’orlo di un bicchiere di spritz
Labbra sull’orlo di un bicchiere di spritz
Ebook480 pages7 hours

Labbra sull’orlo di un bicchiere di spritz

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Non è facile essere donne al giorno d’oggi. Non è facile essere madri, casalinghe, lavoratrici e manager di se stesse. Combattere con i propri fantasmi quotidiani e riuscire a sconfiggerli quasi sempre con forza, coraggio ed ottimismo. Ci sono dei periodi in cui ci si sente un vero e proprio fallimento, in cui tutto appare insignificante, un lavoro che non ci soddisfa, una relazione complicata, il cuore in subbuglio. Vivere in una città come Roma, poi, può mettere a dura prova la pazienza di chiunque, tra orari frenetici e ritmi serrati. La storia di Angela inizia così, con la solida corazza che si è costruita dopo innumerevoli delusioni, la voglia di scappare lontano, una migliore amica che è il suo alter ego, sempre al suo fianco. E man mano che ci si addentra nel suo psicodramma, disarmante e ironico, si vive insieme a lei la sua trasformazione: perché in fondo se si smette di essere troppo critici con se stessi, se ci si apre ad una prospettiva più ampia, ci si accorge che anche le persone intorno a noi hanno le loro preoccupazioni, e a volte basta un gesto gentile ad avvicinare qualcuno che può rendere migliore la nostra vita. E poi c’è sempre lo spritz, una medicina miracolosa che alleggerisce l’anima. Via le maschere, che lo spettacolo cominci.



Angela Betrò, nata nel 1976 a Roma, sposata con due figli, lavora come infermiera presso un grande ospedale universitario della città capitolina. Appassionata all’arte e al disegno, da alcuni anni si dedica al componimento di poesie, storie in rima per bambini e racconti brevi. Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari tra i quali la sesta edizione de “Il volo di Pègaso” (Raccontare le malattie rare: parole e immagini) dove compare un suo racconto breve: “L’aria di Michela”, dedicato alla sorella maggiore; ed al concorso “Tra un fiore colto e l’altro donato” indetto dall’Aletti Editore, dove compare la sua poesia: “L’acchiappasogni”. Ha pubblicato in seguito, sempre con Aletti Editore, quindici componimenti poetici che compaiono nella raccolta “Pounent” Parole in Fuga - Poeti del Nuovo Millennio a Confronto, insieme ad altri cinque autori emergenti. Labbra sull’orlo di un bicchiere di Spritz è il suo primo romanzo.
 
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2019
ISBN9788855087674
Labbra sull’orlo di un bicchiere di spritz

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    Labbra sull’orlo di un bicchiere di spritz - Angela Betrò

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    Angela Betrò

    Labbra sull’orlo di un bicchiere di spritz

    EDIFICARE

    UNIVERSI

    © 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it

    I edizione elettronica novembre 2019

    ISBN 978-88-5508-767-4

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri

    Dedico questo romanzo alle amicizie, quelle vere e profonde. Quelle fatte d’intesa e fiducia. Quelle che non passano con gli anni, con le distanze, e che non conoscono mai tradimenti ed inganni.

    A Tiziana e a tutte le mie più care amiche, perfette in tutte le loro imperfezioni e straordinarie come tutte le donne sanno esserlo.

    Ed infine dedico questo romanzo all’amore, l’unico sentimento che non smette mai di sorprenderci.

    Dannato amore

    E penso a te

    Bicchiere tra le dita

    Che scorrono un po’ incerte

    come sull’orlo di un burrone

    Fuori c’è il sole

    Ma dentro un acquazzone

    Ha già allagato il cuore

    E ha stinto le parole.

    Sospingo l’anima come barca in mezzo al mare

    Fatto di lacrime che scorrono feroci

    E come artigli

    Lasciano al cuore cicatrici

    Che solo gli occhi tuoi sanno vedere.

    E bevo ancora

    Trattengo a me il bicchiere

    E mentre affogo i miei dolori si fa notte

    E dentro ho i lividi ma il buio se ne fotte

    E scalcia e squarcia

    Questo disastrato cuore

    Che al buio piange

    Cercando ancora il tuo sapore

    E penso a te

    Amore perso

    dannato amore

    CAPITOLO 1

    L’ALCOOL E LE PASTIGLIE PER DORMIRE NON VANNO PRESE ASSIEME

    Sono ancora incerta sul da farsi, tracanno velocemente un altro sorso di spritz direttamente dalla bottiglietta, niente a che vedere con quello preparato nei cocktail bar, ma in assenza d’altro mi sembra che quello che sto bevendo sia buonissimo. In fondo è tutto un gioco d’inventiva, è la mente che comanda tutto e se immagino di stare in un bar con la giusta compagnia, d’improvviso la bottiglietta diventa un calice ed il liquido aranciato e frizzantino si tuffa in un vortice di ghiaccio e fettina d’arancia fresca e già sento il chiacchiericcio della gente intorno mentre, golosa, mi lancio sulla tavola imbandita di noccioline, patatine e croccantini al mais e me ne riempio la bocca fino a sembrare un criceto. Il criceto invece, sonnecchia sommesso nella sua fungotana. Sorseggio ancora un altro goccio di spritz, mentre giro tra le mani il blister di pastiglie di lorazepam. Le prenderei tutte, una ad una, forse così il dolore sparirebbe d’improvviso, forse quell’incessante ticchettio nella testa smetterebbe di infastidirmi e tutto quel chiacchiericcio, non quello della gente seduta al bar, ma quello che ho nella testa, finalmente, forse, smetterebbe di fare così tanto fracasso. Scandisco il tempo coi battiti del cuore, ondeggio sulla sedia guardando il blister ancora una volta e ancora una volta lo rigiro tra le mani. Tolgo una pastiglia, solo una, poi la ingollo con un altro abbondante sorso di spritz. Fuori è caldo. Il ventilatore in casa gira vorticosamente, la televisione mi accompagna col suo brusio, mentre un film demenziale che non mi ha mai fatto ridere, scorre sullo schermo. E penso a lui e bevo e mentre bevo penso che lo spritz sta per finire e il chiacchiericcio nella testa si trasforma in una cameriera dalle tette rifatte male, grossi tatuaggi sulle braccia e le labbra a canotto che mi dicono (sì perché in realtà sono solo le sue labbra a parlare): Bella mia sveglia: ti ha mollata per un’altra! Ma qualcuno appena seduto dietro di me bussa sulla mia spalla. È un uomo sulla cinquantina con scuri occhialoni a goccia, un riporto orribile e un paio di baffoni imbarazzanti dal quale spuntano due grosse labbra a canotto come la tatuata, ma quelle dell’uomo almeno sono naturali: Io non t’avrei mai lasciata con quegli occhi azzurro cielo che hai!. Sono grigio verdi, come l’acqua del Tevere e se li guardi bene, caro il mio Charles Bronson de noàntri, ci trovi pure qualche pantegana dentro. Un’altra ragazza aggraziata si volta stizzita verso la cameriera e con tono aspro afferma: Le ha detto che è stata e sarà sempre una persona importante. Solo che lui non poteva darle quello che voleva lei. Un altro ciccione dietro di lei scoppia in una risata fragorosa: Se, lallero… e nel lallero che s’allunga in un greve e rumoroso lalleeeeeeeeeeero gli parte un rutto che scappotta i capelli da riporto a Charles, fa scoppiare una tetta a labbra a canotto e tosa il pelo allo yorkshire della ragazza aggraziata facendolo diventare un chihuahua. Decido che è il caso di dileguarmi alla chetichella dal bar della mia mente dove avevo trovato rifugio. È pieno di pazzi, andrebbero visti da un bravo psichiatra. Ingollo un altro lorazepam dando fondo allo spritz e non contenta aggiungo al tutto pure venti gocce di diazepam sublinguali ed è così che, obnubilata a sufficienza, mi abbandono al sonno sul divano di pelle, col ventilatore acceso e il film che non mi ha mai fatto ridere.

    Mi sveglio al suono della musichetta più odiosa che si possa udire, sembra quella del carillon di un film di Dario Argento del quale, alle cinque del mattino, mi sfugge il titolo. Ho un chiodo piantato nell’occhio destro, non un chiodo reale, ma quello amabile e sempre più spesso presente della mia amica emicrania alla quale ho dato oramai, un simpatico ed affettuoso nomignolo: Auretta. Quindi quando parlerò di Auretta, saprete già che mi sto rivolgendo a lei. È la mia amica più fidata, è con me da quando avevo più o meno tredici anni ed insieme all’altra mia amica Sonnia, fanno un insostituibile ed odioso duetto che mi rovina la vita più o meno da sempre. Come nella sindrome di Stoccolma, le odio profondamente, ma sono talmente abituata ad averle sempre accanto e ad esserne vittima, che proprio non saprei farne a meno. Sono succube di loro, ma sono le uniche che realmente mi sopportano tanto che oramai sono parte integrante di me. A volte insieme, a volte in solitaria. Auretta di giorno, Sonnia di notte. A volte è Auretta che arriva di notte a svegliare Sonnia perché si sente sola e non riesce a dormire e allora alla fine non dorme più nessuna delle tre, soprattutto io.

    Asciugo il filo di bava che mi penzola dalla bocca ancora semiaperta, mi alzo, tento di farlo, ma il divano di pelle grigia è diventato tutt’uno con la mia pellaccia olivastra e sudaticcia. Mi scollo violentemente lasciando la mia sagoma abbronzata sul divano come Gesù Cristo fece con la sacra sindone. Ecco, una settimana al sole come un’otaria spiaggiata, unta e panata come un’oliva ascolana e adesso il divano è più abbronzato di me ed io ho una striscia dietro da far invidia ad un procione. Inciampo sulla bottiglietta vuota di spritz che rotola facendo un baccano infernale, impreco, Auretta lancia il suo grido di battaglia e il chiodo si conficca più a fondo nel bulbo oculare, poi con il martello batte e arriva fino al timpano, mi gira la testa. Vedo doppio. Voglio vomitare. Forse svengo. Arrivo al water e vomito succhi gastrici aranciati. Mai prendere le pastiglie per dormire insieme all’alcool. Questa me la devo segnare sul mio blocco della memoria, quello dove appunto le cose da ricordare, però adesso non ricordo dov’è. Mi stiracchio, faccio il saluto al sole a tapparelle chiuse e metto su il caffè.

    Mi preparo alla buona, una doccia veloce, spruzzo un po’ di profumo di quello tarocco, anzi no, abbondo tanto costa poco. Mi trucco al buio tanto da sembrare una drag queen e poi lo fisso con un ottimo spray paralizzante alla bava di lumaca venduto sottobanco da un amico. Resto cieca per buoni cinque minuti mentre quello si asciuga e mi appiccica il trucco alla faccia, mi tira tutto e se tento di sorridere sembra che mi sia presa una sorta di paresi permanente post ictus. Ingoio insieme al caffè due compresse per Auretta, fa un sacco di storie per andarsene ogni volta, ma se sono brava ad ignorarla dopo un po’ si arrende. Sono pronta per uscire e pronta per affrontare una nuova schifosissima giornata.

    CAPITOLO 2

    RELAZIONI INSINDACABILI

    Il problema principale in una città come Roma in estate è il tasso di umidità altissimo già percepibile alle sei del mattino come un claustrofobico abbraccio afoso. Nel tragitto che percorro dalla porta di casa alla macchina, più o meno cinquanta metri, vengo avvolta da una nuvoletta di simpaticissime zanzare tigre affamate, che fanno colazione con il mio ottimo rosso del ‘76 zero positivo laziale. Il percorso casa lavoro è veloce, meno di due chilometri di buche. Sono diventata bravissima nello slalom in Seicento, il problema si pone solo quando piove. Perché se a Roma piove ti ritrovi d’improvviso a Venezia e devi ricordarti al millimetro la posizione esatta di tutte le buche per poterle schivare, e per una come me che soffre di perdita di memoria a breve termine, mai diagnosticata ma certa, non è un’impresa semplice. Un attimo di distrazione e ti ritrovi in qualche catacomba a fare amicizia con qualche altro tuo concittadino che sono mesi che stanno cercando. Sotto Roma non ci sono reperti degli antichi romani, ma romani e basta.

    Arrivo flemmatica a timbrare il cartellino, scendo al piano inferiore e digito il codice sul lettore. Il rullo consegna divise comincia a girare, prende velocità, impazzisce, sputa a caso un camice che viene afferrato al volo dal braccetto meccanico, lo sportelletto si apre con un cigolio, l’afferro timorosa. Ho sempre paura che quel mostro meccanico malfunzionante mi strappi un braccio. Ripeto l’operazione sperando che stavolta peschi nella casella giusta prelevando il camice col mio nome. Quando la mano meccanica finalmente me lo consegna traggo un sospiro di sollievo, pure stavolta me la sono cavata. Mi volto, sto per andarmene ed ecco che ti becco Johnny-scialorrea. Non so come si chiami in realtà, ma è un odioso logorroico dai pettorali super pompati, due bicipiti enormi super tatuati ed una pelata super lucida e splendente tanto da brillare di luce propria. Mi attacca una filippica sul sindacato: «Tu che adesso sei sindacalista devi sostenere i nostri diritti, perché noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci tuteli contro questo abusivismo di potere…» Annuisco in silenzio come se lo stessi seguendo. Non ho memorizzato una cippa di quello che ha detto; in testa ho ancora il criceto in coma etilico che dorme nella sua fungotana abbottato di croccantini al mais, spritz e lorazepam. Io ancora non ho capito a distanza di mesi, chi cazzo è che mi ha votata e come faccio a ritrovarmi in questo psicodramma di gente fomentata che crede ancora nei diritti dei lavoratori. Resto ferma con un’espressione ebete, mentre l’occhio ancora tumefatto dal chiodo di Auretta mi pulsa tanto che comincio a strizzarlo in maniera convulsa accecata dalla pelata super brillante di Johnny-scialorrea. Sembra mi stia prendendo un attacco epilettico, sto per pronunciare la solita frase per salvarmi in calcio d’angolo ed ecco che arriva lei, bella e leggiadra, svolazzante come se avesse nuvole al posto dei piedi e il mondo maschile si paralizza all’istante. Ondeggia, batte le palpebre come Betty Boop, accenna un sorriso. Solo io so che anche lei si è spruzzata della paralizzante bava di lumaca e non riesce ad allargare il sorriso più di tanto e che ad ogni battito di ciglia le sembra le si stia scollando la faccia dal cranio. Non deve neanche combattere col rullo lancia camici. A lei il camice viene servito direttamente dall’inserviente che è lì per raccattare quelli lanciati a vanvera dividendoli nuovamente in ordine alfabetico. Sembriamo due mondi separati e distanti, io l’elefante, lei la farfalla. Due donne così possono solo odiarsi.

    «Ciao Titti, spray alla bava di lumaca anche tu?»

    Stavolta ride, quasi le si spacca il viso. Quello che non può sembrare, invece a volte è. E lei è la mia migliore amica. Questo è insindacabile.

    Sgranocchiamo il nostro solito cornetto di sfoglia glassato. Quello che serve per iniziare una nuova schifosissima giornata nel migliore dei modi è un buon apporto calorico. Bisogna portare la glicemia a livelli accettabili affinché il criceto esca coraggiosamente dalla fungotana e cominci a rullare su quella fottutissima micro-ruota-panoramica situata nel nostro cervello e ci permetta finalmente di ammirare il panorama della vita che ci scorre davanti ora dopo ora, giro dopo giro, giorno dopo giorno. Ah, dimenticavo di dirvi che anche il criceto che ho nella testa ha un nome: si chiama Clementina.

    «Come stai?»

    La tazza di cappuccino fumante si ferma a mezz’aria. Gli occhi si lucidano appena, tiro su col naso e poi con le spalle.

    «Non vuole ferirmi, dice. Non può darmi quello che voglio, dice. Non sa neppure esprimere il suo stato d’animo, dice.»

    «E tu che dici?»

    «Dico che è un fottuto stronzo. Dico che può andare a farsi fottere. Dico che è semplicemente un uomo e questo è quanto e non c’è altro da aggiungere.»

    «Ti capisco. Lo so quanto ci stai male ma vedila così, forse non era l’uomo giusto per te.»

    «Lo so. Il problema infatti non è lui, sono io. Ho una sfiducia totale nel genere maschile ma in fondo credo che il problema sia il mio. Sono io ad essere sbagliata e a scegliere sempre uomini non adatti a me.»

    «Tu non sei sbagliata, non lo sei affatto, solo che ti capitano sempre gli uomini sbagliati, cioè quelli che alla fine non si innamorano di te.»

    «Praticamente tutti. Il dramma è che l’amore non esiste… ecco la verità qual è! Mi serve un antidepressivo forte. Stasera mi serve uno spritz… doppio.»

    Fa una smorfia, annuisce e strizza l’occhio, la pensiamo allo stesso modo in fondo io e lei. È una perfetta simbiosi la nostra, lei è la parte di me più femminile, quella più ammiccante e sensuale, la parte posata, quella calma e razionale, più leggera, volutamente e solo all’apparenza svampita. Io sono la parte di lei più fantasiosa, la parte folle ed artistica, ma anche quella più cazzuta e incazzosa, quella più istintiva ed aggressiva, spesso goffa e sempre pronta al sarcasmo dissacrante. Quello che invece abbiamo entrambe a pari merito è il coraggio, e quando questo ad una delle due viene a mancare, l’altra gliene cede un po’ del proprio e tutto torna in perfetto equilibrio. Siamo due piatti di una stessa bilancia e nessuna delle due pesa più dell’altra. Uno yin e uno yang che si scambiano i ruoli a vicenda restando perfettamente e costantemente in armonia tra loro. Al momento il ruolo di yang spetta a lei.

    La sirena suona, il turno comincia alle sette esatte. Usciremo alle quindici come tutti i giorni profumate di biscotto alla vaniglia, cioccolata e cannella. La squisilizia è la fabbrica di produzione dolciaria nella quale lavoro da circa quattordici anni dopo un passato tormentato da infermiera. Non amo granché il lavoro in fabbrica: orari, ritmi serrati, catene di montaggio. Tutto è sempre uguale, ma almeno a fine turno profumo di buono. Il mio lavoro precedente non era di certo tra i più profumati.

    Ho capito subito che fare l’infermiera non era un ruolo adatto a me. Non combaciava affatto con la mia indole. È stata mia madre a spingermi a farlo, credo fosse il suo sogno da ragazza poi accantonato per occuparsi della famiglia. Non era la mia scelta, non lo era affatto. Ho sempre avuto un temperamento artistico, un grosso senso d’indipendenza e tanta voglia di libertà espressiva e non solo, la capacità di tramutare i miei umori in colore, l’intuito a cogliere qualcosa di bello dove apparentemente non c’era nulla d’interessante da guardare. Quando poi mi sono trovata scomoda in quel camice bianco, non so neppure il perché, ma ci ho provato, sprecando quasi dieci anni della mia vita, tra puzze varie, cacca, sangue vomito, malattie e morte. Poi un giorno si presenta in ospedale un omone tutto tatuato per eseguire un semplice prelievo ematico. Intimorita dalla sua stazza mi avvicino a lui titubante e con mano tremante, non riuscendo a nascondere un certo imbarazzo, gli conficco l’ago in un braccio. Tempo di togliere il laccio emostatico e rimuovere l’ago, il giovane omone rigira gli occhi e tracolla rovinosamente a terra. Più di centotrenta chili di tatuaggi crollano con un pesante tonfo sul pavimento. L’uomo giovane, aitante e indelebilmente disegnato, colpisce con la testa lo spigolo di un carrello medicazioni e finisce così in prognosi riservata. Avevo ventotto anni allora. Ho mollato quell’orrida divisa bianca e grazie all’amica di mio padre, nonché amante, ho trovato un rifugio sicuro nella fabbrica dolciaria nel settore impasti, con grossa disapprovazione di mia madre che alla fine però ha dovuto farsene una ragione. Pure sul fatto che mio padre avesse l’amante. Si sono lasciati due anni dopo.

    Non tornerei indietro sulla decisione presa. Chi lavora nel settore sanitario oggi non fa altro che lamentarsi. Avrei finito per essere una di loro: frustrata e insoddisfatta, tendenzialmente acida. E invece sono aromatizzata al biscotto.

    Titti lavora nel settore farcitura. Lei è arrivata sei anni fa e tra una pausa e l’altra ci siamo subito intese alla perfezione. La mia postazione rispetto alla sua è separata da un’ampia vetrata da dove posso osservare più di un settore e ormai abbiamo talmente tanta affinità da aver stabilito un linguaggio in codice tutto nostro. Sorriso di sbieco a sinistra: anomalia e stravaganza nel suo settore. Sorriso di sbieco a destra: anomalia e stravaganza nel settore forni. Occhi al cielo: direttore in arrivo per controllo; non che sia un rompi balle ma è pur sempre il direttore. Strizzatina d’occhio: figaccione (uomo di bella presenza) in arrivo. Ecco, devo ammettere con profonda frustrazione che ultimamente la strizzatina d’occhio è poco usata. Tutti gli altri settori purtroppo sono tagliati fuori dal mio campo visivo. Ah, giusto; ultima ma non meno importante è la scrollata di spalle con sospiro: Il marpione viscido col fare scimmiesco detto OrangoRaul del settore confezionamento parte alla carica e ci prova con Titti. Lo fa tutti i giorni e tutti i giorni io scrollo le spalle in modo che lei possa decidere se staccarsi al volo dalla macchina, fingendo un impellente bisogno fisico e lasciarlo lì a gironzolare solo tra le macchine alla ricerca disperata della sua amata o restare impalata al suo posto maltrattandolo senza neppure degnarlo di uno sguardo. Accenna espressioni di disgusto guardando nella mia direzione e io le rispondo mimando le mosse di un scimpanzé, provocando la sua ilarità. Lo so, non è un comportamento maturo per due quarantenni, ma in fondo gli uomini meritano di essere presi un po’ in giro e beccarsi una buona dose di derisioni giornaliere. Dopotutto se la cercano.

    Il tempo scorre a ritmi serrati e velocemente si arriva a fine turno. Mi scrollo la farina di dosso e raggiungo Titti alla sua postazione. Il tipo alto, smilzo e sudaticcio, dalla goffa andatura ciondolante, si avvicina prima che possa avviarmi verso l’uscita. È una sorta di déjà-vu, un rituale che si ripete puntualmente ogni giorno come per Titti con lo scimmione. Porta con sé il suo solito sacchetto di merende e biscotti tagliati male dalle macchine e quindi inutilizzabili. È timido e affetto da una leggera balbuzie. Forse lui potrebbe essere il mio uomo ideale, quello pronto ad innamorarsi perdutamente e follemente di me e a darmi tutto ciò che mi manca e del quale ho bisogno. Il solo pensiero però mi dà la nausea, trattengo a stento i conati di vomito mentre lui generosamente allunga il sacchetto verso di me.

    «È p-per te. P-per tuo f-figlio!»

    Sorrido, o perlomeno mi sforzo di farlo, ma ne esce fuori un’espressione innaturale da ebete alla Stanlio. Ecco a chi somiglia, proprio a Stanlio, del mitico duo anni trenta. Raccolgo il sacchetto e sollevo un mezzo trancino tranciato e gli dò un generoso morso, deglutendo trancino ed imbarazzo assieme. Titti mi dà una gomitata sul fianco e sorride. «Stronza!» bisbiglio e ci allontaniamo lasciandolo lì da solo, paonazzo in viso e totalmente incapace di pronunciare alcuna sillaba. Ci togliamo di dosso il camice aromatizzato al biscotto, giallino per me, rosa pesca per lei, il colore varia a seconda del settore dove si svolge il proprio lavoro, e li imbuchiamo nel tubo ciuccia-ciuccia, che non so perché mi ricorda tanto gli umpa lumpa della fabbrica del cioccolato di Willy Wonka. Il condotto è un grosso aspirapolvere dalla bocca larga, che, azionando un pulsante rosso, attiva un vortice che risucchia i camici sporchi e li spedisce direttamente in lavanderia. L’igiene nella fabbrica è fondamentale. La prima regola da rispettare: ci si cambia ogni giorno con un camice fresco di disinfettante e a fine turno si consegna in lavanderia. Anche la lavanderia lavora a ritmi serrati. Solo a chi lavora nel settore imballaggi e carichi è concesso il privilegio di cambiare la tuta da lavoro una volta a settimana, e questo è il giorno della settimana nel quale anche lui deve affrontare il grande tubo ciuccia-ciuccia. Chi è lui? Lui è Mario, l’omo da lo petto villoso al quale ogni donna de La squisilizia sbava dietro. Alto un metro e ottanta, spalle larghe, scuro di carnagione, barba incolta sotto la quale spuntano due labbra carnose sulle quali morire sopra, occhi nocciola e uno sguardo profondo e penetrante da strizzare le viscere. Sotto la tuta, aperta generosamente, porta solo una canotta bianca da muratore, sotto la quale s’intravede un rigoglioso petto villoso. Ogni donna al suo passaggio fa un giro di Hula- hoop. Non ride mai, non guarda mai nessuna, quasi grugnisce infastidito se si sente troppi occhi puntati addosso, cosa che avviene puntualmente. Accenna un leggero movimento d’orbita fissando per un nano secondo Titti e poi va via.

    «Il solito stronzo che se la tira.» dico.

    «Sì, però è proprio figo!»

    «Figo ma stronzo, e questo è insindacabile!»

    «Dai che piace anche a te.»

    «Uno così smuove gli ormoni anche a mia nonna di novantasei anni…e lei è cieca!»

    «Scema!»

    «E comunque sei l’unica che degna di uno sguardo.»

    «Ma non è vero, non mi guarda mai.»

    «Dormi tu… continua a dormire. Tanto c’hai il bel bancario che ti riempie di coccole e attenzioni. Donna fortunata! Però dillo che ti faresti volentieri imballare e caricare da lui?»

    «Ma quanto sei idiota! Al massimo potrei farmi scartare non imballare.» e scoppia a ridere.

    «Giusto. E comunque cosa ti dico sempre?»

    «Che dobbiamo imparare a sfruttare gli uomini perché l’amore non esiste.»

    «Brava, vedi che impari subito. Devo solo imparare a fare la stessa cosa anch’io. Predico bene e razzolo male, ma imparerò. Quindi appena puoi approfitta del generoso petto villoso di Mario e fatti dare una scartata da lui.». Strizzo l’occhio e ci dirigiamo verso l’uscita. Nel cortile esterno, dietro i capannoni, i prodotti di La squisilizia belli pronti ed inscatolati, vengono caricati da un uomo in muletto su camion pronti a partire per la prossima distribuzione. L’aria è tremendamente afosa, l’estate non è iniziata nel modo migliore, ha piovuto buona parte di giugno, ma adesso il sole splende in cielo bollente e impietoso. Non abbiamo impegni familiari per oggi, quindi saltiamo in macchina e ci dirigiamo verso il mare per il nostro aperiantidepressivo. Anche su una Seicento scrostata e arrugginita, senza aria condizionata e con alle spalle ottocentomila chilometri, io e lei ci sentiamo come Thelma e Louise, ma il nostro finale è decisamente migliore. Ed anche questo è un fatto insindacabile.

    CAPITOLO 3

    QUESTIONE DI FERORMONI

    Arriviamo in spiaggia che è pomeriggio inoltrato. Stendiamo l’asciugamano e ci spargiamo generosamente di olio al profumo di cocco. Verso le venti ci concederemo il nostro aperiantidepressivo preferito, proprio lì sulla spiaggia. Un modo perfetto per concludere una giornata estiva decisamente afosa. Ma per adesso ci godiamo qualche ora di sole e di mare fino al tramonto. Quando sono al mare non amo parlare e questo Titti lo sa. Mi piace ascoltarne il rumore delle onde che s’infrangono sul bagnasciuga o ancora più in là, di quelle che si abbattono sulle scogliere artificiali. La spiaggia a quell’ora del pomeriggio in un giorno infrasettimanale è quasi tutta nostra, giusto qualche persona del posto s’avventura con la propria spiaggina in riva al mare. Ed il profumo, quel profumo adorabilmente salmastro, che mi ricorda la mia infanzia e le tante estati passate in Calabria, al paese dei nonni che adesso riposano in un piccolo cimitero, tra cipressi e fichi d’india, affacciato sul mar ionio. È rumoroso ed insieme silenzioso il mare, concilia il sonno ed un leggero venticello solletica la pelle in un delizioso e rinfrescante massaggio. Se potessi scegliere dove morire è lì che deciderei di farlo, sdraiata a pochi passi dal mare col suo profumo e il suo rumore che mi accompagnano nel dolce valzer della morte. Ma non è tempo di morire e Titti già mi scrolla.

    «Oi, ma che dormi?»

    «No, facevo finta di essere morta sperando che un bagnino stile baywatch venisse a rianimarmi.»

    Ci guardiamo intorno, scorgiamo il bagnino sbragato sulla sua sdraio a fine turno, birretta e pane e mortadella tra le mani. Ha la pancia di un cirrotico, la pelata e l’abbronzatura a canotta tipica di un muratore. Mi chiedo perché in Italia la realtà si scosti così ferocemente dai telefilm americani dove gli uomini in divisa, qualunque essa sia, sono dei pezzi d’uomo da lasciarci gli occhi incollati addosso. Ma si sa, sono tutti stereotipi, nient’altro che mera finzione, in qualunque posto del mondo ci si trovi e qualunque divisa s’indossi. E noi in fondo abbiamo il nostro Mario l’omo da lo petto villoso col quale rifarci gli occhi.

    Ci alziamo e ripuliamo gli asciugamani dalla sabbia, ci ricomponiamo prendendo qualche salva freschezza dalla nostra mini pochette che ha le stesse capacità di capienza della borsa di Mary Poppins. Questa è una peculiarità di tutte le donne ben organizzate e che tengono al proprio aspetto fisico, quella di racchiudere in una piccola borsa tutto l’occorrente per passare dalla modalità casalinga sciatta alla modalità Jessica Rabbit in poche semplici mosse. Ed è così che dalla mia mini pochette color oro ti tiro fuori: la crema dopo sole, l’antirughe, il correttore, il rimmel, l’ombretto, matita e rossetto, il profumo tascabile alla gardenia reale e all’olio essenziale di patchouli, il completino intimo sexy (non sia mai s’incontri qualcuno stile bagnino baywatch) e l’immancabile spray paralizzante alla bava di lumaca. Meno di dieci minuti e siamo due perfette copie di una modella da copertina di play-boy, o perlomeno ci illudiamo di esserlo, e la convinzione di essere ciò che si vuole è tutto nella vita.

    Saliamo allo stabilimento che per l’apericena si è trasformato in un ambientino raffinato ed elegante, con enormi poltrone in paglia e cuscini bianchi adagiati sulla spiaggia. Tavolinetti bassi adornati di piccole candele accese danno il tocco finale per quello che può sembrare un appuntamento galante che in realtà non è. Siamo solo due amiche che si apprestano a confidarsi problemi e piccoli segreti davanti ad un buon bicchiere di spritz fresco e tanto ci basta a farci sentire già meglio. In fondo il segreto della vera felicità si nasconde dietro ad una buona amica e ad uno spritz, tutto il resto fa solo da contorno. Con un’amica non si ha bisogno di scudi né di fortezze dove proteggersi, si può essere ciò che si è senza indugi e paure. E allora via le maschere, che lo spettacolo cominci. Ci sediamo su un comodo divanetto con grossi cuscinoni bianchi e ordiniamo il nostro aperitivo: uno spritz classico per me, un hugo rosa per Titti.

    Parliamo del più e del meno. Ci confrontiamo come sempre sui problemi di tutti i giorni. Non è facile essere donne al giorno d’oggi. Non è facile essere madri, casalinghe, lavoratrici e manager di noi stesse. Combattere coi mostri quotidiani e riuscire a sconfiggerli quasi sempre con forza, coraggio ed ottimismo. Ma siamo pur sempre donne e a volte avremmo bisogno di una persona al nostro fianco in grado di offrirci un supporto, l’incoraggiamento necessario per andare avanti, un semplice segno d’approvazione e di apprezzamento. Un uomo, che seppur mentendo, ci abbracci e ci dica: Va tutto bene! anche se non va affatto tutto bene. Ma siamo sole, questa è la nostra realtà. Ci manca l’amore… quello vero, quello al quale brama e crede ogni donna, finché sommando le proprie delusioni ci si arrende e ci si illude semplicemente di non crederci più, di non averne più bisogno. Sappiamo sempre magistralmente mentire a noi stesse, con convinzione, con ostinata risolutezza, ma questo solo fino al prossimo incerto quanto spassionato amore, fino alla prossima probabile delusione, perché è questo che noi donne facciamo: amiamo, crediamo, navighiamo, naufraghiamo, annaspiamo, anneghiamo nel mare delle nostre stesse lacrime e poi riemergiamo e nuotiamo fino ad approdare su di una nuova isola per innamorarci di nuovo, ancora più forte di prima. Perché in fondo noi donne non smettiamo mai di credere nell’amore e nella potenza del mare di sentimenti che abbiamo dentro.

    E dopo arriva lo spritz, il vassoio sollevato ad altezza spalle copre il viso del cameriere che ci gira velocemente attorno posizionando le ciotole di stuzzichini vari sul tavolo.

    «Tiro ad indovinare: Il classico per lei» mi rivolge lo sguardo e posiziona il grosso calice aranciato di fronte a me, «e l’hugo per la bellissima signorina qui di fronte… il rosa è un colore che si abbina benissimo con la sua carnagione se posso permettermi.»

    Puoi permetterti, lo hai appena fatto. Alzo gli occhi al cielo, poi li rivolgo a lei convinta che mi stia guardando con la solita espressione del: E ti pareva… ecco il marpione di turno, e invece no. Il suo sguardo è fisso sul cameriere smilzo, coi capelli rasta raccolti in una coda e la carnagione abbrustolita dal troppo sole. Occhi negli occhi, fanno un giro di ruota panoramica stretti abbracciati sullo stesso seggiolino, scrutano lo stesso panorama non accessibile ai miei occhi, mentre ferormoni impazziti schizzano nei loro corpi come palline in un flipper ed è tilt! Sono in un luna-park che ha aperto i cancelli solo per loro. Fanno giri di giostra e come in un lento valzer finiscono appiccicati, stretti e sudati. Ciuccio il mio spritz in perfetta solitudine. Titti è con me ma la sua testa è ancora sulla giostra col cameriere dallo strano accento calabro-catalano. Il banchiere, impettito, posato e fin troppo sposato e con figli a carico, che finora alloggiava nella regal-suite della testa di Titti, è stato bruscamente sfrattato con un solo giro di giostra da un tizio trasandato, dai lunghi capelli rasta ed una maglia nera scolorita dalle maniche strappate con sopra la scritta: la mia sola religione è il rock! Questo tizio è decisamente un tipo confuso. Ma sulle note dell’ultima hit del momento perdo per sempre la mia amica: sembra lobotomizzata, lo sguardo vacuo fisso sul bel cameriere, la bocca semiaperta, la verdura della pizza ripiena che le penzola tra i denti. Le sottraggo l’hugo rosa da sotto il naso e mi ciuccio anche quello. La percuoto, al decimo ceffone si ripiglia, guarda verso il calice vuoto.

    «Oh… non mi ero accorta di averlo bevuto tutto! Dove siamo?»

    «Nel mondo delle meraviglie Alice, ma il Bianconiglio dice che è tardi, sai… tocca tornare a casa.»

    Annuisce, sembra aver capito. Non ne sono sicura, però si alza ed io la seguo. Non abbiamo raggiunto ancora l’uscita quando ci sentiamo chiamare.

    «Belle signore, mica ve ne vorrete andare così e lasciarmi in questo modo?»

    «No, non vorremmo effettivamente ma ho appena subito un grosso lutto.»

    «Oh, mi dispiace, una persona a lei vicina?»

    «Più vicina di così!» allungo lo sguardo verso Titti. Lui capisce al volo e sorride imbarazzato.

    «Ma la smetti!» Sbotta lei.

    Grazie a Dio si è ripresa. Sono emozionata!

    Si guardano, sospirano. Lui le allunga un bigliettino ed è fatta. Si rivedranno ancora.

    «Non mi era mai successa una cosa così. Mi ha guardata e non c’ho capito più nulla. Mi sento le farfalle nello stomaco… Oddio, non mi sono neanche resa conto del tempo che passava. Ho bevuto lo spritz senza neanche sentirne il sapore…»

    E te credo!, lo penso ovviamente ma non le dico nulla. Poi lancia un urlo.

    «Che è? Che ti strilli a matta!» esclamo, mentre la Seicento sfreccia sulla Roma-Fiumicino.

    «C’ho un pezzo di verdura incastrato tra i denti.»

    Sorrido sotto i baffi, li ho veramente: ho dimenticato di farmi la ceretta.

    «Lo sapevi brutta stronza!»

    Scoppia a ridere. È tornata completamente in sé, ma adesso ha qualcosa in più che prima non aveva: le farfalle nello stomaco!

    CAPITOLO 4

    LO PSICHIATRA VIEN DI NOTTE

    Quando rientro nel portone di casa l’afa mi investe di nuovo. Salgo le scale e mi dirigo verso la mia porta giocherellando con le chiavi tra le mani, inciampo in qualcosa. Guardo in basso e c’è uno zerbino a fiori alto almeno sette centimetri che prima non c’era. Ho sbagliato porta? Ho bevuto troppo forse. Mi guardo intorno. No, quella è proprio la porta di casa mia, ma il mio zerbino era basso, vecchio, brutto e aveva un lato mancante. La vecchiaccia malefica del piano terra mi ha sostituito lo zerbino. Lo so, a voi sembrerà una carineria, ma credetemi non è affatto così. Cerca di marcare il territorio, cerca solo un modo di ricordare a tutti che prima la palazzina era tutta sua. Poco importa se un atto notarile attesti a te la proprietà dell’appartamento in cui vivi, quel suolo che stai calpestando, come il vialetto esterno e addirittura tutto il quartiere appartiene a lei, semplicemente perché lei ha deciso così. Sotto lo zerbino trovo infilate almeno tre buste da lettera. Porta tutto da me, è analfabeta e dà per scontato che le bollette in arrivo spetti pagarle solo a me. In fondo lei è la regina Elisabetta di Tor bella, e le regine non pagano mai le bollette. Ovviamente due su tre sono le sue, mi premurerò domattina di recapitargliele insieme allo zerbino. Rivoglio il mio con il lato mancante.

    La casa è troppo silenziosa. Quando mio figlio non c’è sembra tutto così immobile e austero. Se anche fosse in casa a quell’ora ormai starebbe dormendo, ma ci sarebbe il brusio di sottofondo del televisore e della ventola in funzione nella sua camera a ricordarmi della sua presenza. Si addormenta solo col televisore acceso, e se si sveglia durante la notte e si accorge che gliel’ho spento, lo riaccende e torna a dormire. Adesso è dal padre, tornerà a metà luglio per poi ripartire subito per il campo scout, poi passeremo agosto assieme. Poco importa cosa faremo, non ho grossi progetti per quest’estate, nessuna partenza prevista. Ho paura che mi chieda di tornare dal padre prima della riapertura della scuola. Vengo presa dalla malinconia e dallo sconforto, apro il frigo, prendo la prima birra al limone disponibile e sprofondo nel divano. Trattengo a stento le lacrime mentre una morsa mi stringe la gola, chiudo gli occhi e percorro il lungo corridoio di pareti bianche deliziosamente adornate da stampe di Klimt. È il mio pittore preferito. Adoro l’oro dei suoi dipinti. Sono tristi e pieni di vita allo stesso modo. Il bacio, L’abbraccio, poi ancora Giuditta e Le tre età della donna, sfilano davanti ai miei occhi investendomi di sfumature dorate e di colori ripristinando di colpo la calma e concedendomi tregua. Il cuore comincia a decelerare, i pensieri cupi iniziano a svanire. Mi soffermo sull’immagine di Danae, è così bella ma così dannatamente sola. Gli occhi mi si lucidano di nuovo, sento le lacrime scorrere anche ad occhi chiusi. Poi mi fermo ad osservare l’ultimo quadro, il mio preferito: Adamo ed Eva. Lei è sempre avanti a lui, lui da dietro sembra proteggerla, quasi scompare. Sembra un’immagine in evanescenza dietro di lei. La vera protagonista è Eva, con la sua bellezza, la sua nudità, la sua fragilità che è al tempo stesso la sua forza. Dov’è il mio Adamo? Dov’è quell’uomo che mette me prima di ogni altra cosa?

    So che il quadro di

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