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Quella cosa grande (o fetente) che è la guerra
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Quella cosa grande (o fetente) che è la guerra

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Un progetto dell'associazione culturale Arte Grande Guerra. Redatta in prima persona da un giovane ufficiale d'artiglieria della 650ª batteria d'Assedio, questa testimonianza racconta le vicende piccole e immani della seconda fase della Grande Guerra italiana, a partire dal 29 ottobre 1917, con il resoconto delle confuse giornate che fecero seguito alla rotta di Caporetto, sino al termine del conflitto, transitando per capitali eventi militari quali la battaglia del solstizio e la battaglia di Vittorio Veneto. Ma "Quella cosa grande (o fetente) che è la guerra" è anche - e soprattutto - una profonda ricognizione sugli effetti perniciosi del primo conflitto globale sulla psiche del singolo combattente, approccio che favorisce l'irrompere nel testo di una sorta di dimensione mitico-inconscia, concretizzatasi in sporadici, ma pregnanti, riferimenti alla vicenda di Pinocchio. E la metamorfosi del protagonista della favola di Collodi, letta in un'accezione ribaltata e connotata in negativo, riesce sorprendentemente a manifestare la brutale e alienante condizione del combattente, costretto a mutare natura per sopravvivere. Una narrazione moderna, vitalissima e illuminante che poteva esserci donata solo da uno di quei "ragazzi del '99" su cui una diffusa retorica ha riversato e riversa fiumi d'inchiostro stantio. A ormai un secolo dai giorni terribili della Grande Guerra, uno di loro ci fa avere finalmente la "sua" versione dei fatti.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 13, 2020
ISBN9788831663083
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    Quella cosa grande (o fetente) che è la guerra - Dario Malini

    Prima parte

    Da Genova verso il Piave nei giorni di Caporetto

    (29 ottobre 1917 - 31 maggio 1918)

    Battaglia di Caporetto

    I

    29 ottobre 1917, ore 3. A Genova, nel gelo della notte, salgo sul treno che mi condurrà a quella cosa grande (fetente, dice l’Elvira²) che è la guerra. Durante la prima parte del viaggio non succede nulla, tranne il continuo confabulare dei compagni sulle colossali vicende che starebbero accadendo laggiù³.

    Alle 9, partenza da Milano sulla tradotta per Udine e Cervignano. Ancora niente d’anormale fino a Vicenza, dove si comincia ad avere un qualche sentore di ciò che è accaduto perché fanno scendere tutti i militari della II Armata.

    Noi della III, invece, proseguiamo.

    Il treno fa sovente soste interminabili: al mattino del 30 ottobre, dopo una scomoda notte passata sui sedili, siamo appena a Pianzano. Di qui in poi il viaggio prende una piega interessante. Comincia lo spettacolo impressionante dello sfilare dei soldati della II Armata che, laceri, sudici, disarmati, trascinando a fatica le scarpe sfondate, avanzano lungo strade infangate con lo sguardo perso nel vuoto. Fa freddo e piove forte, ma nessuno ci bada. Portate come stracci da semplici fanti, scorgo due bandiere fradice e sdrucite (209° e 270° fanteria), salvate da chissà quali battaglie.

    Sulla tradotta siamo in dieci ufficiali e circa centocinquanta soldati. Quando il treno rallenta, ci sporgiamo dai finestrini mentre i fuggiaschi, nei dialetti più disparati, ci rivolgono frasi cariche di sarcasmo. A parer loro, ci stiamo scioccamente dirigendo verso il fronte quando la guerra è finita.

    Ghignando senza ritegno, gridano: «Viva la Germania! viva l’Austria! viva Giolitti! viva il Papa!». Ad uno di questi sbandati, più cinico degli altri, rivolgiamo un sacco di insolenze. Un collega gli spara: senza coglierlo. Poi qualcuno ci dice che Udine è stata occupata, e anche Casarsa⁴, notizie non comprovate da alcunché, ma allarmanti, che ci inducono a discuterne animatamente tra noi. Dopo mille esitazioni, decidiamo di recarci in commissione dal colonnello comandante la tradotta, facendogli presente come, proseguendo su questa strada, non finiremo in prima linea ma a Mauthausen. Egli, un uomo assai robusto di oltre quarant’anni, umettandosi le labbra e osservandoci con occhi senza lampi, ci risponde seccamente di non poter derogare dagli ordini ricevuti che gli impongono di recarsi a Udine. La sua severa flemma sortisce l’effetto voluto, cosicché ce ne torniamo domi ai nostri posti. Dopotutto, ci ripetiamo senza grande convinzione, siamo soldati e dobbiamo ubbidire.

    Almeno, però, il Regio Esercito avrebbe il dovere di sfamarci. Io, terminato da tempo il poco che avevo portato con me, sono sprovvisto di cibo e non ho idea di dove sia possibile procurarsene. Fortunatamente un tenente del 30° fanteria ha un cuore generoso e una valigia colma di vivande con le quali sfama me ed altri due ufficiali di artiglieria.

    La tradotta procede con lentezza esasperante: dieci minuti di marcia a passo d’uomo e due ore di fermata. Alle 19 arriviamo a Pordenone. La stazione, gremita all’inverosimile, mostra uno spettacolo doloroso: vecchi e donne che piangono, bambini che strillano, gente gettata a terra come mucchi di stracci. Quando ci fermiamo, il treno in un attimo s’imbottisce di profughi che si posizionano dappertutto, persino sul tetto. Diciassette trovano posto nelle latrine. Una giovane, con in braccio un neonato morto, intona una sommessa ninna nanna: sembra impazzita. La tradotta torna indietro e, alle 21, riparte. Nel mio scompartimento si infilano quattro donne sfollate: siamo pigiati come acciughe. La notte passa così, orribilmente, ed il 31 ottobre, alle 12, il treno entra nella stazione di Castelfranco Veneto. Solo qui, dopo cinquantasette ore di viaggio, poggio finalmente i piedi a terra.

    ² Elvira è la sorella del giovane ufficiale autore del diario.

    ³ Il 24 ottobre era cominciato l’attacco austro-germanico che portò alla disfatta di Caporetto.

    ⁴ Le prime truppe tedesche giunsero in effetti a Udine il mattino del 28 ottobre.

    II

    A Castelfranco Veneto faccio colazione in una trattoria gremita di soldati. Cibo scadente, tanta confusione, molte chiacchiere, nessuna notizia attendibile. E non sembrano saperne di più neppure al Comando di stazione dove un marziale colonnello, lisciandosi senza sosta la gran barba, risponde alle mie domande in modo talmente confuso da ammutolirmi. Ricevo comunque l’ordine d’andare a Treviso.

    Parto verso le 22 e arrivo a destinazione poco prima di mezzanotte. Le strade di Treviso sono incredibilmente sudice e ingombre di veicoli e carriaggi. Essendo impossibile trovare alloggio, per la massiccia presenza di profughi, mi sistemo in un locale del Comando di stazione. Sfinito, non faccio tempo a distendermi che m’addormento. Alle 3 mi destano gli aeroplani nemici. Bombe, cannonate, crepitio di mitragliatrici: musica grave e solenne del tutto nuova per me, che mi sbigottisce ma non mi spaventa. Dopo un’oretta tutto tace. Riprendo a dormire con le orecchie che ancora risuonano degli scoppi.

    1 novembre, ore 7. Ha ricominciato a piovere. Mi alzo infreddolito, indolenzito, affamato. Inutile cercare cibo in una città che pare colpita da una pestilenza, con le botteghe chiuse e le porte delle case sbarrate. Al Comando di tappa, dopo infinita attesa, mi si ordina con motivazioni vaghe di andare a Monselice. Raggiungo subito la stazione, zeppa di profughi friulani (donne e bambini in prevalenza) che sonnecchiano sconsolati poggiando la testa smagrita sui sacchi sformati. Il treno è pronto, ma, a rischio di perderlo, me ne allontano in cerca di qualcosa da mangiare. L’impresa sarebbe destinata a sicuro insuccesso se non incontrassi una buona donnona che, assieme a un profluvio di frasi materne («Te pari un putelo!»), mi offre un bicchiere di vino e un poco di pane scuro. Poi una corsa a perdifiato mi riporta in stazione: il treno fortunatamente è ancora al suo posto. E vi resta in realtà un’altra ora buona, poiché non si muove prima delle 21.

    Arriviamo a Padova all’una di notte del 2 novembre. Saputo che il treno sosterà in stazione almeno dodici ore, scendo alla ricerca di un alloggio per dormire. La città mostra dappertutto segni di disfacimento: edifici e ponti distrutti, gruppi di militi sbandati, profughi dagli sguardi spauriti. La visione è talmente desolante da indurmi a tornare al treno. Qui entro in uno scompartimento di prima classe, faccio scendere alcuni soldati che poltrivano beati e mi sdraio a tutto mio bell’agio. Per la prima volta dacché sono partito da Genova, mi tolgo le scarpe. Dimentico di tutto, quasi felice per un attimo, m’addormento.

    Il treno riparte verso le 16 e arriva a Monselice alle 18. Ci accolgono le consuete strade straripanti di soldati, di profughi in cenci, di carri carichi di materiale bellico salvato durante la ritirata. E mentre tutta questa gente trova riparo dal freddo cacciandosi in ogni buco possibile (sotto i portici, nei cortili, nelle stalle, negli androni delle case…), noi ufficiali otteniamo un alloggio fantastico nella villa del conte Nani Mocenigo. Il palazzo è davvero superbo. Entrando, attraversiamo un portale sul quale è incisa una scritta latina, Emeritam hic suspende togam, che non potrebbe essere meno adatta alla nostra condizione!⁵ Il mio letto è magnifico e mi ci sdraio con voluttà, dormendo dalle 20 fino alle 10 del giorno successivo.

    Alle 18 riparto per Este, dove arrivo dopo circa un’ora. La città, probabilmente splendida in tempo di pace, ora, affollatissima dalla solita fauna di poveracci e soldati sbrindellati, mette soprattutto tristezza; e nessuno fa il minimo caso ai suoi bei palazzi porticati né ai magnifici orologi che ne ornano le torri. Nonostante la confusione, trovo in quattro e quattr’otto da mangiare e dormire: si vede che sto assuefacendomi a questa vita stranissima.

    La mattina del 4 novembre mi presento al Comando di presidio. Anche qui risposte vaghe e facce stralunate. Espressioni cui non posso evitare di adeguarmi quando mi comunicano che dovrò partire per Arquà Petrarca con una colonna di sbandati.

    ⁵ Tratta dai Carmina di Claudio Claudiano (IV-V sec. d.C.), indica come, entrando nella villa, si debbano abbandonare l’abito ufficiale e le armi

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