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Ferrara. La città nel cuore
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Ferrara. La città nel cuore

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«Questo libro vuole essere un omaggio a Ferrara, la mia città natale. Una città che ho sempre amato, ricca di luoghi che hanno dato senso alla mia vita. Una città magica, con le sue particolarità, le sue luci e i suoi profumi. Ferrara, più che città, l’ho sempre sentita come la casa, con le sue gioie, le sue sofferenze, le sue grandezze e le sue miserie. Una casa da amare, sempre, che non si riesce a dimenticare anche quando si è lontani e che ritornando, dopo un certo tempo, sa emozionarti, riempirti di gioia: perché sai di essere tornato a casa. Una casa che ben conosci e dove ogni luogo ha un ricordo o, meglio, momenti di vissuto che tornano a distanza di anni e te ne propongono di nuovi, sempre vivi e intensi». (Don S.V.)
LanguageItaliano
Release dateMar 10, 2020
ISBN9788835383598
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    Ferrara. La città nel cuore - Sergio Vincenzi

    DIGITALI

    Intro

    «Questo libro vuole essere un omaggio a Ferrara, la mia città natale. Una città che ho sempre amato, ricca di luoghi che hanno dato senso alla mia vita. Una città magica, con le sue particolarità, le sue luci e i suoi profumi. Ferrara, più che città, l’ho sempre sentita come la casa, con le sue gioie, le sue sofferenze, le sue grandezze e le sue miserie. Una casa da amare, sempre, che non si riesce a dimenticare anche quando si è lontani e che ritornando, dopo un certo tempo, sa emozionarti, riempirti di gioia: perché sai di essere tornato a casa. Una casa che ben conosci e dove ogni luogo ha un ricordo o, meglio, momenti di vissuto che tornano a distanza di anni e te ne propongono di nuovi, sempre vivi e intensi». (Don S.V.)

    PRESENTAZIONE

    Questo viaggio della memoria (e del cuore), compiuto da don Sergio tra i luoghi e le persone della sua Ferrara, per accarezzarne, se così si può dire, di lontano il volto antico e amato, conosce e trascrive di volta in volta, ma più spesso fusi e confusi nella stessa pagina, il sorriso e la malinconia; l’ilarità un po’ scanzonata dei compagni e dei giochi infantili, che s’incrina, nell’adulto, di fuggevoli palinodie e, più ancora, di inteneriti rimpianti. Senza, per altro, che il pathos dei ricordi, contenuto com’è nei sobri limiti di un’evocazione un po’ complice ma nel contempo disincantata, sfoci in accorate geremiadi da laudator temporis acti ; e senza, per contro, che l’amabile vena del diffuso umorismo, insaporita dal frequente ricorso a battute dialettali, corra il rischio di privilegiare, in qualche modo, la realistica comicità di determinati episodi o situazioni o figure a scapito della pietas umana e cristiana che anima, con discreta ma non meno convincente misura, tante altre pagine dell’arguto libretto.

    Luoghi e persone, vie e piazze e volti degli amici d’un tempo, ricostruiti e come riplasmati nel crogiuolo della memoria, costituiscono, per don Sergio, un universo, concluso in un breve orizzonte ma dilatato dall’eco di un superstite affetto, in cui si muove, ora svagata e ora pensosa, la scrittura di questo prete dal tratto ruvido e generoso. Quei luoghi, quelle vie e quelle piazze, viste e in certo modo ridisegnate con gli occhi di un tempo, sono come percorse da una fresca e impetuosa folata di vento giovanile, da una disinibita scorribanda di allegri monelli, inclini allo scherzo talora pungente ma non mai velenoso; e i loro nomi, e i soprannomi, e le loro gesta, più o meno ardite o riprovevoli, sono evocate con umana e partecipe simpatia, che anche il nostro don Sergio era, da ragazzo, del bel numero uno.

    Ma in quelle gesta infantili, da quelle straripanti e chiassose scorribande per vie e piazze corse e ricorse più volte, affiora anche un’esperienza di sofferta povertà, non disgiunta da un senso di dignitosa fierezza; si intravede un’ansia di redenzione sociale, un bisogno di elevarsi spiritualmente e, soprattutto, un’immacolata capacità di sognare a occhi aperti.

    Di fatto, il passare innanzi, con bramose pupille, alle vetrine rigurgitanti di ogni ben di Dio; l’assaporare in fantasia vietate prelibatezze; l’arrampicarsi a predare altrui alberi da frutto (che ci richiama il notissimo episodio del furto di pere evocato, nelle Confessioni, da sant’Agostino); il fare incetta di palline colorate; il giocare con un pallone rattoppato e malconcio: son tutti elementi che denunciano, nelle pagine di don Sergio, una condizione sociale ai limiti della povertà (di un povertà però - e in questo è la grandezza degli umili - non sentita come un peso o una vergogna), ma ci dicono anche come in fondo bastasse ben poco a quella scapestrata banda di innocenti teppisti per viver contenti, a tutto ponendo rimedio e a tutto dando luce e sorriso il dono, divino, della giovinezza e dell’amicizia. Nell’inquieta opulenza della società attuale, l’amicizia è un sentimento quasi anacronistico, soffocato com’è dagli interessi e dagli egoismi individuali; e i bambini non giocano più, non solo nelle città ma anche nei piccoli paesi, o, se giocano, giocano per lo più da soli, raramente giocano insieme: segno - anche questo, o conseguenza? - di un diffuso malessere spirituale, di una lacerazione prodottasi nel tessuto del vivere odierno.

    Come anche nella più emarginata e degradata umanità, qual è quella che gremisce l’alveare di via Mortara, la pietas di don Sergio avverte il fondo di una insospettata genuinità e generosità di sentire, così nella scoperta (o riscoperta) di antichi e casalinghi profumi, qual è quello della mistuchìna di vicolo Cornuda, è valorizzato, a riscontro di una luccicante ma spesso vuota e disumana modernità, il sapere autentico della vita, che è fatto appunto di cose semplici e insieme profonde. Questo è il messaggio che don Sergio consegna alla pagina conclusiva di questa sua archeologia del cuore, e ne è anche, forse, la più valida chiave interpretativa.

    Mario Rolfini

    INTRODUZIONE

    Nel vicolo stretto, ricoperto di sassi tondi che sembravano palline giganti, riesco a vedere i muri della piccola abitazione di quella che era stata la mia casa e anche la finestra, vero telescopio delle mie osservazioni.

    Seduto su una sedia di paglia bicolore, all’interno di una stanza un po’ fredda d’inverno, trascorrevo gran parte di tempo delle giornate di quella età quando non si poteva uscire per strada o comunque non si aveva il senso dell’orientamento per districarsi tra i viottoli della città vecchia. I genitori andavano al lavoro e una tata faceva del suo meglio per guardare a turno i bambini del palazzo. Mi facevano buona compagnia alcuni giocattoli ricevuti a Natale o per la Befana. Compagni senza parola e senz’anima, ma ugualmente determinanti e insostituibili.

    La trottola: che, a forza di premere, sentivo il braccio come pervaso dalla corrente elettrica. Alcune macchinine, che

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