Il tradimento della volpe
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Il tradimento della volpe - Giuseppe Massimo Careddu
Personaggi:
Aristèo Atzèri: maresciallo dei Carabinieri
Guendalina Atzèri: moglie del maresciallo.
Flavio Ferrati: carabiniere di leva.
Trevisàn: carabiniere semplice e piantone.
Cabras: appuntato carabiniere.
Argiòlas: vicebrigadiere dei Carabinieri.
Mannu: brigadiere del nucleo scientifico.
Vacca: brigadiere dei Carabinieri
Lai: capitàno dei Carabinieri.
Piras: comandante del nucleo d’intervento.
Maròngiu: brigadiere dei Carabinieri.
Onnis: appuntato carabiniere.
Pasquino: vicebrigadiere dei Carabinieri.
Gavìno Muras: ragazzo diciassettenne.
Paolo Muras: marito di Amèlia Scanu.
Amèlia Scanu: moglie di Paolo Muras.
Lorenzo Donòri: domestico e sorvegliante campestre di casa Muras.
Eleonora Nulbi: fidanzata di Gavìno.
Nicolò Nulbi: padre di Eleonora e marito di Maria Nulbi.
Maria Nulbi: maestra di scuola, moglie di Nicolò Nulbi e madre di Eleonora.
Agostino Barròsu: l’ubriacone del villaggio.
Leonardo e Giovanni Bolcu, cugini: sorveglianti campestri.
Gaetano e Stefano Porru, fratelli: ladri di bestiame.
Salvatore Ozieri: parroco della chiesa di La Cunchedda.
Giuseppe Ozieri: fratello del parroco, marito di Maddalena.
Maddalena Ozieri: moglie di Giuseppe Ozieri.
Miranda: la perpetua di don Salvatore Ozieri.
Amos e Loris Ozieri: ragazzi diciassettenni.
Caterina: moglie di Amos Ozieri.
Signora Colài: dottoressa.
Dorìna Sarcòsu: ostetrica.
Olìndo Delòru: zio del marito di Dorìna Sarcòsu.
Adriana Cuglièri: vicina di casa dell’ostetrica (del piano di sopra).
Boèle Ghilàrzas: sacrestano.
Adelina Ghilàrzas: moglie del sacrestano.
Senza nome: il cuoco del porcetto.
Il tradimento della volpe.
La spuma delle onde, quasi fluorescente alla luce della luna, mordeva la battigia.
L’uomo intento a remare teneva lo sguardo fisso sulla striscia di sabbia chiara, come a voler raggiungere la terraferma con la forza della mente, prima che con quella delle braccia.
I suoi due compari, accovacciati nel canotto, non avrebbero potuto dargli torto: con quella maretta, bisognava metterci energia e concentrazione per guadagnare la costa, sebbene il vento soffiasse dal mare.
Costoro avrebbero anche potuto aiutare il rematore, se non fosse stato per il fatto che, poco più tardi, avrebbero avuto bisogno di tutte le loro forze.
Così, mentre il più esperto nel remare fissava la spiaggia, gli altri due osservavano la casa bianca che s’intuiva, quasi spettrale, fra i cespugli di mirto, gli alti arbuti* e i pini marittimi.
( * Piante di corbezzoli.)
Alle loro spalle sopraggiungevano grosse nubi nere, i primi tuoni cominciavano a brontolare in lontananza, così che i tre uomini non udirono i rintocchi della campana del villaggio, battente le ore due di quella notte che, per molti, sarebbe diventata una notte fatidica.
I due cani dormivano a denti stretti.
Si era annunciata tempesta per il mattino presto, così che i loro padroni li avevano tenuti in casa.
Forse a causa del vento che si faceva sempre più potente, soffiando la sabbia sui vetri e facendo stormire gli alberi e i cespugli del giardino, forse per colpa dell’odore salmastro e putrescente, che affluiva dagli scogli e si mesceva con quello dei fiori di mirto e dei pini marittimi, le bestie non udirono e non sentirono arrivare gli intrusi.
Quando poi i tuoni cominciarono a farsi udire, Reagan e Gorbatchov furono d’un tratto desti e, di animo fiero ma non temerario, con la coda fra le gambe, corsero a rifugiarsi in un angolo della tavernetta, situata nel sottosuolo.
Fu così che non colsero la presenza dei tre uomini, nemmeno quando questi ebbero scavalcato il muretto di recinzione e forzato la serratura.
Lorenzo si accorse di essere sveglio.
La cosa lo stupì, poiché gli accadeva raramente di svegliarsi in piena notte.
Certamente, alla sua età non aveva bisogno di molte ore di sonno per ritemprarsi, ma il suo lavoro di domestico nella casa della famiglia Muras, come pure quello di sorvegliante campestre, lo impegnava intensamente, così che, solitamente, si coricava alla sera tardi e si svegliava al mattino presto, riposato, ma con la sensazione di avere dormito solamente per pochi minuti.
Si appoggiò su un gomito, per guardare fuori dalla finestrella che si apriva accanto al letto: le piante del giardino si agitavano in un frusciare selvaggio, avvolte in una nuvola di polvere che ticchettava sul vetro, insieme alle foglie rinsecchite.
Era forse stato il vento a svegliarlo?
Poteva essere così, eppure provava una sensazione sgradevole, come se l’istinto stesse cercando di metterlo in allarme…ma senza suggerirgli chiaramente da dove venisse il pericolo.
Aveva forse udito un rumore sospetto?
D’altro canto, se fosse accaduto qualcosa d’insolito, i cani avrebbero fatto il diavolo a quattro…
Di malavoglia, si alzò dal letto e si diresse verso la porta della stanza, tendendo le orecchie, malgrado sapesse che non era stato il suo udito di ultra-cinquantenne a metterlo in allarme, bensì una specie di premonizione, forse suggerita da un sesto senso.
Con cautela si azzardò ad aprire la porta e a scrutare il corridoio.
Sui muri, di tanto in tanto rischiarati dai lampi del temporale, ombre di rami e fronde si agitavano minacciose.
Ancora assonnato, non fece attenzione ad un ombra che rimaneva stranamente immobile, sporse il capo e, proprio mentre l’intuito gli faceva percepire una presenza, sentì una botta dolorosa sul lato del cranio, prima di accasciarsi fra le sconosciute ma provvidenziali braccia di uno straniero.
Lorenzo ebbe appena il tempo di sentire l’odore sgradevole della persona che lo tirava all’interno della stanza, poi si sciolse in un mare di pece.
Nella sua mente, la coscienza fluiva e rifluiva fra l’irrealtà ed il nulla, come le ondate che là fuori si allungavano sempre di più verso la casa.
Si accorse di essere rannicchiato, con le mani dietro la schiena e la fronte posata sui ginocchi.
Aveva la sensazione di essere seduto dentro ad una giara lasciata in piena tempesta: attraverso le pareti sentiva la mitraglia della grandine, udiva il muggito del vento, talvolta sovrastato da deflagrazioni spaventose.
L’avevano forse rinchiuso in un recipiente, per poi abbandonarlo all’uragano, come un’offerta umana agli dei della tempesta?
Qualcuno l’avrebbe forse scoperto secoli più avanti, come una mummia precolombiana o minoica, rinchiusa in un vaso di terracotta?
O forse era già morto?
Una fitta lancinante alla testa gli suggerì che lui dovesse essere ancóra vivo, ma la cosa peggiore, rispetto a quel dolore, era la sensazione di avere qualcosa incollato sulla bocca…forse uno straccio, che, annodato dietro al collo, gli comprimeva il volto e quasi gl’impediva di respirare.
Aprì gli occhi, ma la luna era scomparsa e tutto era avvolto nel buio.
Di tanto in tanto, altri lampi inquietanti rivelavano fugacemente i dettagli di una stanza, forse la sua, o forse quella vista in un sogno.
Man mano che la mente diventava lucida, con sgomento ed orrore capì di avere i polsi e le caviglie legate. La cosa si presentava veramente male.
Purché non facessero del male ai suoi padroni!!
A quel pensiero, cominciò ad agitarsi.
Fatica sprecata: era legato alle sbarre della testiera del letto.
Cercò di gridare, ma riuscì soltanto ad emettere un mugolìo che si perse nel fragore della recrudescente tempesta.
Paolo Muras stava nuovamente facendo quel brutto sogno.
Questo si ripeteva ogni volta uguale: un ciclone scuro come il piombo si avvicinava al suo caseificio e, in un fragore immane, distruggeva ogni cosa.
Lui rimaneva impotente a guardare i detriti che, avvolti nella polvere come i pezzi di un giocattolo, s’innalzavano al cielo e scomparivano nel vortice oscuro che poco a poco si allontanava, lasciando soltanto terra rasa dietro di sé.
Con sgomento, Paolo fissava quel vuoto, fino a che il solito pensiero gli attraversava la mente: Dov’è Gavìno?
Si svegliò di soprassalto e si ritrovò seduto sul letto.
Amèlia dormiva, ignara: evidentemente aveva ancóra preso un sonnifero.
Mentre cercava, a tentoni, l’interruttore della lamapada posata sul comodino, Paolo capì la causa di quel sogno appena svanito: dal piano di sotto giungeva un muggito ed un continuo sbattere, insieme ad un crepitìo, un frusciare di fogliame…
- Ah, già: la tempesta! -
Provò ad accendere la luce, ma, ovviamente, non c’era corrente.
- Mamma ’e su chélu, sarà caduto qualche palo della luce…! - esclamò il padrone di casa, infilando al tatto le pantofole e cercando a tentoni l’uscio.
Quando si prese in pieno muso lo spigolo della porta, insolitamente socchiusa, si rassegnò a fare la cosa più logica: fece mezzo giro, brancolò fino al comodino e si mise a rovistare nel cassetto, alla ricerca della torcia elettrica.
La sua mente passò in rassegna le forme che le sue dita tastavano freneticamente: pile di ricambio, coltellino, candela…bigodini?!!...Pastiglie alla menta…torcia elettrica!!
Rincuorato da quel piccolo successo, uscì sul ballatoio, illuminò in basso e subitamente il suo ottimismo svanì: un fascio di luce rivelò un marasma di acqua e foglie che vorticavano al piano di sotto.
- Ma non l’avevo chiusa la porta?! -
Sconcertato, scese le scale, risoluto ad affrontare la tempesta e a chiudere la porta che, evidentemente, lui aveva dimenticato di chiudere…o che qualcuno aveva aperto.
Era possibile che Lorenzo o Gavìno fossero usciti con un tempo del genere?
Forse per andare a controllare il bestiame?
Ma perché avrebbero lasciato la porta aperta?!
Ancóra non aveva sceso gli ultimi gradini, che già si sentì aggredire dal vento e dalla pioggia.
E meno male che la tempesta arrivava dal mare, sferzando soprattutto l’altro lato della casa!
La spuntò contro la forza del vento, ma proprio quando credeva di essere riuscito nel suo intento, rimase indispettito nel sentire la porta che sbatteva a vuoto e si riapriva.
- …itte tène cussa malaìtta janna, chi nemmàncu si podi serrari!! -
Illuminò la serratura e rimase allibito nel vedere ch’era stata forzata.
Un ronzìo nelle orecchie ed un brivido lungo la schiena l’obbligarono a prendere atto di ciò che la sua mente rifiutava di credere: qualcuno era entrato in casa.
Si voltò di scatto e puntò la torcia verso il corridoio, convinto di trovarsi naso a naso con degli intrusi, ma il fascio di luce illuminò solamente il suo riflesso sul vetro della porta a finestra, che si apriva sul cortile posteriore.
Eppure, qualcosa d’insolito attirò la sua attenzione: sul piastrellato in cotto, laddove l’acqua della tempesta non era arrivata, s’intuivano delle strane macchie…
Riconobbe delle tracce sabbiose…tracce di passi, proprio davanti alla porta della camera di suo figlio Gavìno e davanti a quella del domestico.
Le osservò da vicino: erano confuse, ma sembravano di dimensioni diverse…
Fu in quel momento che si sentì veramente invadere dall’angoscia e dalla paura.
Aprì la porta della camera di suo figlio, puntò la torcia tutt’intorno,
ma non vide anima viva.
Il letto era sconsolatamente vuoto.
Mentre un terribile sospetto cominciava ad insinuarsi nella sua mente, si precipitò verso la porta della camera del domestico, la spalancò e quasi si sentì svenire nel vedere Lorenzo seduto sul letto, legato ed imbavagliato, che socchiudeva gli occhi, abbagliati dalla luce della torcia.
Il maresciallo Aristèo Atzèri era sveglio già da due ore.
Un vero carabiniere dorme sempre con un occhio aperto.
- soleva dire.
Ma lui, in quel momento, aveva entrambi gli occhi spalancati, perché, ad ogni modo, la luce azzurrognola dei fulmini lampeggiava nella stanza, malgrado che le imposte delle finestre fossero chiuse.
I lampi erano così forti che li si poteva vedere anche con le palpebre abbassate.
E poi, come riuscire a dormire, allorché sembrava di essere sotto ai bombardamenti?
Sua moglie, Guendalina, si era girata sul fianco ed aveva messo la testa sotto al cuscino, dandogli le spalle.
Sembrava che dormisse…beata lei!!
D’un tratto, attraverso le imposte entrò il lampeggiare di una luce blu, troppo regolare per essere quella dei fulmini.
Hoh!! Chi est…sa festa de Santu Pàulu?!
- pensò il milite.
No, doveva essere il lampeggiatore di una Gazzella
.
Schizzò giù dal letto imprecando e cominciò a vestirsi come per andare a caccia, al buio, perché, ovviamente, ogni volta che c’era tempesta non c’era corrente elettrica.
Infilò l’impermeabile mimetico, s’incappucciò ed aprì la porta.
Immediatamente ebbe la sensazione di essere in una lavatrice in piena centrifugazione.
- Diàvulu de ventu, aragànu e burrasca!!! -
Mentre il fragore della tempesta portava via le sue parole, tanto ch’egli stesso aveva creduto di averle solamente pensate, attraverso gli scrosci d’acqua riconobbe la sagoma di una Campagnola
, in attesa davanti al cancello.
Il tempo di correre ad infilarsi nel veicolo, il maresciallo era già fradicio, malgrado la giacca impermeabile.
Al volante lo attendeva l’appuntato Cabras, con la sua solita aria assente e rassegnata: dieci anni di matrimonio, tre figlie e dodici anni di servizio nell’Arma, durante i quali era stato confrontato ai crimini più efferati, sembravano avergli tolto ogni volontà.
In quel momento, sembrava essere rassegnato alla propria impotenza di fronte alla tempesta, così come si era rassegnato a subire la vita.
Per un attimo, Atzèri pensò che costui sarebbe rimasto lì, allocchito, a fissare gli scrosci d’acqua che aggredivano il vetro della camionetta, fino a che fosse sorto il giorno e fino a che la tempesta si fosse calmata.
Forse, fino alla fine dei tempi, nei secoli dei secoli, amen!
- Ecché, dobbiamo andare in montagna?! - disse il maresciallo, tanto per cercare di suscitare una minima scintilla di vita nel milite seduto accanto.
- Itte? - rispose l’appuntato, sempre fisso, che pareva si fosse addormentato con gli occhi aperti.
- Dicevo: con la Campagnola
, dobbiamo andare in montagna?! -
- Giòsso, sa istrada est unu lagu: trinta centimetros de abba. -
- Embé? Ajò, se sei venuto a prendermi, andiamo, no?! -
Di malavoglia, l’autista mise in moto e partì, cercando la strada in quel lago torbido, un po’ a memoria, un po’ guardando i paletti, laddove c’erano, ai lati della strada.
- Ma che è successo? - domandò il maresciallo.
- C’è burrasca, mi. -
- Si, questo lo vedo anch’io, ma dico: perché sei venuto a