Mosè e la sfera di cristallo: Romanzo
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Mosè e la sfera di cristallo - Bianca Fasano
Mosè e la sfera di cristallo
Il ritrovamento
Via Roma, Napoli. Una bella casa antica, grande, con mura altissime e tante stanze. Ci ritornavo per chiuderla e, a questo scopo, mi toccava anche decidere cosa avrei potuto salvare, regalare, lasciare.
I miei genitori ci erano vissuti molto a lungo, praticamente una vita, sempre insieme e, come Filemone e Bauci [1] , chiedevano soltanto di potere chiudere gli occhi assieme, per non restare l’uno privo dell’altro. In realtà erano stati accontentati. Mio padre, Guglielmo, era morto pochi giorni dopo la mamma, avendola curata fino alla fine.
Una vita serena la loro. Lui, medico di base, era stato un buon clinico, amato da suoi pazienti e mia madre, Barbara, ci aveva cresciuti, come si faceva un tempo, dedicando la vita a noi ragazzi. In verità eravamo tre figlie, di cui due nate gemelle ed io ero stata la più piccola.
Dunque: una bella casa, laddove ciascuna di noi era cresciuta in mezzo alla cultura e alla tranquillità e da dove ognuna di noi si era poi allontanata per la sua strada. Io, dopo il matrimonio con il mio Ludovico, mi ero trasferita in un’altra città, pur essendo restata ospite dei miei nella loro casa per oltre quattro anni.
Le mie sorelle si erano spostate prima. Per gli studi e poi per lavoro. Però i miei genitori avevano conservato intatte le stanze che avevamo occupato prima di crearci una vita nostra.
Li avevamo presi in giro per questa loro dedizione al passato, però, dovevo ammetterlo, la cosa ci aveva fatto sempre piacere: ogni volta che una di noi, per qualche motivo, rientrava a Napoli, poteva essere certa di trovare accoglienza, sia che fossimo sole, sia, più tardi, che portassimo con noi il marito e i figli.
Ecco perché, dopo avere perduto i genitori, avevamo trovato davvero difficile chiudere la casa in cui si trovavano, non soltanto arredamento e ricordi, ma anche una grande quantità di materiale di tutti i tipi, appartenenti alla nostra giovinezza.
Com’era silenziosa quella casa, adesso e com’era strano, se paragonata al frastuono allegro di noi ragazze e persino dei cani, degli uccelli, della musica che vi aleggiava sempre, della voce di mia madre che ci richiamava per il pranzo o per la cena e di mio padre, che qualche volta riceveva nel suo studio privato, fosse soltanto per amici o parenti.
Una voce roboante, dai toni caldi, che sembrava passare le pareti quando ci cercava al piano superiore, ponendosi alla base della grande scala con cui vi si accedeva.
La più terribile di casa, lo ammetto, ero io. Non avevo le idee troppo chiare su cosa desiderassi fare della mia vita, per cui, mentre da un lato suonavo il pianoforte, seguivo lezioni di canto.
Mi era stata diagnosticata
quelle che si definisce una voce da contralto; in pratica sembravo più un maschio, quando cantavo, che una femmina, forse avevo preso il timbro di mio padre.
Fatto sta che sognavo di interpretare un personaggio alla Rossini, come in Cenerentola, o come la Rosina
del Barbiere di Siviglia. Non avrei disdegnato un ruolo alla Giuseppe Verdi come quello, spettacolare, della zingara Azucena del Trovatore. Sognavo.
Intanto studiavo, anch’io per divenire medico e mi divertivo a scrivere per qualche giornaletto, continuando l’abitudine nata al liceo classico.
Tuttavia i miei sogni di gloria artistica si erano del tutto sopiti quando incontrai Ludovico. Un architetto chiamato da mio padre per dare una botta di vita
alla casa, così come si era espresso.
Svecchiarla, insomma, visto che era restata uguale a se stessa da troppo. Neanche se ne fece niente, però, intanto, io avevo conosciuto proprio quell’architetto e, dopo una serie non indifferente di storie andate a male, mi ero innamorata, ricambiata, di quell’uomo bruno, alto più di mio padre (il che non era poco), con delle enormi spalle e una forza tale da sollevarmi (tra l’altro sono sempre stata minuta), dal suolo, per scherzo, quando s’irritava con me.
Fu allora, da fidanzati, che acquistammo il cane più deleterio e simpatico del mondo: Mosè.
Si trattava di un alano tedesco arlecchino, con gli occhi azzurri e, da piccolo, c’incantò. I primi mesi di matrimonio io (ho dimenticato di dirvi che mi chiamo Lucia), Ludovico e Mosè, ci stabilimmo in una comoda stanza in casa dei miei. Lo trattammo come fosse stato il nostro primo figlio ed approfittammo del fatto di possedere un’enorme terrazza (quasi un giardino, gremito di piante), perché in questo modo al cucciolo non mancasse aria e luce.
Intanto, mentre finivo di specializzarmi in otorino, mio marito si dava da fare a progettare il progettabile, cercando lavoro per interni ed esterni.
Sapevamo che avremmo dovuto decidere in tempi brevi di spostarci altrove, anche se i miei genitori sostenevano che avrebbero potuto tenerci con loro
, in quanto la casa era davvero enorme e non avrebbero voluto restare soli.
Mosè, malgrado i grandi spazi, ne combinava di tutti i colori.
Bastava che dimostrasse la sua felicità agitando la coda, per fare distruzioni di ogni sorta sulle porcellane (furono poste tutte in alto), le argenterie (qualcuna finì praticamente al macero), i letti coperti dalle sovraccoperte ricamate (meglio non dire come le riduceva), per cui ben presto si misero da parte tutte le cose che avrebbero potuto interessarlo, compreso i piedi delle sedie antiche (per lui erano ossi), ed ogni oggetto che avrebbe potuto raggiungere con il muso (era divenuto in breve un gigante, con nostra grande soddisfazione).
Mosè era vissuto a lungo con noi, divenendo, in seguito, il cavalluccio preferito del nostro primogenito e quindi anche del secondo e del terzo (nati quasi in successione), ovviamente cambiando con noi residenza, dopo che c’eravamo trasferiti prima a Roma e poi (per esigenza di Ludovico, che