1866: La Grande Truffa - Il Plebiscito di annessione del Veneto all'Italia
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1866 - Ettore Beggiato
Ettore Beggiato
1866: la grande truffa Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia
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Indice dei contenuti
Dedica
Prefazione
Postfazione
Introduzione
Ringraziamenti
La Questione veneta
e il fatal 1866
Quadro storico generale
19 ottobre 1866, la grande truffa
21 e 22 ottobre 1866, al voto quando tutto è già stato deciso
… E arrivarono i liberatori
Il secolo dei plebisciti
Documenti
Bibliografia
L'autore
Fine
Dedica
In ricordo di
Tony e Agostino Alba,
Patrioti Veneti
Prefazione
di Sabino Acquaviva
Un libro importante, culturalmente e politicamente. Ci parla della nostra storia, di quanto è accaduto quando il Veneto è stato annesso all’Italia. Ci narra quel che è veramente successo, oltre ogni descrizione oleografica, falsa e falsata per motivi politici. Noi tutti sappiamo che l’unificazione del paese è stata più imposta che voluta. Che è arrivata sulla punta delle baionette dell’esercito piemontese, che molti plebisciti sono stati manipolati, che nel 1848 la maggioranza dei veneti si è battuta contro l’Austria in nome di San Marco; che addirittura, dopo la vittoria di Lissa, sulle navi austroungariche, dove quadri e marinai erano in gran parte veneti istriani e dalmati e quindi provenivano da territori appartenuti alla repubblica di Venezia, si gridò Viva San Marco
. Sappiamo anche, purtroppo che una ricostruzione di parte della storia è stata poi travisata nei libri di scuola ed è stata imposta alle nuove generazioni.
Oggi, dopo oltre un secolo e mezzo, è nostro dovere ricostruire la storia della regione in cui viviamo o siamo nati. Qualcuno ha detto che nella storia, se le radici sono nel passato, se il presente è il tronco dell’albero, il futuro è nelle sue foglie. Pensare il futuro del Veneto, anzi del Triveneto, significa dunque e anzitutto esplorarne le radici, lontane e più recenti. Questa regione, contrariamente ad altre, possiede una sua lingua, che è stata lingua franca e internazionale per secoli, almeno nel Mediterraneo orientale. È l’unico dialetto-lingua parlato fuori d’Italia in regioni abbastanza vaste e in Stati diversi. Dunque si tratta di un popolo con una forte identità, e fa bene Beggiato a cercare di capire, nel suo libro, perché questo popolo ad un certo punto ha abdicato e alla fine accettato di esserne parte dell’Italia unita. Ma ha accettato o subito l’Unità? A partire dal 1866 il governo centrale ha sistematicamente combattuto, non soltanto nel Veneto ma in ogni regione d’Italia, le identità regionali. Le resistenze sono state modeste, ogni lingua e cultura si è inchinata di fronte al prevalere del toscano, chiamato italiano, insegnato e imposto a scuola, dove chi parlava la sua lingua regionale veniva punito, spesso ridicolizzato.
Naturalmente, alcune lingue che erano state utilizzate nell’ambito di stati regionali hanno resistito meglio e più a lungo al tentativo di cancellarle. Pensiamo al napoletano, al siciliano, al veneto. Comunque è un fatto che molti popoli nello spazio di un secolo hanno dimenticato la loro identità, la loro lingua, la loro cultura, anche perchè hanno cancellato dalla memoria la propria storia. Questo è successo, almeno in parte, anche nel Triveneto. E non parliamo di Nordest, per favore, non utilizziamo questo neologismo povero e incolore!
È giunto il momento di riacquistare la memoria. A questo scopo dobbiamo fare un paziente lavoro di certosini, riscrivere la storia, reintrodurre, affinchè non muoia, l’insegnamento della lingua veneta, dopo avere approntato delle grammatiche standardizzate e pubblicato dei vocabolari. Ma tutto questo, ripeto, deve accompagnarsi ad una riscoperta della storia, ed è appunto quanto fa, in queste pagine Ettore Beggiato.
Questo significa essere contro l’Unità del Paese? Certamente no. Per quel che mi riguarda sono federalista ma anche europeista convinto. Dunque, Stati Uniti d’Europa, una seconda camera delle regioni i cui rappresentanti siano eletti direttamente dalle regioni d’Europa, l’insegnamento obbligatorio dell’inglese in tutta l’Unione europea e delle lingue regionali nelle regioni che ne posseggono una.
Per l’Italia anche una struttura federale degna di questo nome.
Padova, ottobre 1999
Sabino Acquaviva, sociologo, Preside della facoltà di Scienze Politiche all’Università di Padova, nato a Padova il 29 aprile 1927, deceduto il 30/12/2015
Postfazione
di Lorenzo Del Boca
I 150 anni della cosiddetta unità d’Italia avrebbero voluto celebrarli in pompa magna: quelli che hanno portato all’annessione di Venezia meglio lasciarli passare sotto silenzio.
Non per caso né per distrazione.
A enfatizzare il tempo fra il 1861 e il 2011 erano stati, soprattutto, i compagni
più convinti. E, francamente, era sembrato paradossale. Avevano consumato gli anni della giovinezza e della maturità per inneggiare all’internazionalismo proletario e a sognare l’egemonia dell’Unione Sovietica. Il nazionalismo andava bandito dal vocabolario e avversato sul piano culturale come una variazione - nemmeno troppo sofisticata - del fascismo. Quale tricolore? Si poteva fare benissimo a meno del bianco e del verde perché quello che contava per davvero era il rosso.
Con una conversione a 180 gradi, anche i critici più convinti di patria e terminologie affini si sono scoperti partigiani dello stato unitario, frutto delle guerre d’indipendenza nazionale.
Avrebbero voluto trascinarsi dietro le decine di milioni di italiani per glorificare in modo solenne l’anniversario. Mezzo anniversario, per la verità. Perché volevano celebrare l’Italia unita che, nel 1861, era solo mezza. Mancavano Lazio, Veneto, Friuli, Trentino, un pezzo di Lombardia (perché Mantova era ancora austro-ungarica). Dunque: senza Venezia e senza Roma.
Ci hanno messo anche un bel po’ di quattrini per convegni, studi e ricerche. Peccato che tutto l’armamentario accademico non ha approfondito nulla e, gettando al vento un’opportunità probabilmente unica, ha rinunciato a fare chiarezza su quella quindicina d’anni che hanno generato l’Italia. La retorica l’ha fatta da padrona, senza un briciolo di critica e di auto-critica. La narrazione è risultata una melassa indigeribile di esagerazioni buoniste e di autentici luoghi comuni.
I cittadini hanno guardato distrattamente tutto questo sforzarsi per rendere solenne l’anniversario. Torino, ricordo dell’antica capitale, si è abbastanza imbandierata ma le altre città capoluogo di regione sono rimaste abbastanza freddine.
Figurarsi che cosa sarebbe stata una celebrazione analoga per i 150 anni di Venezia italiana. Non ci hanno nemmeno provato.
Cuore e anima delle terre del Piave e dell’Adige hanno un carattere autenticamente autonomo quando non indipendentista. E, se proprio occorre scegliere, meglio Vienna di Roma, più mitteleuropei che italiani.
Dime càn ma non dirme taliàn
.
Significativo che, ancora oggi, sui muri, non è raro trovare scritte del tipo: nonostante 150 anni, ancora veneti
.
Può meravigliarsi solo chi non conosce la storia o la vuole storpiare per compiacere i cantori del regime.
Ettore Beggiato, quel 1866, anno dell’annessione, lo ha indagato, vivisezionandolo a puntino, per ricavare contesti, statistiche, riferimenti e documentazioni. Il quadro che ne deriva spiega e giustifica l’atteggiamento dei veneti di oggi che, magari, non conoscono la storia nel dettaglio ma che, pur inconsapevolmente, sentono
che non gliel’hanno raccontata giusta.
I serenissimi
hanno alle spalle mille anni di autonomia. Come possono accettare il declassamento a regione (periferica) di uno stato?
La cultura veneta ha attraversato le epoche, segnalandosi per la raffinatezza dei suoi protagonisti. Ha amministrato le sue terre con un governo di Dogi e un Senato che, considerati i tempi, poteva passare perfino per democratico. E, sul piano economico, il commercio ha assicurato una prosperità che, talora, poteva assomigliare persino all’opulenza.
Con il Risorgimento tutta quella gente si è ritrovata cittadina di serie B, poco considerata e persino un poco maltrattata. Dovrebbero anche ringraziare Roma e l’Italia?
Da terra ricca che era si è ritrovata a recitare il ruolo della vacca da mungere.
Proprio in quei mesi del 1866, Ruggero Bonghi lo ha scritto senza mezzi termini al senatore Giuseppe Saracco. Iddio che ama gli spensierati ci dava Venezia il cui bilancio, presentando un’entrata di circa 79 milioni e un’uscita di circa 54, ci dava un avanzo di circa 25 milioni
. Una boccata d’ossigeno per le casse strampalate del regno d’Italia che ci ha preso gusto e, a cominciare da allora, ha preso a caricare di tasse Venezia e Veneto per coprire uno dei tanti suoi buchi, sempre e inevitabilmente, più mostruosi.
Che cosa ci sarebbe stato da festeggiare nel 2016, a 150 anni dal 1866?
Che cosa avrebbero dovuto inventarsi i cantori dell’unità nazionale per nascondere i brogli, le truffe, le intimidazioni e gli espropri che hanno accompagnato il passaggio di Venezia e Veneto dall’Austria (felix
) alla Roma (ladrona
)?
Ettore Beggiato è un innamorato della sua terra alla quale dedica appunti, ricerche e approfondimenti che, con rigore accademico, contribuiscono a creare i presupposti di un’altra storia e di una verità differente. Per questo, è apprezzabile il suo lavoro sul 1866. Perché spiega l’Italia di ieri e consente di comprendere l’Italia di oggi.
In quei mesi i cittadini hanno perso il 45 per cento della loro ricchezza. I ragazzi non hanno più potuto andare a scuola perché ai professori, accusati di essere austriacanti
, avevano tolto la licenza all’insegnamento. Generazioni di veneti sono stati condannati a ruscare
fin da bambini per rimediare l’indispensabile per vivere. E, spesso, le fatiche fino alle soglie della morte non erano nemmeno sufficienti.
Poca Italia - i bestiema - andemo via!
Proprio allora, sono state create le condizioni per una diaspora senza precedenti di veneti che hanno popolato terra incolte di Argentina e Brasile per trasformarle in campi di grano e vigneti. In qualche caso, l’emigrazione ha toccato il 70 per cento della popolazione. Non di rado, s’incontrano più veneti nei villaggi d’America da loro fondati che quelli dei paesi dai quali sono