Kelev
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About this ebook
Quando Kelev comincia a camminare accanto a Gesù, non può immaginare che quell’uomo cambierà non soltanto la storia del mondo, ma segnerà anche il suo destino.
Danilo Giordana è nato nel 1965 in Piemonte, dove ha sempre vissuto. Sposato con due figli, lavora nel settore dell’automazione industriale, prima con incarichi tecnici e successivamente in ambito commerciale. Appassionato di lettura ed escursionismo, Kelev è il suo primo racconto.
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Book preview
Kelev - Danilo Giordana
racconto».
I
Si stanno allontanando…
Ma ormai non importa più molto… Forse l’unica cosa che importa è fare un po’ di memoria, prima di finire questo pasto.
II
Per quanto continui a frugare tra i miei ricordi, non riesco proprio a trovare un tempo più felice di quello trascorso durante la mia infanzia. La prima immagine che ricordo di questo mondo è la lingua rosa di mia madre che mi lecca. Da lì in poi, almeno all’inizio, fu tutto un succedersi di cose belle: i miei fratellini e le mie sorelline, i giochi, i salti, le pappe abbondanti. Poi le carezze dei bimbi degli esseri umani, altri giochi e altre corse, sempre più sfrenate, sempre più lontano, sempre alla scoperta di posti nuovi, di nuove ed eccitanti esperienze.
E poi le sere attorno ai fuochi dei bivacchi, in vigile attesa del lancio di bocconi buoni dalle mani degli uomini, uomini che però non avevano più tempo per giocare come quando erano bambini.
Uomini che si guadagnavano la vita con fatica e sudore, spostando le greggi attraverso praterie, inerpicandosi su per colline, o scendendo all’interno di gole scavate nei secoli dai fiumi. Sempre con i sensi all’erta, attenti a cogliere rumori o movimenti che li avvisassero della presenza del lupo, dell’orso, del leone, o del peggiore tra i nemici: dei predoni che si spostavano su due zampe.
Sempre a fare in modo, fianco a fianco ai nostri padri, che neanche una pecora andasse perduta.
Giorno dopo giorno sentivo i muscoli del mio corpo diventare sempre più forti e scattanti. Ricordo ancora il giorno in cui per la prima volta, nell’inseguire un gruppo di bambini che schiamazzavano come rondini, non ho più dovuto aggirare il muretto di pietra che delimitava l’ovile accanto alla fattoria grande.
I bambini erano usciti di corsa dall’ovile, attraversando il cancello principale e correndo verso lo spazio aperto mi avevano chiamato, sfidandomi ad acchiapparli. Ridendo avevano richiuso dietro di loro il cancello di legno, per costringermi a uscire dall’altra porta, sperando così di avere il tempo di raggiungere il torrente e tuffarsi nell’acqua cristallina prima di me.
Era stato un gesto di puro istinto, li rincorrevo felice a perdifiato, un attimo prima avevo il muro di pietra davanti a me, e un attimo dopo ero in aria, il corpo disteso nello sforzo del salto, mente il muretto stava passando sotto di me.
Le zampe avevano fatto da sole quello che la mente non aveva neanche osato immaginare. Ero atterrato dall’altra parte, ed ero così stupito che mi voltai a guardare il muretto, dimenticandomi dei bimbi.
«Mamma, mamma, hai visto, il kelev ha saltato il muretto!».
La donna stava stendendo dei panni al sole del mezzogiorno, volgendosi verso di me, il suo viso si aprì in un sorriso.
«Bravo kelev, sei diventato forte in fretta! D’altronde non c’è da stupirsi, sei sempre stato il più grosso e coraggioso della cucciolata…».
Poi rivolgendosi ai bambini continuò: «Mi sa bambini che ben presto dovrete trovarvi un nuovo compagno di giochi, credo proprio che vostro padre non tarderà più molto a giudicare questo giovane kelev pronto per il lavoro col gregge!».
La vita però non aveva in serbo per me un destino che mi avrebbe concesso di trascorrere in serenità i miei giorni in quell’accampamento.
Un mattino, poco dopo l’alba, vidi arrivare all’accampamento un uomo sconosciuto. Dall’abbigliamento si intuiva come si trattasse di un altro pastore. Rivolse attorno, per un attimo, un sguardo di invidia verso le grasse pecore che si apprestavano a uscire verso i pascoli, quindi si diresse risolutamente verso il padrone della fattoria che intanto lo attendeva fermo sull’uscio.
Si presentò al padrone, quindi spiegò come avesse intrapreso il cammino da un accampamento lontano, consigliato da alcuni conoscenti comuni, perché aveva urgente bisogno di due animali da adibire a guardiani del gregge. Le sue bestie erano state attaccate qualche giorno prima da un orso, quando aveva condotto capre e pecore sul versante più selvaggio dell’Oreb. Uno dei due animali era morto subito, mentre l’altro aveva dovuto sopprimerlo poco dopo a causa delle gravi ferite.
«Ho bisogno di due cani esperti, non me ne faccio nulla di due poppanti!», esordì l’uomo con espressione torva.
«Non posso privarmi di due cani esperti, anch’io ho subito l’attacco di un lupo tre lune orsono, il mio kelev migliore ha avuto la zampa rotta, fa ancora il suo dovere, ma da allora non ha più recuperato tutta la sua velocità», rispose il mio padrone.
«Senza cani il gregge è ingovernabile, sarei costretto a restare nei pascoli di pianura, rinunciando alle colline; ma la produzione del latte, la qualità della carne e della lana non sarebbero la stessa cosa. Che ne è della solidarietà tra pastori? Condividiamo la stessa vita grama, conosci bene questa verità», replicò l’uomo.
Il padrone non aveva subito controbattuto a quella affermazione, rivolta con tono poco gentile, ma portandosi le dita alle labbra aveva emesso un fischio modulato, e mio padre si era immediatamente alzato per accorrere, anche io lo avevo seguito trotterellando, incuriosito da quella scena inconsueta.
«Posso offrirti lui, Tanut, è tra i migliori aiutanti che abbia mai avuto!», disse il padrone indicando mio padre, che intanto si era accucciato ai suoi piedi obbedendo a un suo cenno.
«E insieme posso aggiungere questo giovane kelev, non è ancora un guardiano fatto lo ammetto, ma sotto la guida di Tanut acquisterà velocemente esperienza. È il più grande e forte della cucciolata credimi, e sono certo di non sbagliare giudizio se ti dico che diventerà in poco tempo anche più abile di suo padre».
Così dicendo si chinò su di me a grattarmi affettuosamente la gola. Il nuovo venuto non aveva proferito risposta, spostando più volte il suo sguardo tra me e mio padre.
«Più di questo non posso fare, mi dispiace, avresti dovuto essere più accorto e tenere una femmina di kelev nel tuo accampamento, curando l’allevamento di una buona stirpe di guardiani. Così facendo ci si preoccupa saggiamente del futuro, sai che gli attacchi alle bestie che controllano i nostri animali sono cose che possono accadere a ogni uscita del gregge…».
Il pastore nuovo venuto guardò in maniera poco cordiale il suo interlocutore, probabilmente punto nel vivo dal giusto rimprovero, e infine valutò di nuovo me e mio padre. Non aveva uno sguardo amichevole nemmeno nei nostri confronti, poi rivolgendosi ancora al padrone replicò: «Questi animali mangiano molto pane, e spesso a tradimento, allevo pecore non cuccioli, se proprio non può essere diversamente allora sia fatta questa volontà… Ma dovrai farmi davvero un prezzo di favore!».
«Non ti preoccupare su questo, ci metteremo d’accordo, vieni dunque dentro e accetta un boccale di vino e un po’ di pane e formaggio», rispose il padrone, passando a un tono più gioviale, quindi si volse invitando lo straniero a entrare nella casa per concludere l’accordo.
«A proposito!», soggiunse bonariamente mentre stavano per varcare la soglia dell’abitazione, «Tanut risponde al fischio e al suo nome a meraviglia, mentre il cucciolo non ha ancora un nome, dovrai trovargliene uno!».
Il pastore straniero si volse verso di me, mi squadrò e replicò: «Un kelev è un kelev, questo sarà il suo nome, non mi perdo in queste stupidaggini».
Dunque questo uomo aveva deciso di chiamarmi Kelev… Quello sarebbe stato per lui il mio nome, e lo sarebbe stato anche per tutti gli altri uomini che avrei incontrato da ora in poi nella mia nuova vita, nei giorni che avrei trascorso nel suo accampamento.
Era la prima volta che avevo un nome tutto mio, aveva un bel suono, e mi piaceva.
III
Mio padre era un grande lavoratore. Un guardiano di greggi eccezionale, mi ripeteva spesso, durante le sere che trascorrevamo davanti al fuoco, bivaccando sotto il cielo stellato, che i nostri antenati avevano servito addirittura il grande Re David. Mi sono sempre domandato se fosse realmente accaduto, o se soltanto mi raccontava questa storia perché gli sarebbe davvero piaciuto che fosse andata così. L’unica cosa che rammento bene è che parlava di antenati che non facevano altro che correre avanti e indietro inseguendo e guidando le greggi.
Per cosa poi, per un tozzo di pane la sera, quando andava bene un osso con un po’ di carne ancora attaccata. Quasi nulla per un uomo, abbastanza invece per noi guardiani di greggi.
Da parte mia ho sempre mal digerito il correre dietro a quegli stupidi armenti, ma ancora di più ho sempre mal sopportato la tracotanza e la violenza dei loro padroni. Uomini buoni soprattutto a roteare il vincastro, ma per il resto capaci di andare in difficoltà anche soltanto nel chiudersi i legacci dei sandali, quando all’alba si preparavano per spingersi sui pascoli d’altura.
Per fortuna col tempo la natura mi aveva reso sempre più robusto e veloce nel correre, la mia stazza inoltre aveva ormai raggiunto e superato quella di un lupo. Tutte queste caratteristiche mi fecero diventare presto molto ambito tra i giovani pastori come guardiano delle greggi. Mentre il nuovo padrone amava di più rimanere nella tenda a contare le monete, senza mai rivolgermi neanche un minimo apprezzamento per il compito svolto, tutti gli altri facevano a gara per avermi con loro sui pascoli aperti, ben consapevoli che sarei stato capace di difenderli anche dall’attacco del lupo o dell’orso.
Io però non ho seguito il destino di mio padre, e in tal senso sicuramente l’avrei profondamente deluso. In quel giorno però la sorte fu beffardamente benevola con mio padre, risparmiandogli il disonore di vedere il suo cucciolo prediletto rinnegare il suo compito, segnato da secoli.
Dopo innumerevoli generazioni di custodi di greggi io, il più forte della sua cucciolata, scelsi di rompere il patto d’obbedienza che da sempre legava la vita dei nostri simili a quella degli uomini. Scelsi le strade di polvere solitarie, il deserto, senza più un padrone a cui dover obbedire. Scelsi di non dover attendere per mangiare la sua mano che riempiva la ciotola, ma preferire invece cacciare qualche coniglio scheletrico, o fare la posta ai caprioli selvatici, o addirittura a volte dover ricorrere all’astuzia per sgraffignare qualcosa alle carovane che attraversavano solitarie il deserto. Proprio come lo sciacallo, forse l’unica creatura che ho odiato più dell’uomo, durante la mia vita.
La svolta di questo mio destino si presentò un giorno improvvisamente. Proprio come accade per alcuni uomini, la cui vita procede tranquilla e serena sinché un avvenimento inatteso e fatale ne rovescia completamente le sorti.
Accadde dunque una sera, quando l’inverno era terminato da poco, si stavano preparando le greggi per la ricerca dei primi pascoli di primavera, quando il deserto, malgrado il suo nome, diventava un’esplosione di vita, un universo di profumi e colori.
Era la sera prima dello Shabbat, e il padrone si era ubriacato come al solito, prima che il precetto religioso gli impedisse di divertirsi come desiderava. Si era addormentato crollando col capo sul tavolo, tanto quella notte era ottenebrato dal vino, e l’ennesimo cosciotto di montone che aveva appena addentato gli era rotolato sotto il tavolo. Mio padre quel giorno non aveva mangiato nulla, troppo occupato a radunare le pecore per la notte, che cadeva ancora rapida, nonostante la primavera fosse appena iniziata. Il mattino dopo vi sarebbe stata la grande partenza per i pascoli alti, e l’attività era iniziata alle prime luci dell’alba, andando avanti senza sosta fino al tramonto, quando il