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Mose ed io
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Ebook111 pages1 hour

Mose ed io

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Genova, 13 agosto 2018. Per Lucia Beringer, scrittrice sessantenne che vive in un vecchio casamento nel cuore dei caruggi, questa data rimanda a un evento molto speciale vissuto sei anni prima: il rapporto d’amore insolito con un misterioso vicino di casa, il musicista “Mose”. Narrando l’avventura della protagonista attraverso un diario retrospettivo l’autrice si aggira tra situazioni fuori dell’ordinario e colpi di scena, per giungere a un finale aperto e del tutto imprevedibile.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 28, 2020
ISBN9788831661362
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    Mose ed io - Cristina Bobbio

    par­te

    Prefazione

    Una ma­tu­ra scrit­tri­ce s’in­va­ghi­sce di un gio­va­ne e af­fa­sci­nan­te pia­ni­sta, suo oc­ca­sio­na­le vi­ci­no di ca­sa. I ro­man­zi che la don­na scri­ve nar­ra­no sto­rie di mu­si­ci­sti, un mo­do per su­bli­ma­re il fal­li­men­to di un so­gno in­fan­ti­le, di­ven­ta­re can­tan­te li­ri­ca. Da una si­tua­zio­ne ap­pa­ren­te­men­te sen­za pro­spet­ti­ve Cri­sti­na Bob­bio trae spun­ti ori­gi­na­li per par­la­re di me­mo­ria e stra­nia­men­to dal pro­prio mon­do; dell’eter­no con­nu­bio li­ber­tà/egoi­smo e ri­cer­ca dell’equi­li­brio at­tra­ver­so il cam­mi­no spi­ri­tua­le, che por­ta a scel­te inu­sua­li da­van­ti al­le oc­ca­sio­ni ina­spet­ta­te del­la vi­ta.

    Il li­bro, strut­tu­ra­to co­me un dia­rio, è an­che un luo­go per rac­con­ta­re co­me na­sce un ro­man­zo, sul­la scia di On Wri­ting di Ste­phen King. Al­la do­man­da «Che cos'è On Wri­ting?» Ste­phen King ha ri­spo­sto: «È il ro­man­zo del­la mia vi­ta, non per­ché la mia vi­ta sia un ro­man­zo, ma per­ché la mia vi­ta è scri­ve­re». Per King le sto­rie esi­sto­no già den­tro di noi e il com­pi­to del­lo scrit­to­re è quel­lo di li­be­rar­le.

    Ugual­men­te l’au­tri­ce, at­tin­gen­do a ve­ri­tà e fin­zio­ne, co­glie l’op­por­tu­ni­tà per evo­ca­re una sto­ria che è di Lu­cia, la sua pro­ta­go­ni­sta, di se stes­sa e di tan­te al­tre don­ne che ca­pi­ta d’in­con­tra­re nel mon­do.

    Co­sì Ge­no­va, Pal­lenc di Ayas e Mi­la­no of­fro­no i luo­ghi rea­li in cui am­bien­ta­re le vi­cis­si­tu­di­ni di un amo­re fuo­ri dal co­mu­ne - che fa­reb­be la fe­li­ci­tà di un al­tro Ste­phen, Vi­cin­z­cey - rac­con­ta­to per con­tra­sti in­te­rio­ri, esplo­sio­ni emo­ti­ve e ten­ten­na­men­ti che crea­no una ten­sio­ne nar­ra­ti­va de­gna di un gial­lo, fi­no all’im­pre­ve­di­bi­le fi­na­le.

    Ma­ria Lu­pe­ri­ni

    Om­nia vin­cit amor et nos ce­da­mus amo­ri

    Vir­gi­lio, Bu­co­li­che X, 69

    Premessa

    Un diario retrospettivo

    Ge­no­va, lu­ne­dì 13 ago­sto 2018

    Pen­san­do a Mo­se non pos­so fa­re a me­no di ri­ve­de­re il lam­po dei suoi oc­chi ver­di da gat­to in ag­gua­to, leg­ger­men­te soc­chiu­si. Quan­do se ne sta­va im­mo­bi­le pa­re­va un fe­li­no sul pun­to di scat­ta­re: que­sta è la pri­ma im­ma­gi­ne che mi ba­le­na in men­te. Poi ve­do una sel­va di ca­pel­li bion­do scu­ro, mos­si co­me la cri­nie­ra di un leo­ne al sof­fio del­la brez­za. E la sua boc­ca, mi pia­ce trop­po di­se­gnar­la col pen­sie­ro. Ap­pe­na di­schiu­sa la­scia­va in­tra­ve­de­re il bian­co­re dei den­ti; car­no­so il lab­bro in­fe­rio­re, più sot­ti­le e ben de­li­nea­to il su­pe­rio­re. Un gat­to so­ria­no, vi­sto di fron­te; di pro­fi­lo un leo­ne; un gran­de or­so dal­le spal­le in giù. Co­sì mi ap­pa­re nel ri­cor­do. Non pos­so im­pe­dir­mi di rie­vo­ca­re le spal­le, le brac­cia, le gam­be mu­sco­lo­se di Mo­se e tut­ta la sua fi­gu­ra im­po­nen­te. Ogni tan­to ri­pen­so al­le ma­ni di lui sul­la ta­stie­ra del pia­no­for­te, ben­ché ciò mi con­du­ca su un ter­re­no mi­na­to. Og­gi ho sen­ti­to più for­te il de­si­de­rio di rac­con­ta­re que­sta sto­ria, che non ho mai con­fi­da­to a nes­su­no. Sei an­ni fa, esat­ta­men­te il 13 ago­sto e pro­prio di lu­ne­dì, è ac­ca­du­to un fat­to che ha cam­bia­to la mia vi­ta. Mi emo­zio­na l’idea di scri­ve­re un dia­rio re­tro­spet­ti­vo. Po­trei cam­bia­re no­mi e luo­ghi, se in fu­tu­ro vo­les­si trar­ne un ro­man­zo; ma in ve­ri­tà non ne ho la mi­ni­ma in­ten­zio­ne. An­zi cer­che­rò di te­ne­re Mo­sca­ti, il mio edi­tor, to­tal­men­te all’oscu­ro del­la co­sa.

    So­no con­ten­ta che il bi­lo­ca­le oc­cu­pa­to da Mo­se nel 2012 sia ri­ma­sto vuo­to in que­sti sei an­ni, no­no­stan­te le aspet­ta­ti­ve del­la mia pa­dro­na di ca­sa. Da al­lo­ra nes­su­no ha più toc­ca­to il vec­chio Schul­ze Poll­man. Non c’è dub­bio che la pre­sen­za di un pia­no­for­te aves­se at­ti­ra­to Mo­se al nu­me­ro cin­que di Vi­co del Dra­go­ne, in­du­cen­do­lo a sca­la­re no­van­tot­to gra­di­ni al­ti e stret­ti per quat­tro me­si; due ram­pe di set­te sca­li­ni per set­te pia­ni. Sa­rò eter­na­men­te gra­ta al­lo Schul­ze. E’ inol­tre pro­ba­bi­le che l’as­sen­za di vi­ci­ni per­tur­ba­to­ri del­la quie­te lo aves­se ul­te­rior­men­te con­vin­to a igno­ra­re la fa­ti­ca dell’asce­sa. Una scrit­tri­ce over cin­quan­ta e per di più sin­gle do­ve­va es­ser­gli sem­bra­ta del tut­to in­no­cua, ras­si­cu­ran­te. Per for­tu­na le co­se non so­no qua­si mai co­me ap­pa­io­no.

    Mi sen­to at­trat­ta ir­re­si­sti­bil­men­te da quel­lo che se­con­do la mo­ra­le co­mu­ne non an­dreb­be fat­to, o an­che so­lo det­to. La mia na­tu­ra è tra­sgres­si­va e re­frat­ta­ria al­le re­go­le, tut­ta­via lo de­vo am­met­te­re, dif­fi­cil­men­te avrei po­tu­to as­se­con­dar­la sen­za un ade­gua­to con­to in ban­ca. Col tem­po ho pre­so le di­stan­ze dal­la sa­na e la­bo­rio­sa bor­ghe­sia che si rea­liz­za in un’at­ti­vi­tà so­cial­men­te uti­le. Le mie ori­gi­ni ari­sto­cra­ti­che po­treb­be­ro spie­ga­re in par­te la fa­sti­dio­sa sen­sa­zio­ne che ogni tan­to mi co­glie, di es­se­re un pe­sce fuor d’ac­qua o vi­ve­re nel se­co­lo sba­glia­to. Nien­te fi­gli, di­vor­zio a no­vem­bre del 2002, la­scia­to sen­za rim­pian­ti un lus­suo­so ap­par­ta­men­to vi­sta ma­re e in­fi­ne ap­pro­da­ta nell’om­bra dei ca­rug­gi: ec­co in sin­te­si la sche­da bio­gra­fi­ca dei miei pri­mi ses­sant’an­ni. Non mi so­no più mos­sa da Vi­co del Dra­go­ne. A un pas­so dal cie­lo, tra tet­ti di ar­de­sia e ge­ra­ni ros­si è cre­sciu­ta la pas­sio­ne per la scrit­tu­ra. E con­ti­nuo tutt’og­gi a nar­ra­re sto­rie, mal­gra­do gli al­ti e bas­si e le bu­fe­re. Que­sto dia­rio lo scri­ve­rò esclu­si­va­men­te per te, Mo­se. Due o tre set­ti­ma­ne, un me­se, mi pren­de­rò il tem­po che oc­cor­re. I miei let­to­ri do­vran­no pa­zien­ta­re fi­no al pros­si­mo ro­man­zo e il Mo­sca­ti si ras­se­gne­rà. Do­ma­ni si co­min­cia.

    18 ago­sto

    Og­gi al­la Fie­ra del Ma­re i fu­ne­ra­li per le vit­ti­me del Pon­te. Ci so­no cre­sciu­ta nel quar­tie­re del­la Fo­ce e ri­pen­so ai mor­ti del 1970, al­la fu­ria spa­ven­to­sa del Bi­sa­gno usci­to da­gli ar­gi­ni. A do­di­ci an­ni con­tem­pla­vo da un bal­co­ne di Cor­so To­ri­no l’avan­za­re dell’ac­qua e del fan­go; a ses­sant’an­ni mi ri­tro­vo te­sti­mo­ne di al­tre mor­ti. Qui ci si guar­da l’un l’al­tro con fac­ce smar­ri­te. In via Ra­vec­ca, al­la Scia­mad­da do­ve com­pro la fa­ri­na­ta, al mer­ca­ti­no di Piaz­za Sar­za­no s’im­prov­vi­sa­no con­fe­ren­ze, ognu­no di­ce la sua. Suc­ce­de quan­do ca­pi­ta una di­sgra­zia, ma sta­vol­ta è peg­gio, ne sia­mo tut­ti con­sa­pe­vo­li. E al­lôa mi pen­so an­con de ri­tor­nâ a pö­sâ e os­se do­ve ho mæ ma­don­nâ, di­ce il can­to del vec­chio emi­gra­to. Il pen­sie­ro di po­sa­re le os­sa do­ve ho mia non­na, nel ci­mi­te­ro di Sta­glie­no, in un mo­men­to co­me que­sto è ad­di­rit­tu­ra con­for­tan­te.

    So­lo cin­que gior­ni fa ero pron­ta a ini­zia­re, con l’eu­fo­ria che mi pro­cu­ra sem­pre la pro­spet­ti­va di un fo­glio bian­co e di una pen­na che scor­re. Al­le do­di­ci di mar­te­dì 14 ago­sto ho sen­ti­to ge­lar­si il cuo­re e la pen­na. Sol­tan­to cin­que gior­ni fa. Ades­so il bi­so­gno di esor­ciz­za­re il pen­sie­ro del­la mor­te so­vra­sta ogni al­tra emo­zio­ne, e il de­si­de­rio di rie­vo­ca­re un ca­pi­to­lo pre­zio­so del­la mia esi­sten­za di­ven­ta an­co­ra più ur­gen­te. Vo­glio mo­strar­ti l’al­tra par­te del­la lu­na: non so­lo i fat­ti, ma i pen­sie­ri e i mo­ti dell’ani­ma. Tut­to ciò che fi­no­ra ho te­nu­to se­gre­to lo leg­ge­rai in que­sto dia­rio.

    Uno

    Il vicino di casa

    Ge­no­va, do­me­ni­ca 19 ago­sto 2018

    C’era un’aria fre­sca di tra­mon­ta­na quel mat­ti­no di mar­zo del 2012, e cie­lo ter­so. Un tem­po­ra­le not­tur­no ave­va spaz­za­to via la ma­ca­ia dei gior­ni pre­ce­den­ti. Lo ri­cor­do per­ché mi ero de­ci­sa ad af­fron­ta­re gli ul­ti­mi die­ci gra­di­ni, i più ri­pi­di, per sten­de­re il bu­ca­to in ter­raz­za; e al ri­tor­no, con la ce­sta vuo­ta sot­to il brac­cio, ero qua­si fi­ni­ta ad­dos­so al­la si­gno­ra Ro­si­na che mi sta­va cer­can­do. Del tut­to in­so­li­to che la mia pa­dro­na di ca­sa si av­ven­tu­ras­se ai pia­ni al­ti, vi­sto che per rag­giun­ge­re ca­sa sua al pri­mo pia­no già fa­ti­ca­va e sbuf­fa­va. Una ra­gio­ne for­te l’ave­va in­dot­ta a ri­nun­cia­re all’uso del te­le­fo­no. La no­ti­zia me­ri­ta­va quell’im­ma­ne fa­ti­ca: qual­cu­no avreb­be oc­cu­pa­to il bi­lo­ca­le ac­can­to al mio ap­par­ta­men­to, che fi­no ad al­lo­ra lei ave­va te­nu­to sfit­to per am­muc­chiar­ci dei ra­vat­ti, cioè mo­bi­li vec­chi e ogni ge­ne­re di cian­fru­sa­glie. Uni­ca ec­ce­zio­ne il be­ne­det­to pia­no­for­te che suo fi­glio Ric­car­do non si era mai so­gna­to di apri­re. Pec­ca­to dav­ve­ro per quel bel pia­no­for­te. Ades­so in­ve­ce qual­cu­no lo avreb­be suo­na­to. La si­gno­ra Ro­si­na ave­va ab­bas­sa­to la vo­ce, con­fi­den­zia­le: ami­ci di Ric­car­do, gen­te sul­la cui one­stà sa­reb­be sta­ta pron­ta a met­te­re le ma­ni sul fuo­co, l’ave­va­no pre­ga­ta di af­fit­ta­re il bi­lo­ca­le, in via ami­che­vo­le, a un pro­fes­so­re del Pa­ga­ni­ni; pia­ni­sta, com­po­si­to­re o qual­co­sa di si­mi­le, non ave­va ca­pi­to

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