Bradamante d'Este e l'infamia di Zenzalino
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Book preview
Bradamante d'Este e l'infamia di Zenzalino - Marta Malagutti Domeneghetti
Intro
La Bradamante qui rievocata - e letterariamente sublimata - da Marta Malagutti Domeneghetti è, insieme alla sorella Marfisa, figlia illegittima di Francesco d’Este (entrambe vennero legittimate appena bambine). Bradamante sposò il conte Ercole Bevilacqua, che in seguito si invaghì della bella Anna Guarini (figlia del poeta Giovan Battista Guarini), la quale nel 1585 si sposò con il conte Ercole Trotti, che la assassinò nel 1598 dopo averla accusata - ingiustamente - di aver intrattenuto una relazione appunto con Ercole, marito di Bradamante. Arte, amore e infamie: sono gli ingredienti di questo giallo storico che avvince, commuove e che narra, quasi in metempsicosi con l’autrice, attraverso l’autentica voce della protagonista: proprio lei, Bradamante. (Riccardo Roversi)
AFFACCIANDOMI ALLA VITA
Non affermo che in me riviva quella donna straordinaria che fu Isabella d’Este. Prima di tutto perché non credo nella metempsicosi, cioè che anime meritevoli di ripetizione o che, macchiatesi di gravi colpe e perciò bisognose di purificazione, riprendano un aspetto umano e a volte anche bestiale che concluda, con un premio o con un castigo, il loro ciclo esistenziale, ma soprattutto perché, dopo numerose meditazioni, suggeritemi da mio padre, sono entrata nella convinzione di essere in possesso di varie doti caratterizzanti la vita della mia prozia.
Inizio così l’elenco delle somiglianze, usando il tempo presente per comodità di esposizione.
Comincio dall’aspetto fisico: entrambe dotate di una rigogliosa chioma, occhi cerulei, corpo di giusta misura, snello nella prima giovinezza, e con tendenza alla pinguedine nella maturità. La somiglianza del corpo tuttavia non desta stupore, quando esiste una notevole affinità di sangue.
Di salute sono sempre stata solida nella mia apparente delicatezza, come mi dicono essere stata Isabella, definita dalla madre la mia fragile leonessa
.
Se poi passiamo ad analizzare il carattere troviamo che le somiglianze sono notevoli. Come lei è stata, io sono tenace, ambiziosa, costruttiva, sensibile nella sofferenza, scatenata nella gioia.
Anch’io coltivo i miei dubbi e dono risalto alle mie certezze, ho uno spirito libero e pure combattivo, sottolineato dal mio nome. Nei riguardi poi di questo nome da mio padre impostomi senza esitazioni alla nascita e confermato poi con il battesimo in quel nevoso Gennaio del 1560, debbo ai curiosi una informazione che spero soddisfacente.
Mio padre, Francesco d’Este, ultimo figlio di Alfonso e di Lucrezia Borgia, è nato meno di tre anni prima che morisse la madre, della quale dice, lagnandosene, di non ricordare altro che il tenue profumo degli abiti e un fuggevole ondeggiare di una lunga chioma dorata. Come terzogenito, per sua fortuna, poiché non ne avrebbe avuto la vocazione, non è stato uomo di Chiesa, ma di armi. In questo campo si è mostrato egregio per coraggio e ardimento, sottolineati purtroppo da un esuberante orgoglio per la sua stirpe e una sconfinata ambizione che lo hanno spinto, senza ottenerne soddisfazione, verso mete irraggiungibili.
Con questo divagare mi sono allontanata dal proposito di soddisfare la legittima curiosità di molti miei contemporanei, desiderosi di sapere dove mio padre abbia trovato questo mio nome, inesistente nella tradizione Estense, in cui invece abbondano le Beatrici, le Eleonore, le Bianche e altri nomi assai comuni.
Non ancora adolescente mio padre è stato affidato alle cure di Antonio Acciaiuoli che, oltre a infondergli una raffinata cultura letteraria, gli ha fatto apprezzare a tal punto le opere di Ludovico Ariosto, da indurlo a recitare, dodicenne, il prologo della commedia ariostesca intitolata Lena in occasione del carnevale, e quello della Cassaria durante i festeggiamenti per le nozze del fratello Ercole con Renata di Valois. Ne derivò al giovanetto una vera venerazione nei confronti del nostro grande poeta, che si è manifestata in seguito con il voler apprendere a memoria interi brani dell’ Orlando furioso e con uno studio meticoloso dei personaggi del medesimo poema, non solo maschili, ma anche femminili.
Non è da stupirsi perciò che, quando gli sono nate le due figliole, abbia imposto ad entrambe un nome ariostesco: Marfisa e Bradamante.
Oltre al nome prestigioso di cui vado fiera per la sua originalità, debbo a mio padre anche un dono da lui fattomi quando ho compiuto il sedicesimo anno di età.
Val la pena di narrare le motivazioni che hanno accompagnato questo omaggio poiché sono molto significative.
Purtroppo mia madre, poche ore dopo avermi messo al mondo e non ancora ventenne se ne andò là da dove non si può ritornare
, come dicevano i romani, lasciando mio padre e la mia sorellina Marfisa nella più desolata disperazione. Questi, ancora legato a Maria di Cardona, marchesa di Padula e contessa di Avellino, con nozze impostegli dall’imperatore Carlo Quinto, non reggendo allo strazio per la perdita del suo unico grande amore, ha cercato nelle imprese belliche una difficile distrazione. Il suo spirito irrequieto, reso anche aggressivo dal dolore, se non lo ha portato a divenire un autentico condottiero, gli ha pro-
curato tuttavia un certo prestigio come uomo d’armi.
Nel corso di una spedizione punitiva contro Guglielmo Terzo, duca di Clève, mio padre con i gradi di capitano di cavalleria leggera dell’esercito imperiale, fu catturato dai francesi guidati da Charles, conte di Brissac e tenuto prigioniero per tre mesi. Ma nel Luglio dell’anno successivo, Francesco d’Este riuscì nell’impresa di Saint Dizier, a Vitry e a sbaragliare a sua volta le truppe del Brissac, catturando fra l’altro la bandiera della fanteria francese.
L’accenno alle imprese belliche in cui mio padre si era tuffato per cercare di lenire lo strazio causatogli dalla scomparsa di mia madre, mi ha portato a divagare dall’argomento che mi ero proposto di trattare e cioè del dono da lui fattomi per il mio sedicesimo compleanno, un meraviglioso orologio a pendolo.
Può sembrare un regalo non adatto a una ragazzina, ma a pensarci bene è facile trovare la motivazione.
Fin dalla prima infanzia mio padre, al presentarsi dell’occasione opportuna, soleva sottolineare, dandone pure le prove, la notevole somiglianza da me dimostrata con la mia prozia, Isabella d’Este, sia nell’aspetto fisico che nel carattere. Anch’io, come già ho confessato, me ne sono convinta al punto che non mi sono stupita quando ho ricevuto come dono di compleanno un oggetto un po’ particolare.
Mi è gradito ripetere con le esatte parole il dialogo svoltosi fra me e mio padre, entrato silenzioso nella stanza la mattina del mio genetliaco. Teneva fra le mani uno splendido orologio a forma di uovo d’oro smaltato di azzurro.
Stupita, mi sedetti sulla sponda del letto ed esclamai: «Padre, cosa tenete fra le mani? È per caso un dono destinato a me?».
«Figliola dilettissima, penso che un oggetto più adatto non potevo offrirti in questo giorno in cui non solo festeggiamo il sedicesimo anniversario della tua nascita, ma ci troviamo in prossimità delle nozze di Bradamante d’Este con il conte Ercole Bevilacqua. Sicuramente sei a conoscenza della predilezione che zia Isabella ha sempre avuto per me, il suo nipotino più caro, il più piccolo fra gli Estensi, che anche lei, come mio padre, chiamava affettuosamente il mio Cecchino».
Dopo una breve pausa per tentare di nascondere un moto di commozione mio padre riprese: «Ricordo di aver trascorso numerose estati della mia infanzia nella bella villa di Porto, dove la famiglia si trasferiva per sfuggire al caldo afoso di Mantova. Ho nitidi nella memoria i giochi inventati per me da mio cugino Ferrante, da Ippolita e da Livia, semplici giochi della tenera età. Talora Federico, già uomo d’armi, veniva a dare un’occhiata protettiva al vivace gruppetto, ove spiccavo proprio io, il piccolo Francesco volonteroso di partecipare ai trastulli dei più grandi che in modo visibile cercavano di adeguarsi alla sua inesperienza. L’affetto di zia Isabella nei miei confronti non è mai venuto meno. Ne ebbi la conferma molti anni più tardi in un assolato pomeriggio del 1539, quando mi fece chiamare da una donna di camera. Pur essendo casa Gonzaga ormai sguarnita dei suoi ornamenti Federico già ammogliato e con prole viveva in un altro palazzo, Ercole il cardinale stava a Roma quasi stabilmente, Ferrante era lontano per i suoi impegni bellici al servizio dell’imperatore Carlo Quinto, Ippolita e Livia da anni monache in convento, io avevo mantenuto l’abitudine, conseguita fin dall’infanzia, di trascorrere qualche giornata estiva presso zia Isabella, che mi dava ciò che da sempre mi era mancato: l’affetto di mamma Lucrezia, perduta quando non avevo ancora compiuto tre anni. L’ancora adorabile zia mi attendeva nella camera da lei chiamata stanza degli orologi
poiché lì custodiva i suoi preziosi ordigni per misurare il tempo, oggetti meccanici che si rifiutavano di battere le ore all’unisono, creando una confusione non solo temporale ma anche esistenziale. A lei invece era gradita questa mancanza di contemporaneità. In modo particolare apprezzava l’orologio ritardatario, poiché l’ordigno, così ella affermava, metteva a sua disposizione maggior tempo degli altri, ossia le donava momenti preziosi per dedicarsi ai progetti, ai sogni, alle speranze della sua vita, di conseguenza le permetteva di vivere più a lungo. Quel giorno, l’amabile marchesana di Mantova mi aspettava seduta davanti al suo tavolino preferito, pregevole lavoro di ebanisteria intarsiato d’avorio. Mi sorrise e accennando a uno scranno accanto a lei, mi invitò a sedermi. Incuriosito e insieme lietamente sorpreso iniziai: Diletta zia, cosa avete da comunicarmi a quest’ora insolita e in un luogo che so dedicato alle vostre meditazioni più intime e riservate? Deve trattarsi di qualcosa di notevole e spero non rattristante
. Figliolo carissimo, - esordì ella con tono quasi solenne - sentendo la mia vita prossima al tramonto ho pensato alla opportunità di assegnare già da ora ai miei cari, gli oggetti da cui sono stata circondata negli anni più significativi della mia vita: gli orologi, i dipinti, i bronzi, le sculture. Conoscendo i gusti e le preferenze dei miei figli, non ho avuto dubbi nella destinazione. Oltre a quelli generati da me, considero anche te come mio figlio, non solo per la parentela che ci unisce, ma anche perché fosti privato in tenerissima età della madre naturale. Per questo motivo destino a te il più bello e prezioso dei miei orologi. Sono certa di farti cosa gradita, anche perché fin da piccino, quando tuo padre ti accompagnava a trovare ‘zia Bella’ la prima cosa che mi chiedevi era quella di andare ‘nella stanza piccola per vedere i tic-tac’. Sollecitava la tua curiosità il loro battito diverso, scandito in vari timbri e il suono non contemporaneo, al punto che, se ti trovavi mentre suonava le ore davanti a uno che ti piaceva, lo osservavi commentando in modo infantile la sua forma per te inusuale, ma ai primi tocchi di un altro accorrevi gioioso ad ascoltarlo e ti impegnavi a contare i rintocchi, per poi spostarti in fretta di fronte a un terzo che, con un suono diverso, aveva attirato la tua attenzione. Ricordo che te ne piaceva uno in modo particolare: l’uovo di Norimberga, dorato e smaltato di turchino, quello che va più lento. Non era questo il motivo della tua predilezione, eri troppo piccolo per notare la differenza nel ritardo a segnare le ore, cosa che invece interessava a me. Ti incuriosivano invece la forma, la singolarità dell’aspetto, il suo luminoso colore, ma soprattutto che segnasse le ore con un palpito quasi umano. Un giorno, forse dopo una lunga riflessione mi hai chiesto: ‘Zia Bella, perché quell’uovo fa un rumore che sembra un cuore che batte forte forte?’. Era una domanda che avrei avuto difficoltà a soddisfare in modo per te comprensibile; non ho saputo trovare altra risposta che questa: ‘Vedi, Cecchino caro, dentro quest’uovo c’è il cuore della tua mamma che vuole rimanere sempre vicino a te, consolarti quando sei triste e farti compagnia quando sei solo’. L’accenno alla madre scomparsa ha appannato la tua gaiezza, mi sono accorta che una lacrima si era affacciata in un angolo degli occhi, ma subito con una mano furtivamente l’hai asciugata e fingendoti garrulo come prima mi hai detto con voce limpida: ‘Sono contento, zia Bella, che un giorno avrò questo orologio dove c’è il cuore della mia mamma: lo terrò sempre con me’
».
Sull’angoscioso ricordo della sua infanzia, richiamato con sofferenza dall’abisso degli anni, mio padre fece una lunga pausa. Anch’io tacevo, non trovavo le parole adatte a riempire quel vuoto incolmabile. Il silenzio tuttavia non poteva durare più a lungo poiché sarebbe diventato imbarazzante, considerando il momento in cui si svolgeva il nostro colloquio. Era il giorno festoso