Per amare Miranda
By Laila Cresta
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Romance - romanzo breve (103 pagine) - A Ferrara nel 1483, una storia Rinascimentale di passione e gelosia alla Corte Estense.
Fra Medioevo ed Età Moderna, una storia di passione e di gelosia che rischia di distruggere l’amore. Lei e lui, Miranda Del Grotto ed Enrico Maria Alberti, sono personaggi davvero pieni di fisime medievali, ma anche sorprendentemente moderni. A Ferrara nel 1483, in una Corte di armi e di eroi, di amanti e di letterati, le ragazzine sono destinate al matrimonio per ragioni di interesse dinastico. A loro si consiglia di arrivare alla Corte Estense già senza vestito, se non vogliono stropicciarlo…
Laila Cresta è di Genova e ama aggirarsi, con le sue trame, sul mare e nei luoghi della sua Liguria. Ha insegnato per 42 anni, abbinando però sempre la scrittura, specie poetica, al lavoro. Il suo primo romanzo, un noir del 2011, è oggi reperibile in poche copie presso l’autrice. Da quando si è ritirata, la scrittura è la sua unica occupazione. Ha vinto diversi concorsi di poesia ed è specialista di haiku: se n’è occupata per anni sulla rivista Writers Magazine Italia, ha pubblicato due saggi sull’argomento (fra cui Mondo Haiku, Delos Digital) e anche una silloge, Watashi no haikai (il mio haikai: la mia silloge di haiku, youcanprint). È autrice di saggi sulla grammatica italiana: La Grammatica fondamentale, per gli adulti, e La Nebulosa Grammatica, per i bambini, Delos Digital. Invece, Una corsa a ostacoli – Disagio e Inserimento nel mondo della Scuola, Il canneto editore, è un saggio sull’educazione. Nel 2019 ha pubblicato il romanzo Lo zio d’America (Antipodes Edizioni) e nel 2018 il giallo Una sconvolgente estate: nel mar delle Cicladi, sempre per la Antipodes. Altri suoi romanzi si trovano su Amazon. Da otto anni organizza il Concorso Internazionale di Poesia Occ. e Haiku di Genova, di cui ha pubblicato sette antologie.
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Per amare Miranda - Laila Cresta
9788825407808
Capitolo I – Dintorni di Ferrara, in primavera
Si era alla fine del ‘400, e il rinascimento degli studi classici aveva portato a tutto un fiorire di bellezza in ogni campo, dalla pittura alla poesia, alla musica, all’arredamento persino: le sedie, imbottite, erano diventate delle vere poltroncine, le librerie erano ricche di volumi, i letti avevano smesso di essere dei cupi catafalchi per tornare a essere i luoghi dell’amore e del riposo… e alla Corte estense studiavano persino le gentildonne.
Il palazzo gentilizio del Belriposo era una massiccia costruzione anteriore all’anno 1000, che era stata ristrutturata in tempi moderni. Su ciascuno dei due muri laterali si vedeva adesso una finestra a quadrifora, la cui parte superiore era come un delicato merletto: era lo stesso merletto di pietra che ornava la fila di piccoli veroni, dalle colonnine delicate e dagli archi semicircolari, che erano stati aperti sulla facciata, e illuminavano gli interni dando un senso di leggerezza a tutta la costruzione.
Con la luce che entrava adesso nelle antiche sale, e con la leggiadria dei nuovi elementi architettonici, il palazzo aveva perso la sua cupa aria di fortezza, che ormai si trovava solo in alcune aree interne ancora in attesa di ristrutturazione.
Lo studio del padrone di casa, anch’esso recentemente ammodernato, era un ambiente funzionale ed elegante, molto piacevole, degno di quell’epoca illuminata in cui era stata riscoperta la cultura classica.
Su uno dei lati della stanza, una parete aveva la parte superiore composta di piccole losanghe di vetro color miele, che filtravano piacevolmente i raggi del sole. Contro la parte in pietra della parete, s’appoggiava il lato sinistro della scrivania, che era un grande tavolo con due gambe tornite, a forma di colonna, che reggevano il piano di scrittura, ed erano inchiodate e fissate, ai due capi del tavolo, con spine intarsiate. Un bel leggio scolpito reggeva un in-folio aperto. Dall’altro lato della scrivania si ergeva la colonna tortile di un altro leggio, tanto elaborato da essere degno di una cattedrale. Dal soffitto pendeva un modernissimo lampadario di vetro soffiato, decorato a foglia d'oro graffita. Era a due ordini di luci sovrapposte e conteneva una ventina di candele: era stato evidentemente messo per consentire la lettura persino in ora un po’ tarda.
La cosa più notevole dello studio era infatti la grande libreria di noce, sorretta da semicolonne intarsiate, sormontata da volute sinuose e da un medaglione che raffigurava una ninfa al bagno. Conteneva perlomeno un centinaio di libri, e probabilmente anche di più: Enrico Maria Alberti aveva combattuto per gli Estensi prima di ereditare il titolo da un cugino, ed era temuto e ammirato per la sua destrezza nelle armi, ma si sapeva bene che, come tutti i nobili prediletti alla Corte estense, era anche un erudito, addirittura in grado di leggere i classici latini in lingua originale. Inoltre, nonostante la giovane età, era legato al Boiardo, il poeta di Scandiano, da vecchia amicizia.
Enrico Maria era un giovane uomo alto e forte come un guerriero barbaro, ma coi riccioli neri da patrizio romano. In effetti, era una delle più famose spade
estensi, ma era noto anche per essere uno dei gentiluomini prediletti dalle belle dame di Corte.
Aveva ventidue anni e, da quando ne aveva dieci, aveva vissuto in campagna, al Belriposo, nel feudo degli zii, dove il padre lo aveva mandato nel tentativo di sottrarlo al contagio della peste che in quel momento imperversava nelle città affollate, e che, poco dopo, aveva finito per renderlo orfano. Dopo l’infanzia, prima di ereditare il titolo, Enrico Maria si era visto poco, nel feudo: al fianco del Duca Ercole I D’Este, aveva seguito la carriera militare di suo padre.
Fino a pochi mesi prima, il feudo era stato retto con dispotica e compiaciuta autorità dalla Contessa, dapprima grazie alla debolezza del Conte, e poi a quella di suo figlio: Alberto non aveva amato né gli onori né gli oneri connessi al titolo, e la Contessa si era illusa che la propria vita, fino alla fine, sarebbe stata quella della Signora feudale. Non più di sei mesi prima invece, il ragazzo era morto, stroncato in poco tempo da quella che all’inizio si presentava solo come un po’ di tosse stizzosa, ma che aveva recentemente fatto una strage, nella regione. Naturalmente, questo aveva del tutto rivoluzionato la conduzione del feudo. Per quanto potesse essere di cattivo gusto dirlo, si sussurrava persino che Ercole D’Este fosse compiaciuto di questo cambio di feudatario: ci teneva a che i Signori di Ferrara, di Modena, di Reggio, e dei castelli dintorno, fossero uomini suoi, fino in fondo, e non aveva mai pensato che il povero Alberto, che era intensamente religioso e non amava né la caccia né la spada, fosse adatto al ruolo per cui era nato. Non capiva neppure perché Enrico Maria se la fosse presa tanto per quella morte che, in fondo, era per lui un colpo di fortuna. Ma già, nonostante la Contessa sua zia non lo avesse certo accolto amorevolmente, e lo sapevano tutti, era ben possibile che lui avesse voluto bene al cugino, si era detto il Duca. Sarebbe stato da lui.
Come accadeva spesso, in quel momento il Conte si trovava nel suo piacevole studio alloggiato nel possente mastio a base quadrata che era stata l’antica Torre di Guardia e che, per essere particolarmente silenzioso, favoriva tanto gli studi quanto le letture amene.
Dalla sua comoda e moderna seggiola imbottita, Goffredo Della Rocchetta lo guardava con affetto e bonaria invidia: Enrico aveva già ereditato un patrimonio niente male da suo padre, non aveva bisogno di una contea. Tanto meno di due.
Intanto, però, pensava il Cavaliere, cominciavano già gli oneri che il titolo comportava. E non solo quelli, ovvi, relativi al governo e all’amministrazione del feudo.
Lui e il padrone di casa avevano combattuto insieme per gli Estensi, ma la loro amicizia era nata già nell’infanzia: anche i loro padri erano stati amici e compagni d’arme, e Goffredo bambino aveva giocato spesso al Belriposo, con Enrico e suo cugino Alberto.
E con Miranda.
– Allora, amico mio? – gli chiese Enrico. – Questa volta ti sei fatto annunciare dai corni, da vero inviato ducale. Cosa vuole da me, Ercole? Di nuovo la mia spada?
– No, no… tutt’altro. Ecco, qui c’è la missiva del Duca. Ricordati però che io non c’entro niente. Non prendertela con me, eh? Io sono solo l’ambasciatore.
Enrico Maria leggeva con espressione indecifrabile e Goffredo lo guardava, un po’ a disagio. Certo, pensava, quell’ordine era giunto inaspettato come la neve a marzo, anche se, in effetti, Enrico avrebbe dovuto aspettarselo, quando aveva ereditato il titolo. Comunque, era pur sempre un ordine ducale, e in fondo si trattava di una bella fortuna, per il suo amico.
– Goffredo… tu sai cosa c’è scritto, qui?
– Sì, certo che lo so.
– Incredibile! Ercole vuole che sposi la fidanzata di Alberto.
– Non è proprio così… – ribatté Goffredo in tono ragionevole. – Quello che il Duca vuole è semplicemente che il conte Alberti sposi finalmente madamigella Del Grotto, come avevano concordato Borso D’Este e il padre di Miranda, alla nascita della ragazza, diciassette anni fa. E vuole offrire lui la festa di nozze, nella piacevolezza di Schifanoia, fra una settimana.
– Che cosa? Fra una settimana? Ma… scherzi? È… è inaudito! Tra l’altro, Miranda e Alberto erano fidanzati praticamente dalla nascita, perché tanta fretta di celebrare questo matrimonio, adesso?
Goffredo ridacchiò.
– Eh… il nostro Duca ha detto che, tanto per cominciare, tu e Miranda avete due teste tanto dure che sareste capaci di litigare come cane e gatto prima delle nozze, per poi fare una pace appassionata. Ed è senz’altro meglio rimandare tutto questo a dopo le nozze, secondo lui. E poi… Ercole ha aggiunto che un fidanzamento così lungo, cominciato addirittura nell’infanzia, ha certo portato fin troppa dimestichezza fra Madamigella e il povero Alberto, e ha detto che tanta innocente familiarità fra due fidanzati sarebbe addirittura impensabile, con uno come te… non sei mica Alberto, tu.
Goffredo terminò con una risatina chioccia, e minacciò scherzosamente l’amico con un gesto, ma Enrico, che si era alzato dalla scrivania e stava misurando il pavimento a lunghi passi, avanti e indietro, sussultò, bloccandosi. Incrociò le braccia e lo guardò. La sua voce risuonò metallica: – Cosa significa, questo? Non sono più un gentiluomo, per la Corte Estense?
– Ma no! Cosa dici? Ercole rideva, nel dire che uno come te non era fatto per le relazioni platoniche, e pareva proprio che ti facesse un complimento. Certo sei più uomo tu di Alberto, che riposi in pace. Comunque, io devo ancora andare dai Del Grotto… e la reazione di Miranda mi preoccupa quasi più della tua, amico mio.
– Dunque, ha un brutto carattere, la ragazza.
– No, però… la conosci, dai! Miranda è volitiva, ha un carattere forte e determinato, era così anche da piccola, no? Figurati che dicono sia lei a occuparsi delle terre e dei dipendenti di suo padre, da sola. Addirittura, pare che Miranda giri il feudo senza scorta, come un maschiaccio: sai che suo padre ha mollato tutto, anche la figlia, dopo la morte della contessa Diana.
– Niente controlli, eh?
– Oh, Enrico, su! Sembra che tu non la conosca neanche. Cosa ti prende? Sai benissimo che è cresciuta talmente libera, o talmente abbandonata, che non sarebbe certo facile farle accettare di essere controllata in qualche modo.
– Vedremo! – ribatté Enrico Maria in tono piuttosto minaccioso.
Poi però inaspettatamente aggiunse, quasi in un sussurro: – Vero è che è molto bella.
Sorpreso dalle sue parole e, ancor più, dal tono della sua voce, Goffredo lo guardò da sotto in su, incuriosito.
– Lo è sempre stata – rispose. Poi si accigliò. – Che strano! Non ci avevo ancora fatto caso, ma… la ninfa scolpita sulla tua nuova libreria assomiglia in modo incredibile a Miranda.
– È vero. L’ebanista è un vero artista… e certamente Miranda è un bel soggetto. L’incisore le aveva appena fatto un ritratto, un grande medaglione scolpito, così…
Così,