Lo specchio metafisico
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La letteratura se non è metafisica non è. I linguaggi se non abitano lo specchio non vivono.
Letteratura, filosofia e antropologia sono uno specchio della metafisica. Il quale ha bisogno della parola che si racconta nelle immagini. Negli scenari immaginari.
Raccontando pezzi di vita ho raccolto ciò che ho vissuto. Bisogna sempre scrivere di ciò che si conosce. Nulla ha senso tranne il vissuto abitato. Tranne ciò che si abita vivendolo.
Questo libro?
Non è un libro. Sono pagine intrecciate lungo i fiumi e gli orizzonti della consapevolezza. Soltanto se si è in rivolta possono dare un senso. Sono pagine di erranza. Resto un errante tra testimoni eretici. L'isola della parola è incastrata nello specchio metafisico.
Ho scritto questa nota per non dire. O per dire. Chi leggerà saprà. Chi non dovesse leggere vivrà tra gli orizzonti e il mare. Chi rimanderà la lettura capirà che oltre può esserci altro. La magia è non raccontabile e il mistero si trova nel sacro e nei riti del mito.
Insomma, procediamo.
Pierfranco Bruni è nato in Calabria. Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all'Estero, è presidente del Centro Studi “Grisi”.
Ha pubblicato libri di poesia (tra i quali "Via Carmelitani", "Viaggioisola", “Per non amarti più", "Fuoco di lune", "Canto di Requiem"), racconti e romanzi (tra i quali vanno ricordati "L'ultima notte di un magistrato", "Paese del vento", "L’ultima primavera", “E dopo vennero i sogni", "Quando fioriscono i rovi"). Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D'Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro. Numerosi sono i suoi testi sulla letteratura italiana ed europea del Novecento.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e si considera profondamente mediterraneo. Ha scritto, tra l'altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo", giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.
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Lo specchio metafisico - Pierfranco Bruni
Pierfranco Bruni
Lo specchio metafisico
The sky is the limit
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Indice
LO SPECCHIO METAFISICO
Raccontare la memoria
Si può raccontare la memoria?
L’antropologia del vissuto
Pensiero metafisico e negligenza dell’ottimismo del tragico
Il ragno e la ragnatela
Di magia si vive e di magia si muore
Il labirinto, la bugia, la letteratura
Contaminazioni di identità
Sdradicare il tempo
Metafisica e koinè
Pietro Verri oltre Platone
Il tempio magico di Raffaello tra la Fornarina e la Donna velata
D'Annunzio all'Indice?
Uno scrittore che cercava la verità nella storia
L’uomo e l’erranza
Uomo inquieto
L’uomo saggio e le stelle
Conoscere la Saggezza
Coltivo la mia pazienza
La solitudine è nell’errante
La mia erranza
Se dovessi parlare della Bellezza
Il tragico e la ricerca della Bellezza
L’incipit della vita
Si inventa ciò che si vive
Raccontami l’impossibile vero
La divinità e la sensualità
I miei viaggi - I miei luoghi
Mediterranei in Tunisia
Tra mare e terra
La mia Turchia
Il popolo Maya e il mondo sciamanico
Il mondo balcano e San Lorenzo
La danza delle donne arabe
I miei Balcani
Gli armeni nella favola
La metafisica dei luoghi nell’arte
Il mondo sardo: Galtellì
Il magico delle feste - Tra ritualità e mito
I Re Magi giocano alla Cabala
La Candelora e gli stregoni
Il mistero dell’Epifania
La bella favola di Natale
La filastrocca
Il canto popolare
L’antropologia del cibo
I santi e il mistero
San Giovanni Paolo II e il mio viaggio
San Francesco di Paola e il Mediterraneo
Francesco di Paola e la sua alchimia
San Francesco d’Assisi e Chiara
Lo specchio metafisico Santa Teresa D’Avila
San Nicola di Longobardi nella vita dei Gaudinieri
San Biagio e l’Oriente
San Paolo e Seneca
San Giuseppe Moscati e il senso di pietà
Natuzza la mistica calabrese
Santa Teresa di Lisieux
I santi di Calabria
Bartolo Longo e la devozione popolare
San Lorenzo Martire
Perché lo specchio metafisico?
La letteratura se non è metafisica non è. I linguaggi se non abitano lo specchio non vivono.
Letteratura, filosofia e antropologia sono uno specchio della metafisica. Il quale ha bisogno della parola che si racconta nelle immagini. Negli scenari immaginari.
Raccontando pezzi di vita ho raccolto ciò che ho vissuto. Bisogna sempre scrivere di ciò che si conosce. Nulla ha senso tranne il vissuto abitato. Tranne ciò che si abita vivendolo.
Questo libro?
Non è un libro. Sono pagine intrecciate lungo i fiumi e gli orizzonti della consapevolezza. Soltanto se si è in rivolta possono dare un senso. Sono pagine di erranza. Resto un errante tra testimoni eretici. L'isola della parola è incastrata nello specchio metafisico.
Ho scritto questa nota per non dire. O per dire. Chi leggerà saprà. Chi non dovesse leggere vivrà tra gli orizzonti e il mare. Chi rimanderà la lettura capirà che oltre può esserci altro. La magia è non raccontabile e il mistero si trova nel sacro e nei riti del mito.
Insomma, procediamo.
LO SPECCHIO METAFISICO
Raccontare la memoria
Si può raccontare la memoria?
Un paese vuol dire non esser soli…
. Da Pavese a Erodoto: Poiché, se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliersi le più belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione, preferirebbe quelle del suo paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie costumanze
.
Una tradizione e un paese. Mi ritorna spessa una frase di don Giussani proprio discutendo di tradizione/i: La prima giustizia verso la dignità dell'educazione e quindi verso la dignità di una cultura è la libertà di valorizzare la propria tradizione
.
Raccontare la memoria viaggiando nei ricordi. Un paesaggio di immagini che diventano custodi di un destino. Cosa è una tradizione? A primo acchito mi viene in soccorso una metafora. Una tradizione potrebbe essere il non dimenticare. Ciò significa mantenere fede al ricordare. Ma il ricordo si perde nel tempo. Il tempo fagocita. Incita, traduce, trasforma. Non tradisce. Il tempo non è mai immobile. Agostianamente non sapremo mai cosa è il tempo.
La tradizione, invece, è la trasformazione di un atto, un gesto, una azione in memoria, ovvero in ricordo che entra nella memoria per abitarla. La tradizione è una memoria dentro il tempo. Immutabile, la tradizione si tra-manda, si rimanda tra generazioni di epoche e di civiltà e riporta sulla scena ciò che si è vissuto. Nulla a che fare con il rimpianto. È la convivente della nostalgia intesa come nostos
.
Pio II il 28 febbraio del 1957, nel suo discorso ai docenti e agli allievi del Liceo Ennio Quirino Visconti di Roma, ebbe a dire: È stato giustamente notato che una delle caratteristiche dei romani, quasi un segreto della perenne grandezza della Città Eterna, è il rispetto alle tradizioni. Non che tale rispetto significhi il fossilizzarsi in forme superate dal tempo; bensì il mantener vivo ciò che i secoli hanno provato esser buono e fecondo. La tradizione, in tal modo, non ostacola menomamente il sano e felice progresso, ma è al tempo stesso un potente stimolo a perseverare nel sicuro cammino; un freno allo spirito avventuriero, incline ad abbracciare senza discernimento qualsiasi novità; è altresì, come suol dirsi, il segnale d'allarme contro gli scadimenti
.
Una osservazione che dovrebbe farci riflettere sopratutto in un tempo sradicante e di sradicamenti. Dovrebbe farci meditare anche sulle diverse sfaccettature che la Memoria nei popoli rappresenta.
Alla visione di Pio II si intreccia un concetto alto di Roberto Guarini, il quale sottolinea: La vita pulsa anche nelle più lontane membra. La varietà della vita si manifesta in mille piccoli particolari. Poiché ogni portale, ogni cancello, ogni scala, ogni proverbio e ogni costume, ogni arte e ogni tradizione traggono la loro esistenza e la loro forma particolare dalla vita
.
Le tradizioni popolari sono modelli di cultura che la tradizione stessa nel viaggio tra tempo è ricordanze ha trasformato in memoria. La memoria di una civiltà che segnala una precisa identità. Le feste, i giochi, la piazza, il vicinato, le processioni, i cortei, i riti, il cunto
intorno al braciere di inverno o insieme davanti al camino, oppure d'estate davanti casa, come accade ancora, per raccontare e ascoltare.
Una Tradizione fatta di fatti, azioni, regole e i luoghi. Il luogo è parte integrante dei riti. Una Tradizione è un rito che si ripete. Ripetere è tutto nella cultura popolare, la quale risponde direttamente al quotidiano dei popoli. Parte integrante della antropologia.
Antropos e Logos. Ma bisogna interagire con la modernità. Le tradizioni popolari restano, appunto, nell'immaginario che si ripetono sotto forma non solo di rito, la gestualità del rito, ma sotto la simbologia dei miti. Sono i miti che alla fine si dichiarano. Noi parliamo il linguaggio dei miti.
Un concetto di Claude Debussy delinea felicemente il valore delle tradizioni: Sono esistiti, ed esistono tuttora, malgrado i disordini che la civiltà reca, piccoli deliziosi popoli che appresero la musica con la semplicità con cui si apprende a respirare. Il loro conservatorio è: il ritmo eterno del mare, il vento tra le foglie, e mille piccoli rumori percepiti con attenzione, senza mai ricorrere a trattati arbitrari. Le loro tradizioni vivono negli antichissimi canti associati alla danza, in cui ciascuno, durante i secoli, ha rievocato il suo rispettoso contributo
.
Le tradizioni popolari, nei vari passaggi reali e metaforici, resistono all'urto di una pressante contemporaneità attraverso ciò che possiamo definire archetipi delle civiltà. Perché tradizioni? Perché popolari? La cultura si esprime nei diversi saperi. I saperi sono le conoscenze che solcano i secoli, le epoche, le età e diventano manifestazioni di una consapevolezza.
Soltanto quando la tradizione assume la virtù
della consapevolezza, si trasforma in conoscenza. Le tradizioni popolari sono la conoscenza di un tempo nel quale i popoli hanno vissuto le loro età. Detto in questi termini si può pensare subito che una tradizione deve spesso confrontarsi, o fare i conti, con una metafisica delle civiltà. Resistono perché le tradizioni abbandonano la cronaca e diventano memoria. Il popolare
come concetto è il dato che una volta
erano appartenenza dei popoli ed erano diffuse nel ceto cosiddetto popolare.
Oggi è la memoria che ha senso. Ecco perché la tradizione è una memoria che resta nella ciclicità del tempo. Il folclore è una manifestazione di essa. Il canto, per restare a un esempio, è manifestazione della tradizione perché essa si estende grazie agli atti, ai gesti, alla danza, alle feste, alla quotidianità: dalla vita come testimonianza, alla morte nei suoi moduli rituali. Dal nascere al funerale. Dalla culla alla celebrazione funebre.
Folclore è ricordare manifestando la vita dei campi. È l'uccisione del maiale nella cultura contadina. È la processione per ogni tipologia di ricorrenza. Il folclore è sempre più una manifestazione che raccoglie i segni della memoria popolare dei popoli.
Tradizioni popolari e folclore sono l'inserto fondamentale delle antropologie e dei fenomeni antropologici che caratterizzano la conoscenza e lo scavo nelle identità dei popoli che diventano segno autentico delle civiltà.
Entra sempre in gioco il valore delle radici. Senza la ri-conoscenza delle radici, non si ha tradizione. Riconoscere e dare senso alle radici. È abitarsi nella memoria che diventa ed è identità. Abitare la nostalgia non è essere nostalgici di un qualcosa che non può esistere più. È darsi appartenenza. Quella vera appartenenza che è Tradizione. I popoli nelle civiltà vivono di Memoria, ma per vivere di memoria hanno bisogno di riappropriarsi della nostal-gia. Dovremmo avere nostalgia della nostalgia del nostos
.
Un paradosso? No. Si tratta di esplorarsi in quello specchio che è l’esistere delle eredità. Una immaterialità che diventa infinito, ma anche indefinibile. La tradizione è un bene culturale che pone a confronto il ricordare la memoria con le azioni, i fatti e gli oggetti. In tal senso è l’immateriale che recupera il materiale per renderlo reale e immaginario nel viaggio delle esistenze. In fondo un paese vuol dire non essere soli
. Come sosteneva Cesare Pavese. Ecco perché la tradizione è la memoria che mai ci rende soli.
Da questo punto interpretativo, Leopardi aveva ben sottolineato: Gli italiani non hanno costumi; essi hanno solo usanze
. Le usanze sono parte integrante delle tradizioni, che implicano una verità. Quella verità che vive nella ricerca antropologica e che Evola aveva ben delineato come memoria nel tempo: Si lascino pure gli uomini del tempo nostro parlare, con maggiore o minore sufficienza e improntitudine, di anacronismo e di antistoria
. Sempre Evola: Li si lascino alle loro
verità e ad un'unica cosa si badi: a tenersi in piedi in un mondo di rovine… Rendere ben visibili i valori della verità, della realtà e della Tradizione a chi, oggi, non vuole il
questo e cerca confusamente
l'altro significa dare sostegni a che non in tutti la grande tentazione prevalga, là dove la materia sembra essere ormai più forte dello spirito
.
Il mondo in rovina è un mondo senza tradizioni. È quel mondo che ha perso persino l’idea e il valore che le civiltà resistono soltanto se le tradizioni resistono nel moderno e nella contemporaneità.
L’antropologia del vissuto
La ritualità della giornata è scandita dal ritmo delle immagini che ritornano come metafore, come linguaggio nascosto, come in un gioco che diventa un girotondo. Dare identità alla tradizione del giorno che passa è un viaggio inappagabile in una antropologia del canto, nel quale la lingua è una etnia di suoni e di ricordi.
Così recita Rocco Scotellaro: Rifanno il giuoco del girotondo | i mulinelli spirati nella via. | Anch'io c'ero in mezzo | nei lunghi giorni di fango e di sole. | Mia madre dorme a un'ora di notte| e sogna le mie guerre nella strada | irta di unghie nere e di spade: | la strada ch'era il campo della lippa | e l'imbuto delle grida rissose | di noi monelli più figli alle pietre. | Mamma, scacciali codesti morti | se senti la mia pena nei lamenti | dei cani che non ti danno mai pace. | E non andare a chiudermi la porta | per quanti affanni che ti ho dato | e nemmeno non ti alzare | per coprirmi di cenere la brace. | Sto in viuzze del paese a valle | dove ha sempre battuto il cuore | del mandolino nella notte. | E sto bevendo con gli zappatori, | non m'han messo il tabacco nel bicchiere, | come per lo scherzo ai traditori; | abbiamo insieme cantato | le nenie afflitte del tempo passato | col tamburello e la zampogna
.
Lingua e letteratura in un processo non omologato o omologante, ma unificante. Ernesto de Martino ha intrecciato il percorso antropologico, la ricerca etno-antropologica e demo-etnoantropologica, con un processo letterario. La letteratura, che rilegge il contesto estetico e linguistico attraverso il modello antropologico, si serve di alcuni codici precisi che sono quelli dell’immaginario, della visione della territorialità e, soprattutto, quelli della tradizione.
Il concetto di tradizione lega il modello antropologico a quello letterario. Tra gli scrittori contemporanei che hanno maggiormente creato un confronto con l’antropologia, e in particolare con la lezione di De Martino, va ricordato inizialmente Luigi Pirandello che può essere definito uno dei primi etno-linguistici poiché si laureò con una tesi sulla parlata di Girgenti. In lui il linguaggio, la parola, la parlata costituiscono un’asse portante all’interno di un processo antropologico. Pirandello accanto alla lingua aveva posto il recupero della tradizione attraverso i riti e il mito della grecità diffusa, ma anche mediante gli archetipi provenienti dalla cultura greca e mediterranea (araba, musulmano-islamica ed egiziana). Un altro importante autore che ha impostato la sua ricerca sul piano letterario antropologico è stato Gabriele D’Annunzio.
Nelle Novelle della Pescara si assiste a un recupero di quella cultura popolare contadina che è alla base della ricerca demartiniana. Il canto popolare diventa canto dell’oralità. L’antropologia nasce grazie a questa visione. Anche le tradizioni sono una trasmissione dell’oralità e D’Annunzio, nelle Novelle della Pescara, porta la loro testimonianza nell’ambito di due aspetti significativi: il concetto di madre-terra e quello di padre-viaggio. Elementi mutuati da Ernesto de Martino dentro una dimensione in cui l’antropologia non è solo virtuale, ma diventa antropologia dell’umanesimo sul cui modello si sono soffermati studiosi come Lévi-Strauss e Malinowski, oltre agli antropologi che hanno avuto un rapporto diretto con la letteratura.
Anche il cinema ha costituito un modello di recupero antropologico demartiniano, dimostrando di servirsi dell’antropologia. Mi riferisco, in special modo, a Ermanno Olmi con L’albero degli zoccoli e al capolavoro di Bertolucci Novecento.
Cesare Pavese è stato un altro importante autore (contemporaneo a Ernesto de Martino) che ha inserito il senso del primitivo, del selvaggio, della magia contadina, all’interno di quella dimensione popolare che diventa percorso onirico. Tre scrittori italiani (Pirandello, D’Annunzio e Pavese) che hanno come radicamento un confronto con la ricerca del rito e del furore demartiniano.
Uno dei primi percorsi antropologici è nato nella fase pre-illuminista. Nel momento in cui si recupera la lingua come forma dialettale, ponendola come modello etnico, si entra automaticamente nel campo della demo-etnoantropologia.
Uno dei grandi poeti ad essere entrato in questa visione, soffermandosi a lungo sullo studio della lingua, è stato Giacomo Leopardi. Nelle sue ricerche di saggistica-linguistica ha analizzato il senso del primitivismo, studiando con attenzione gli archetipi della lingua, ossia come e da cosa nasce la lingua che diventa immaginario popolare. In diverse circostanze ha espresso il desiderio di unificare la lingue, rendendosi ben presto conto dell’impossibilità di una omologazione dei riti e di una unificazione delle tradizioni e dei costumi.
Il suo concetto di viandante
ha come punto di riferimento l’inizio di un nuovo processo in cui la cultura dello straniero
è fondamentale. Sarà, infatti, Leopardi a recuperare il canto del pastore errante, simboleggiante la tradizione di un messaggio non solo biblico e laico, ma anche di un messaggio in cui l’antropologia si impossessa della lingua.
Senza la visione antropologica la letteratura sarebbe solo estetica e avrebbe una funzione esclusivamente esistenziale. L’antropologia atropos
è la comunità della centralità dell’uomo, dei popoli e delle civiltà.
È naturale che anche la letteratura contemporanea si sia avvalsa dello strumento antropologico, come in Carlo Levi, in Ignazio Silone e in tutta quella linea di cultura popolare che nasce con Rocco Scotellaro. Soprattutto la letteratura meridionale diventa letteratura antropologica in quanto lo scavo sul territorio, dentro il territorio e nel territorio, penetra nelle radici della memoria. La letteratura, attraverso l’antropologia, va alla ricerca della memoria e della identità. Conversazioni in Sicilia di Elio Vittorini è un bellissimo libro di estetica, ma principalmente uno straordinario libro antropologico.
Si pensi a Grazia Deledda. Non c’è un solo suo libro, da Canne al vento al Paese del vento a La madre a Cosima che non contenga connotati antropologici. Grazia Deledda fa appello a un’antropologia religiosa, del fatalismo e della magia della religiosità. Forse tra i grandi che ho citato, Grazia Deledda è colei che crea il legame tra la religiosità popolare, il fatalismo e la magia, provenendo da un ambiente geografico in cui la letteratura è etnia, intreccio tra la parola reduce dell’Ottocento e quella moderna.
Ecco perché Grazia Deledda rappresenta uno dei punti di riferimento di un percorso antro-letterario del tutto da rileggere, esattamente come per Corrado Alvaro.
Il suo Gente in Aspromonte possiede il senso dell’antropologia dell’ambiente dei pastori. Linee non omologanti che si intrecciano creando un concetto forte di letteratura della metafora. Ignazio Silone pone una riflessione di fondo nel suo
essere antropologicamente cafone
e legato ad una cultura contadina e della terra, oltre che ad una religiosità profonda al di là del relativo: Vi sono certezze irriducibili. Queste certezze sono, nella mia coscienza, certezze cristiane. Esse mi appaiono talmente murate nella realtà umana da identificarsi con essa. Negarle significa disintegrare l’uomo
.
In che modo può essere considerata l'etnolinguistica in un tale contesto? L’etnolinguistica trova il suo radicamento all’interno del territorio che costituisce l’espressione più vera di un processo culturale che porta in essere singolari testimonianze in termini di un vocabolario linguistico radicato nella tradizione, ma che trova le sue radici nella innovazione.
La lingua è fatta di memorie. Un bene immateriale che rinviene la sua principale espressione nella modalità di comunicazione. Il linguaggio comunica la materialità in modo immateriale.
Gli oggetti vengono espressi in termini linguistici, ma rimandano a una dimensione che ha la sua oggettualità. Attraverso la parola, l’oggetto diventa immateriale. La parola è immateriale e, in quanto tale, propone la proiezione di un’immagine che si fa immaginario.
Nel momento in cui io parlo di un oggetto, la parola in sé me lo mostra esattamente come se lo vedessi. La rappresentazione metaforica dell’oggetto passa attraverso la percezione data dal linguaggio. Una visione fortemente innescata nell’allegoria. L’antropologia si muove intorno alla metafisica e a vere e proprie allegorie, anche se la centralità è rappresentata sia dal luogo geografico, che dal luogo dell’essere.
Per questo motivo sempre più spesso si parla di centralità dell’antropos, di modelli etnici che non potrebbero sussistere senza il vocabolario della lingua. Mettere insieme i concetti etnici e i significanti linguistici porta a questa giunta etnolinguistica e a una chiave di lettura propriamente antropologica.
L’antropologia ci permette di respirare ciò che è stato e che non abbiamo più. È questa la filosofia del tempo, ovvero la filosofia delle comunità e delle civiltà che si trasformano in una vera e propria identità. Ma l’identità conduce ad una appartenenza, di conseguenza il modello etnolinguistico spinge a scavare all’interno di una appartenenza.
Il legame tra identità e appartenenza è forte, ma sia l’uno che l’altro nascono da un principio di base che è l’eredità. La civiltà ha sempre la sua identità. Scavando nella civiltà, la cultura si appropria dei segni che diventano simboli. Anche la parola è un simbolo. Ritrovare questi simboli è sempre più un affondare nelle radici del proprio essere.
L’antropologia dell’essere costituisce un’antropologia dell’umanesimo.
L’antropologia si muove sulla base di una tradizione forte, ma anche sulla volontà di costruire quello che potrebbe andare perduto. Il ricordo nella favola, nella leggenda e nei proverbi rappresenta un grande emisfero in cui il senso del tempo costituisce un percorso trascorso della vita dei popoli che ritorna costantemente.
L’antropologia è un attraversamento dell’età dell’uomo.
Per questo motivo è necessaria la ricerca e ricontestualizzare un tempo che non è mai perduto e che vive dentro di noi. Un dato importante intorno al quale si muovono le cosiddette comparazioni
. Sorella dell’antropologia resta la letteratura che deve uscire dalla dicotomia e dall’oppressione del realismo.
Una letteratura che ha bisogno di queste icone che sono vissuti dentro la linguistica antropologica. Modelli che spesso vengono richiamati e che non vorremmo dimenticare. Perché sentirsi radicati significa non sradicati. Ritualità ed etnolinguistica è un binomio cui il vocabolario
antropologico crea un processo con esiti simbolici. Infatti in Alvaro e nella Deledda il mito si vive come una griglia simbolica.
I simboli sono l'espressione più autentica di un messaggio che trasmette identità. La parola non è solo comunicazione. È percezione e ricerca in un attraversamento