Per me la parola bene vuol dire: 18
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Le loro domande non trovano facili risposte, ma la voglia di conoscere e l'esperienza porterà i due giovani ad affrontare un viaggio attraverso l'Italia, ma soprattutto dentro il loro animo.
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Per me la parola bene vuol dire - ernesto de vita
Ernesto de Vita
Per me la parola bene vuol dire
UUID: da556f44-503a-11ea-8bb2-1166c27e52f1
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
18 dicembre 1999 - L'apoteosi
Cosa hanno rappresentato i diciotto anni nella nostra vita?
Quella svolta come la svolta in quell'ultimo giorno del 1999 che ha chiuso un millennio.
Novità, cambiamenti epocali, responsabilità, futuro, creazione della propria impresa umana, la politica, l'Università, il lavoro, la prima auto, il primo tatuaggio, l'autonomia, il potere, il sesso, i viaggi.
E infine su tutto, a scuola firmare le giustificazioni.
Quel compleanno coincideva con il passaggio storico tra due millenni .
L’ultimo giorno di quel 1999 avrei raggiunto questa meta tanto desiderata, avere diciotto anni.
E poi?
E poi c’era il duemila, un anno difficile solo da immaginare, così carico di aspettative e novità, così diverso.
Esserci voleva dire entrare nel mondo moderno che era altra cosa rispetto al passato e con il suo mutamento avrebbe stravolto tutto e tutto non sarebbe mai stato più lo stesso.
Quel tempo era nella nostra vivida fantasia di immaturi nel pieno della loro adolescenza, un vero p unto di svolta, un momento di luce e grande intensità .
Ma cosa ha significato veramente l'anno zerozerozero?
Io all'epoca ero solo un bambinone di quasi diciotto anni , profondamente annoiato da tutto e da tutti , calato per sbaglio in un mondo che mi appariva del tutto privo di emozioni, di logica, di gioco e di senso, sommerso fino al collo nel disagio umano e sociale.
Nicola Piccione, quando pronunciavo il mio nome allo specchio fingendo di essere un attore di Hollywood, provavo un enorme fastidio, quasi un senso di nausea.
Poca autostima o forse mancanza di fiducia o semplicemente insoddisfazione.
Il fatto di essere nato a Bari invece mi dava una certa contentezza, ero appagato nell’essere fieramente meridionale, orgogliosamente un terrone.
Cercavo di sollevarmi fingendo di essere un uomo, a volte mi costringeva al coraggio, recitando la parte dell’ estroverso e del comunicativo.
Ma il mio vero grande problema era l’ansia da prestazione, significava sentirmi inadeguato a scuola, nella società, nel mondo.
Il problema dei problemi era proprio la scuola, quella fabbrica di giudizi, quello strumento di misura spietato al quale non potevo sfuggire.
Da questo dipendeva il mio futuro, era certo.
La cosa che mi dava più fastidio non era di essere pesato come si pesano le bietole al mercato, non sopportavo la predizione del futuro.
Per il prof di matematica avrei potuto seguire degli studi umanistici, per il prof di lettere avevo buone capacità di riuscire nei lavori manuali, mentre il prof di chimica mi vedeva come un futuro cantante.
Avevo infatti cantato nella recita di natale del 98 riscuotendo un certo successo.
I genitori presenti mentre applaudivano, si erano sollevati dalle loro sedie, una vera ovazione.
A scuola i miei voti erano in realtà sempre sul filo della quasi sufficienza, contornando tutte le sfumature che andavano dal cinque più al sei meno meno.
Eccellevo solo nel voto in condotta a causa della mia timidezza e del mio carattere remissivo.
Non c’era mai un modo o una strategia per uscire dal giudizio di mediocrità che mi era stato etichettato.
La parola mediocre spesso era confezionata tra due parentesi al lato del voto espresso in numeri.
Ed io ero fermamente convinto di essere un mediocre.
Deriva da medio, ma in realtà indica qualcosa sotto la media, di poco valore, è un’ espressione negativa che mi ha segnato per anni, lasciandosi una ferita aperta e dolorosa.
Altro problema era la tristezza che mi mangiava da dentro, rendendomi un’ameba, un infelice.
Io mi sentivo un n aufrago in quella condizione di uniforme monotonia che rende la vita conforme al nostro malessere interiore.
Quel male di vivere che ci portiamo d entro come una specie di malattia incurabile.
Molti la definiscono apatia , cioè la mancanza di motivazione e l'assenza di iniziativa.
Ma era molto di più, qualcosa che si trovava nella sfera dell’ inconoscibile, qualcosa di difficile anche da descrivere o definire.
Per me significava non aver voglia di…
Tutto così alla fine era una grande fatica, anche le cose più normali come vedere gente, andare al cinema, tessere relazioni.
Era una specie di nebbia che avvolgeva i pensieri e la luce intorno non era mai più la stessa ed io finivo con il dare un significato sbagliato anche alla poca positività che era dentro la mia vita.
Non mi consolava. ma credo fossero in tanti nella mia stessa condizione.
Quelli che oggi sono definiti i millennials o generazione Y, i nati a cavallo del ventesimo secolo.
Ragazzi e ragazze affetti da una rara epidemia, il contagio della comunicazione istantanea, iniziata con internet, SMS, e-mail, per arrivare ai giorni nostri a facebook, twitter, MySpace, YouTube.
La comunicazione attraverso una tecnologia in continua evoluzione, sempre più invasiva.
Io stavo malissimo.
Stavo così perché lo volevo.
Era forse il mio modo di protestare.
Ricordo questo mio profondo disagio come una di quelle febbri che sono poca cosa, ma nel perdurare del tempo ti indeboliscono , fino a renderti una larva, incapace di reagire e quindi di esistere.
Papà tu mi sai spiegare cosa vuol dire veramente la parola vivere, tu che hai vissuto un bel pezzo della tua vita ?>
E mio padre, indispettito dalla mia domanda quasi provocatoria, rispose con una voce uniforme e malinconica:
Noi, noi, perché generalizzi in questo modo.
Noi non siamo tutti uguali>
La generazione del duemila, il futuro che arriva, il nuovo che irrompe...
Per essere colti, la nouvelle vague.>
mettiamoci dentro ora anche Quentin Tarantino
Dai papà siamo forse colpevoli entrambi, il tuo inesorabile declino accoppiato alla mia latente giovinezza.>
E lui con uno scatto di ira rispose, questa volta con un tono diverso:
Non ti capisco o forse non capisco più i giovani.>
Io ero giovane.
E' vero.
Ma poi cosa vuol dire veramente essere giovane.
E' qualcosa legato al tempo vissuto?
O magari legato al modo di rappresentarsi, essere uniforme e conforme al resto dei propri coetanei?
Per me così non era, io mi credevo un opposto, uno contro tutto e tutti.
Contro tutta la mia fottuta generazione.
Contro un mondo che era solo apparenza.
Contro un futuro che era solo ricerca del benessere e dell' affermazione.
Contro la scuola, la politica, la chiesa.
Ma nella realtà, io ero solo uno senza pretese e vuoto come il sottovuoto del prosciutto cotto comprato al supermercato.
Forse alla fine papà aveva ragione a non capirmi ,a smettere di comprendermi.
A dire il vero non mi interessava questa disfida tra generazioni, retaggio culturale della società moderna, impalpabile confine tra due mondi che avevano smesso di parlarsi.
Scontro che alla fine era alla base dei discorsi più popolari, lì per i corridoi delle scuole o nei cortili dei condomini di borgata.
Erano quelli i luoghi dove ci si radunava o per fumare di nascosto una canna o per parlare di marmitte modificate e motorini truccati.
Si, trovarsi in quei non-luoghi faceva parte del gioco.
Era la ricerca di una collettività quasi obbligata, il motivo per mantenere le poche relazioni tra simili, una comunione di rapporti al limite della sopravvivenza sociale.
Lì io mi sentivo diverso, mi sentivo inopportuno, fuori luogo, fuori posto, fuori gioco, fuori dal mondo.
Mi sentivo la maschera da rappresentare forzatamente contro la poca, flebile volontà del mio spirito.
Una specie di burattino senza fili.
Non ero in pace con il mondo, si era vero, così quanto ero in guerra con me stesso.
Non mi bastava quel minimo sindacale che la mia mia vita pareva essere in quel qui ed ora .
Io guardavo oltre.
Il mio cruccio era di trovare qualcosa, per svoltare e vivere finalmente un tempo memorabile, per cambiarsi, aprirsi al mondo.
Trovare, cercare, vagare e vagabondare erano i verbi del mio presente, un presente fatto di disordine e mancanza di direzione nelle mie idee.
Un bene o un male?
Mio padre mi osservava, come si osserva un moribondo.
Che pazienza che aveva.
Ed io dall'altra parte affondavo il coltello nella piaga con questioni sempre più vaghe e dalla difficile risoluzione:
qual è lo scopo della nostra vita, cosa vuol dire la parola bene per esempio?>
E lui dopo una breve pausa di riflessione rispondeva con la saggezza dei vecchi, lui che in fondo un vecchio non era:
Questo era veramente un bel ragionamento, mi dicevo dentro di me.
Mi grattai una guancia e dopo aver pensato e ripensato a quanto ci eravamo detti, andai in cucina a preparare la moka.
Passando per il soggiorno, incrociai ancora lo sguardo curioso e sarcastico di mio padre.
Cercare e cercare ancora poteva veramente dare un senso alle nostre vite, anche