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E venne il giorno di Santa Apollonia
E venne il giorno di Santa Apollonia
E venne il giorno di Santa Apollonia
Ebook387 pages5 hours

E venne il giorno di Santa Apollonia

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About this ebook

Roberto è un ragazzo come tanti, che vive in una città come tante, studia come tanti, ha una famiglia come tante, si innamora di una ragazza, Milena: una ragazza sorda!

Un imprevisto, qualcosa di inaspettato, una persona "diversa".

Roberto inizia questo viaggio come per incanto, guidato dal cuore, tutto gli è ostile: la società, gli amici, la famiglia. Uscire dai binari è una scelta difficile, ci vuole coraggio.

Questo libro è una finestra che si affaccia su un mondo che non conosciamo, ci fa sentire da vicino le "grida dei gabbiani", come vivono, respirano, dove nidificano.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 14, 2020
ISBN9788831657075
E venne il giorno di Santa Apollonia

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    E venne il giorno di Santa Apollonia - Gaetano Bernunzo

    633/1941.

    PREFAZIONE

    Mi sto da po­co av­vi­ci­nan­do al mon­do dei sor­di per mo­ti­vi pro­fes­sio­na­li: so­no un at­to­re e so­no af­fa­sci­na­to dal lo­ro mo­do di espri­mer­si.

    Se de­vo es­se­re sin­ce­ro tut­to è par­ti­to leg­gen­do Il gri­do del Gab­bia­no, scrit­to da Ema­nuel­le La­bo­rit, il dia­rio di una ra­gaz­za non  uden­te che in Fran­cia ha un no­te­vo­le suc­ces­so co­me at­tri­ce.

    Chis­sà per­ché ci so­no co­se che ti par­la­no più di al­tre e ti spin­go­no a cer­ca­re di sa­per­ne di più. Per­ché non  mi so­no mai ac­cor­to del­le gri­da dei gab­bia­ni?

    Non ci so­no mol­te oc­ca­sio­ni per ave­re con­tat­ti con i sor­di, non li ve­dia­mo fa­cil­men­te, ma quan­do ca­pi­ta ri­ma­nia­mo in­can­ta­ti a guar­dar­li, sem­bra che ar­ri­vi­no da lon­ta­no, da una par­te lon­ta­na di noi che ap­par­tie­ne a quel bi­so­gno pri­ma­rio di co­mu­ni­ca­re che noi uden­ti ab­bia­mo ri­sol­to pre­va­len­te­men­te con la pa­ro­la.

    Gae­ta­no l'ho co­no­sciu­to all'Isti­tu­to Ma­ga­rot­to di Pa­do­va (uno dei po­chi Isti­tu­ti su­pe­rio­ri ita­lia­ni per sor­di) do­ve svol­ge l'at­ti­vi­tà di Isti­tu­to­re. Ho tro­va­to un uo­mo che ama for­te­men­te il suo la­vo­ro, che si ap­pas­sio­na, com­bat­te la sua lot­ta con­tro i pre­giu­di­zi, le pau­re, l'igno­ran­za che cir­con­da, spes­so ac­cer­chia, que­sta pro­ble­ma­ti­ca.

    Pro­prio co­me Ro­ber­to, il pro­ta­go­ni­sta di que­sto ro­man­zo.

    Ro­ber­to è un ra­gaz­zo co­me tan­ti, che vi­ve in una cit­tà co­me tan­te, stu­dia co­me tan­ti, ha una fa­mi­glia co­me tan­te, si in­na­mo­ra di una ra­gaz­za, Mi­le­na: una ra­gaz­za sor­da!

    Un im­pre­vi­sto, qual­co­sa di ina­spet­ta­to, una per­so­na di­ver­sa.

    Ro­ber­to ini­zia que­sto viag­gio co­me per in­can­to, gui­da­to dal cuo­re, tut­to gli è osti­le: la so­cie­tà, gli ami­ci, la fa­mi­glia. Usci­re dai bi­na­ri è una scel­ta dif­fi­ci­le, ci vuo­le co­rag­gio.

    Que­sto li­bro è una fi­ne­stra che si af­fac­cia su un mon­do che non co­no­scia­mo, ci fa sen­ti­re da vi­ci­no le gri­da dei gab­bia­ni, co­me vi­vo­no, re­spi­ra­no, do­ve ni­di­fi­ca­no.

    E ven­ne il gior­no di San­ta Apol­lo­nia è leg­ge­ro, bel­lo, ci av­vin­ce, ci fa pen­sa­re, ci re­ga­la, ci fa co­no­sce­re, ci fa ri­spet­ta­re e dà vo­ce a chi non ce l'ha: non è po­co!

    Mi­le­na sem­bra di­re an­che a noi:

    De­vi guar­dar­mi in fac­cia, al­tri­men­ti non pos­sia­mo ca­pir­ci!.

    Guar­da­re in fac­cia, co­me la ve­ri­tà.

    Va­sco Mi­ran­do­la

    A Ma­ria Te­re­sa, Do­na­ta e Dé­si­rée

    CAPITOLO I

    Ne­re ron­di­ni si rin­cor­re­va­no, vol­teg­gian­do fe­li­ci, ani­man­do il ter­so cie­lo di Si­ci­lia.

    Per la stra­da an­che le per­so­ne sem­bra­va­no rin­cor­rer­si e qua­si scon­trar­si, men­tre si av­via­va­no ve­lo­ce­men­te chi al la­vo­ro, chi a scuo­la, chi nel vi­ci­no ospe­da­le, chi nei va­ri uf­fi­ci a sbri­gar pra­ti­che, chi al mer­ca­to...

    Era, in­fat­ti, mar­te­dì, gior­no di mer­ca­to ad En­na.

    Ro­ber­to, gio­va­ne stu­den­te uni­ver­si­ta­rio, se­du­to da­van­ti ad un bar, ad un ta­vo­li­no piaz­za­to sul mar­cia­pie­de, si gu­sta­va la fre­sca aria mat­tu­ti­na ed ascol­ta­va esta­sia­to il can­to del­le ron­di­ni, spo­stan­do lo sguar­do tra il cie­lo ed il via vai di per­so­ne che scor­re­va da­van­ti a lui.

    Po­co più avan­ti vi­de un au­to­bus fer­mar­si e, aper­te le por­te, vo­mi­ta­re    fuo­ri uno scia­me di ra­gaz­zi vo­cian­ti che, con i lo­ro zai­ni sul­le spal­le ed a pic­co­li grup­pi, si av­via­va­no ver­so le scuo­le.

    Len­ta­men­te, poi, sce­se­ro del­le si­gno­re di mez­za età e del­le ca­nu­te vec­chiet­te che, con le lo­ro am­pie, e per ora flo­sce, bor­se del­la spe­sa, gli pas­sa­ro­no da­van­ti.

    Ro­ber­to aprì mec­ca­ni­ca­men­te il gior­na­le e sta­va per di­sto­glie­re lo sguar­do dall'au­to­bus quan­do si ac­cor­se che, per ul­ti­ma, era sce­sa una ra­gaz­za.

    Mio Dio, com'è bel­la pen­sò ri­chiu­den­do il gior­na­le e te­nen­do lo sguar­do fis­so sul­la ra­gaz­za; dei bion­di ca­pel­li li­sci in­cor­ni­cia­va­no un can­di­do vol­to di Ma­don­na, ma le lab­bra pie­ne ac­ce­se­ro in lui in­con­fes­sa­bi­li de­si­de­ri. Sot­to una leg­ge­ra giac­chet­ti­na di co­to­ne si im­ma­gi­na­va­no due se­ni pro­rom­pen­ti, men­tre un pa­io di sdru­ci­ti jeans esal­ta­va­no un cor­po per­fet­to.

    Ap­pe­na sce­sa dall'au­to­bus la ra­gaz­za si fer­mò; si si­ste­mò gli at­til­la­tis­si­mi jeans, ti­ran­do­li ver­so il bas­so all'in­ter­no del­le co­sce, si pas­sò una ma­no aper­ta sui ca­pel­li e si av­viò, con una cam­mi­na­ta stra­na ed in­do­len­te.

    Ro­ber­to ri­ma­se col­pi­to e tur­ba­to dal­la sua bel­lez­za ed il suo cer­vel­lo co­min­ciò a ri­mu­gi­na­re al­la ri­cer­ca di una scu­sa per fer­mar­la e po­ter­la co­no­sce­re; ma pri­ma an­co­ra che tro­vas­se il mo­do di fer­mar­la, la ra­gaz­za gli sfi­lò da­van­ti. Per un at­ti­mo i lo­ro oc­chi si in­con­tra­ro­no, poi lei ab­bas­sò lo sguar­do e si al­lon­ta­nò con quel­la stra­na cam­mi­na­ta.

    Il gio­va­ne ab­ban­do­nò il gior­na­le sul ta­vo­lo, si al­zò e co­min­ciò a se­guir­la, am­mi­ran­do­ne da die­tro la per­fet­ta for­ma del cor­po. La  sua men­te non riu­sci­va a tro­var un mo­do, che non fos­se stu­pi­do, per po­ter­la fer­ma­re.

    D’un trat­to la ra­gaz­za gli fu na­sco­sta dai cor­pi di al­tre per­so­ne che gli pas­sa­va­no da­van­ti e si ac­cor­se che in­tor­no a lui la gen­te era au­men­ta­ta: era­no già den­tro al mer­ca­to.

    Ro­ber­to vi­de la ra­gaz­za al­lon­ta­nar­si an­co­ra e per­der­si tra fol­la; ma­le­dì la gen­te che lo ur­ta­va e, de­lu­so per non es­se­re riu­sci­to a tro­va­re una scu­sa per fer­mar­la, si gi­rò per ri­tor­na­re ver­so il bar, con sguar­do as­sen­te.

    Ar­ri­va­to da­van­ti al bar vi­de che al suo po­sto s'era se­du­ta una cop­pia che fa­ce­va co­la­zio­ne con brio­che e gra­ni­ta, men­tre un vec­chiet­to, in un ta­vo­lo ac­can­to, in­for­ca­ti gli oc­chia­li co­min­cia­va a leg­ge­re il gior­na­le che lui ave­va la­scia­to sul ta­vo­li­no. Ro­ber­to guar­dò l'ora: era­no qua­si le no­ve! De­ci­se di an­da­re a ca­sa per stu­dia­re, ma pri­ma di av­viar­si si fer­mò a guar­da­re ver­so la stra­da del mer­ca­to; por­tò poi il suo sguar­do sul­la fer­ma­ta dell'au­to­bus, pen­san­do: Eh no, ca­ra, ci ri­ve­dre­mo! A co­sto di aspet­tar­ti a que­sta fer­ma­ta tut­ti i mar­te­dì del­la mia vi­ta!.

    Ar­ri­va­to a ca­sa, pro­prio da­van­ti al­la por­ta, in­cro­ciò sua ma­dre che sta­va per usci­re:

    - Ro­ber­to, io va­do al mer­ca­to; tor­ne­rò fra un pa­io d'ore.

    - Ok mam­ma, io va­do a stu­dia­re - ri­spo­se la­co­ni­co il fi­glio.

    Il gio­va­ne sta­va per chiu­de­re la por­ta al­le sue spal­le quan­do un'idea gli at­tra­ver­sò ful­mi­nea il cer­vel­lo e, ria­per­ta la por­ta, chia­mò la ma­dre:

    - Mam­ma, vuoi che ti ac­com­pa­gni al mer­ca­to? -  chie­se, con la spe­ran­za di po­ter ri­ve­de­re la ra­gaz­za.

    La ma­dre si gi­rò a guar­dar­lo stu­pi­ta e, do­po un at­ti­mo di per­ples­si­tà, ri­spo­se:

    - Non hai mai vo­lu­to ac­com­pa­gnar­mi! Co­me mai og­gi me lo chie­di? C'è qual­co­sa che non va?

    - Ma no, mam­ma! Mi pia­ce­reb­be an­da­re in gi­ro per il mer­ca­to.

    - Giu­sto og­gi, poi, che de­vo pren­de­re sol­tan­to qual­co­sa per me ed un po’ di frut­ta. Vai a stu­dia­re, in­ve­ce! Lo sai che tuo pa­dre fa sto­rie se non stu­di! Ciao! - Ed an­dò via.

    Ro­ber­to guar­dò sua ma­dre al­lon­ta­nar­si; si chiu­se al­le spal­le la por­ta, at­tra­ver­sò il lun­go cor­ri­do­io ed en­trò nel­la sua stan­za, do­ve tut­to era per­fet­ta­men­te in or­di­ne: a si­ni­stra, pro­prio die­tro al­la por­ta d'in­gres­so ed ai pie­di del let­to, vi era il mo­bi­le con il te­le­vi­so­re ed il vi­deo­re­gi­stra­to­re; il ri­pia­no in­fe­rio­re era com­ple­ta­men­te pie­no di vi­deo­cas­set­te. Ac­can­to al let­to vi era un co­mo­di­no con una aba­t­jour a for­ma di ve­la; su­bi­to do­po la sua scri­va­nia, co­per­ta di li­bri e fo­gli va­ri ben si­ste­ma­ti. Una co­mo­da pol­tro­na, ri­co­per­ta di stof­fa fio­ra­ta, era ac­can­to ad una fi­ne­stra che da­va al­la stan­za una ab­bon­dan­te lu­ce e spa­zia­va, fuo­ri, tra i tet­ti del­le ca­se del­la sot­to­stan­te stra­da ed il cie­lo. Un gran­de ar­ma­dio, che an­da­va da un an­go­lo all'al­tro del­la stan­za, co­pri­va com­ple­ta­men­te una pa­re­te. Tra l'ar­ma­dio e la por­ta d'in­gres­so uno ste­reo era in­ca­stra­to in mez­zo a dei ri­pia­ni in le­gno qua­si com­ple­ta­men­te co­per­ti da di­schi e cas­set­te. Ro­ber­to si get­tò sul let­to, in­cro­ciò le brac­cia so­pra il cu­sci­no, vi pog­giò la te­sta e re­stò im­mo­bi­le a guar­da­re il sof­fit­to. Do­po un po' gi­rò leg­ger­men­te il ca­po ver­so il co­mo­di­no e vi­de le si­ga­ret­te: ne pre­se una e l'ac­ce­se. Tra le gri­gie vo­lu­te del fu­mo gli par­ve qua­si di ve­de­re il vol­to di quel­la ra­gaz­za ed escla­mò: - Quan­to sei bel­la, quan­to sei bel­la!

    Fan­ta­sti­cò an­co­ra per un po’, cer­can­do di im­ma­gi­na­re il mo­do in cui avreb­be po­tu­to co­no­scer­la e qua­le po­tes­se es­se­re il suo no­me: Ti chia­mi Giu­lia? Ire­ne? Ele­na? O sem­pli­ce­men­te Giu­sep­pi­na? Con­cet­ti­na o Car­me­li­na? E se ti chia­mas­si Ro­ber­ta? No, no, pre­fe­ri­rei di no. Va beh, met­tia­mo­ci a stu­dia­re. Spen­se la si­ga­ret­ta, pian­tò i go­mi­ti sul ta­vo­lo ed ap­pog­giò con for­za le ma­ni ai la­ti del­la te­sta.

    Ma non ci fu ver­so: il vol­to del­la ra­gaz­za che ave­va vi­sto po­co pri­ma si in­si­nua­va tra le pa­gi­ne del li­bro e non riu­sci­va ad al­lon­ta­nar­lo.

    La­sciò per­de­re il li­bro, ri­chiu­den­do­lo e spin­gen­do­lo lon­ta­no da sé e pie­gò la te­sta all'in­die­tro al­la ri­cer­ca di una al­ter­na­ti­va al­lo stu­dio. Il suo sguar­do si po­sò sul­lo ste­reo e sui di­schi, or­di­na­ta­men­te ri­po­sti nel­lo scaf­fa­le di le­gno.

    Si al­zò mec­ca­ni­ca­men­te, pre­se un di­sco di De An­drè ed an­dò a sdra­iar­si sul let­to, ap­pog­gian­do il ca­po sul­le ma­ni in­trec­cia­te. La mu­si­ca e le pa­ro­le, dol­ci e strug­gen­ti, del­la Can­zo­ne di Ma­ri­nel­la si dif­fu­se­ro per la stan­za.

    E se si chia­mas­se Ma­ri­nel­la? pen­sò an­co­ra Sa­reb­be fan­ta­sti­co! Sì, mi pia­ce­reb­be!.

    Il di­sco con­ti­nuò a gi­ra­re ma Ro­ber­to non ne sen­ti­va più né la mu­si­ca né le pa­ro­le, per­so die­tro i suoi pen­sie­ri.

    Lo squil­lo del te­le­fo­no lo fe­ce tra­sa­li­re; scat­tò in avan­ti e pri­ma an­co­ra che fa­ces­se un al­tro squil­lo al­zò la cor­net­ta:

    - Pron­to?

    - Ciao, Ro­by, so­no Ele­na! Che ful­mi­ne a ri­spon­de­re!  Non dir­mi che aspet­ta­vi la mia te­le­fo­na­ta! - ag­giun­se ma­li­zio­sa­men­te la ra­gaz­za.

    - Ve­ra­men­te sta­vo stu­dian­do – men­tì Ro­ber­to.

    - Ma sen­to del­la mu­si­ca! Stu­di con la mu­si­ca?

    Il gio­va­ne ar­ros­sì co­me se lei fos­se là da­van­ti a rim­pro­ve­rar­lo.

    - Ma no, no Ele­na! So­no stan­co e sto fa­cen­do cin­que mi­nu­ti di pau­sa!

    - Sai che sta­se­ra ce­nia­mo a ca­sa tua? An­dia­mo al ci­ne­ma do­po­ce­na?

    - Ve­ra­men­te i miei non mi han­no det­to nul­la! Co­mun­que...

    - Ti di­spia­ce? - chie­se la ra­gaz­za ri­sen­ti­ta.

    - Ma no, co­sa di­ci! Mi me­ra­vi­glio so­lo che mia ma­dre non mi ab­bia det­to nul­la, co­me fa di so­li­to, con un gran­de squil­lo di trom­be, ogni vol­ta che tu ed i tuoi ge­ni­to­ri ve­ni­te a ca­sa mia. Sai quan­to ti vuol be­ne e qual è il suo so­gno. Se poi le di­ces­si­mo che sia­mo ve­ra­men­te fi­dan­za­ti, cre­do che im­paz­zi­reb­be dal­la fe­li­ci­tà.

    - E non sa­reb­be ora che glie­lo di­ces­si­mo?

    - Oh  no, non per ora! - ri­spo­se d’ac­chi­to Ro­ber­to ed  ac­cor­to­si che for­se era sta­to un po’ trop­po bru­sco ed ir­ruen­te, ag­giun­se: - Non so­no se­re­no e so­no tan­to stan­co! Tu mi ca­pi­sci, ve­ro? Ho l'ul­ti­ma ma­te­ria da da­re e, con­tem­po­ra­nea­men­te, sto la­vo­ran­do al­la te­si!

    - For­se hai ra­gio­ne, va be­ne! Ciao! - dis­se Ele­na, con­tra­ria­ta, in­ter­rom­pen­do la con­ver­sa­zio­ne.

    Ro­ber­to ri­ma­se a guar­da­re il te­le­fo­no e, pian pia­no, un'idea si fe­ce lar­go tra i suoi pen­sie­ri: po­te­va es­se­re il te­le­fo­no il mo­do per con­tat­ta­re la bel­la sco­no­sciu­ta.  Al te­le­fo­no riu­sci­va a scrol­lar­si di dos­so la sua ti­mi­dez­za, ri­sul­tan­do co­sì più spon­ta­neo, più ro­man­ti­co: co­sì ave­va con­qui­sta­to tan­te ra­gaz­ze. Se riu­scis­si in qual­che mo­do a sa­pe­re il suo nu­me­ro di te­le­fo­no e po­tes­si rac­con­tar­le tut­ta la dol­cez­za che lei ema­na, il mio im­men­so de­si­de­rio di co­no­scer­la, di po­ter­le di­re quan­to sa­reb­be bel­lo... - in­ter­rup­pe il suo pen­sie­ro e, sot­to­vo­ce, escla­mò con to­no me­ra­vi­glia­to: - Amar­la? Od­dio, è pos­si­bi­le? è pos­si­bi­le che mi sia pre­so una cot­ta co­los­sa­le...

    Il suo vi­so si il­lu­mi­nò d'un sor­ri­so dol­ce e, con un ge­sto len­to, ac­ca­rez­zò la cor­net­ta, che ave­va an­co­ra in ma­no, e la ap­pog­giò sul te­le­fo­no che squil­lò nuo­va­men­te; so­vrap­pen­sie­ro, lo la­sciò suo­na­re più vol­te, poi si de­ci­se a ri­spon­de­re:

    - Sì?

    Dall'al­tra par­te del te­le­fo­no la vo­ce squil­lan­te del suo mi­glio­re ami­co, non­ché col­le­ga di stu­dio, Fran­co gli ur­lò:

    - Per­dio, con chi hai par­la­to? Con Na­po­leo­ne Co­la­jan­ni dall'al­di­là? Da ven­ti mi­nu­ti pro­va­vo a chia­mar­ti ed il tuo te­le­fo­no era sem­pre oc­cu­pa­to!

    - Ciao Fran­co! è ve­ro, ma ve­di ho par­la­to con Ele­na e mi so­no poi di­men­ti­ca­to di ri­met­te­re a po­sto il te­le­fo­no.

    -  Oh no! Tut­to ok, non ti pre­oc­cu­pa­re! Che fai di bel­lo?

    - Mi pren­di in gi­ro? Sai che sto scop­pian­do a stu­dia­re! E tu stai

    stu­dian­do?

    - Sì, sì, an­ch'io... - ri­spo­se stan­ca­men­te, ma su­bi­to ag­giun­se: - No, a  di­re il ve­ro og­gi non ne ho pro­prio vo­glia! So­no... so­no... in­som­ma non ho vo­glia! Ci ve­dia­mo po­me­rig­gio?

    - Va be­ne, pe­rò sul tar­di, co­sì ma­ga­ri an­dia­mo a man­gia­re una piz­za!

    - No, sta­se­ra non pos­so; Ele­na mi ha ap­pe­na det­to che vie­ne con i ge­ni­to­ri a ce­na da me! E tu sai...

    - Sì, sì! Lo so! Ave­te tan­ti pro­get­ti da di­scu­te­re, ma­tri­mo­nio e mar­moc­chi da pro­gram­ma­re! Va be­ne, va be­ne!

    - E per for­tu­na né i miei né suoi ge­ni­to­ri san­no che stia­mo ve­ra­men­te as­sie­me... co­mun­que, ci ve­dia­mo ver­so lei sei al bar?

    - Al­le sei?  Ma sì, chi se ne fre­ga! Vuol di­re che stu­die­rò an­che sta­se­ra fi­no a tar­di! Ok, al­le sei! Ciao!

    Ro­ber­to si ri­mi­se sui li­bri e, sta­vol­ta, riu­scì a con­cen­trar­si, al­lon­ta­nan­do la sua an­sia ed il vol­to di quel­la ra­gaz­za sco­no­sciu­ta. 

    Non sen­tì nean­che sua ma­dre rien­tra­re e, pia­no pia­no, apri­re la por­ta del­la stan­za per ri­chiu­der­la su­bi­to, ve­den­do­lo in­ten­to a stu­dia­re.

    All'una ed un quar­to en­trò nel­la stan­za il pa­dre e gli si av­vi­ci­nò, con aria al­le­gra e sod­di­sfat­ta:

    - Al­lo­ra, fi­glio­lo, co­me va?

    - Be­ne, pa­pà, be­ne!

    - Dai! Ab­bia­mo ur­gen­te bi­so­gno di un al­tro col­le­ga in uf­fi­cio! Sbri­ga­ti a lau­rear­ti! 

    Il pa­dre era in­fat­ti un buon av­vo­ca­to ed ave­va una ot­ti­ma re­pu­ta­zio­ne in cit­tà ed uno stu­dio av­via­tis­si­mo, in­sie­me al pa­dre di Ele­na. Mai, pe­rò, si sa­reb­be po­tu­to im­ma­gi­na­re che due per­so­ne, tan­to di­ver­se sia fi­si­ca­men­te che ca­rat­te­rial­men­te, po­tes­se­ro fi­la­re co­sì d'amo­re e d'ac­cor­do. Il pa­dre di Ro­ber­to, in­fat­ti, era an­co­ra un bell'uo­mo al­to e ro­bu­sto, con tan­tis­si­mi ca­pel­li qua­si tut­ti gri­gi, pre­ci­so ed or­di­na­to nel­le sue co­se. Il pa­dre di Ele­na, in­ve­ce, era sì al­to, ma min­gher­li­no e qua­si del tut­to pri­vo di ca­pel­li; con un'aria tra­san­da­ta e, an­che se fos­se sta­to ve­sti­to da Va­len­ti­no, sem­bra­va pe­ren­ne­men­te di­sor­di­na­to! Ed an­che nel la­vo­ro, pur es­sen­do uno sta­ka­no­vi­sta, te­ne­va le car­te tut­te in gi­ro e so­lo lui era in gra­do di met­ter­ci le ma­ni. Pe­rò en­tram­bi ave­va­no una pre­pa­ra­zio­ne ec­cel­len­te, an­che se la dia­let­ti­ca del pa­dre di Ro­ber­to era senz'al­tro più for­bi­ta.

    - Fra po­co più di due set­ti­ma­ne c'è que­sto be­ne­det­to ul­ti­mo esa­me di co­di­ce pe­na­le! Spe­ro che va­da be­ne! Poi, vi­sto che so­no a Pa­ler­mo, ho già pre­so ap­pun­ta­men­to con il pro­fes­so­re per de­fi­ni­re me­glio la te­si!

    - De­vi cer­ca­re di fa­re un buon la­vo­ro con la te­si, per­ché può al­zar­ti un po’ il vo­to fi­na­le.

    - Ho già… una buo­na me­dia; 106 mi sem­bra un buon vo­to!

    - Beh, avre­sti po­tu­to ar­ri­va­re an­che al 110 e lo­de se...

    - A ta­vo­la! - an­nun­ciò la ma­dre dal­la so­glia del­la stan­za.

    - An­dia­mo, dai - dis­se il pa­dre, pren­den­do­lo sot­to brac­cio.

    Ap­pe­na se­du­to il pa­dre pre­se il te­le­co­man­do, ac­ce­se la te­le­vi­sio­ne e re­ci­tò la so­li­ta fra­se, che Ro­ber­to ave­va sen­ti­to fin da pic­co­lo, qua­si fos­se la pa­ro­la d'or­di­ne per ini­zia­re a man­gia­re, sia a pran­zo, sia a ce­na.

    - Ve­dia­mo un po’ cos'è suc­ces­so og­gi!

    Men­tre pran­za­va­no non si sen­ti­va al­tro che la vo­ce del­lo spea­ker del­la te­le­vi­sio­ne ed il tin­tin­nio del­le po­sa­te con­tro i piat­ti; ra­ra­men­te il pa­dre in­ter­ve­ni­va con qual­che bre­vis­si­mo com­men­to!

    Fi­ni­to il pran­zo il pa­dre si al­za­va qua­si su­bi­to e, men­tre nei me­si

    in­ver­na­li an­da­va a ri­me­sco­la­re tra le sue car­te, quan­do ar­ri­va­va­no i me­si cal­di, pro­nun­cia­va la fra­se ri­tua­le:

    - Va­do a fa­re un ri­po­si­no!

    Ro­ber­to si fu­ma­va una si­ga­ret­ta e, qual­che vol­ta, aiu­ta­va la ma­dre ad asciu­ga­re le pen­to­le. Que­sta vol­ta, pe­rò, dis­se al­la ma­dre che sa­reb­be an­da­to su­bi­to nel­la sua stan­za.

    Ac­ce­se lo ste­reo e si but­tò sul let­to; la mu­si­ca por­tò la sua fan­ta­sia al­la ri­cer­ca di quel­la ra­gaz­za vi­sta al mat­ti­no e poi, len­ta­men­te, lo tra­sci­nò nel son­no.

    Fu sve­glia­to dal pa­dre che era en­tra­to nel­la stan­za per sa­lu­tar­lo pri­ma di far ri­tor­no nel suo stu­dio.

    - Mi rac­co­man­do, Ro­ber­to, stu­dia eh! - dis­se l'uo­mo chiu­den­do­si al­le spal­le la por­ta.

    Ro­ber­to an­dò a dar­si una rin­fre­sca­ta al vi­so e, spen­to lo ste­reo, che ave­va con­ti­nua­to a suo­na­re men­tre lui dor­mi­va, ri­co­min­ciò a stu­dia­re. Quan­do man­ca­va­no die­ci mi­nu­ti al­le sei, uscì dal­la stan­za ed av­vi­sò la ma­dre:

    - Va­do a fa­re una pas­seg­gia­ta per sgran­chir­mi le gam­be!

    - Non fa­re tar­di! Sta­se­ra ab­bia­mo Ele­na a ce­na!

    - Va be­ne, ma po­te­vi av­ver­tir­mi pri­ma!

    Uscì e si av­viò ver­so il bar do­ve tro­vò Fran­co già se­du­to ed in­ten­to a leg­ge­re il gior­na­le del­lo sport.

    Ro­ber­to ti­rò via il gior­na­le dal­le ma­ni dell'ami­co:

    - Ba­sta con que­ste stron­za­te!

    - Oh, buo­na­se­ra si­gnor Eco! Co­sa mi pro­po­ne da leg­ge­re, do­po il suo pen­do­lo ed il suo dia­rio mi­ni­mo? - ri­spo­se Fran­co, pron­to e iro­ni­co.

    - Ti pro­pon­go una bir­ra, ci stai?

    - Ci sto! -  e, chia­ma­to il ca­me­rie­re, or­di­nò due bir­re al­la spi­na.

    - Sen­ti, - con­ti­nuò Fran­co - già sta­mat­ti­na al te­le­fo­no mi era sem­bra­to di ca­pi­re che c'era qual­co­sa che ti ro­de­va! Ora, ve­den­do­ti, ho l'im­pres­sio­ne, è so­lo una va­ga im­pres­sio­ne, eh!, che tu ab­bia l'espres­sio­ne da pe­sce les­so che as­su­mi ogni qual­vol­ta ti in­na­mo­ri fol­le­men­te! O sba­glio?

    - Io? - ri­spo­se Ro­ber­to sor­pre­so; e sor­ri­den­do pre­se il boc­ca­le di bir­ra e co­min­ciò a be­re.

    - Co­me non det­to! Vai al ci­ne­ma con Ele­na, do­po­ce­na?

    - No, non ho vo­glia sta­se­ra!

    - Ah sì? Al­lo­ra dim­mi: è bel­la? Co­me si chia­ma? Do­ve l'hai co­no­sciu­ta?

    Ro­ber­to ti­rò un gros­so so­spi­ro, in­col­lò nuo­va­men­te le lab­bra sul bor­do del bic­chie­re e bev­ve me­tà del­la bir­ra!

    - E va be­ne! -  pog­giò il bic­chie­re sul ta­vo­lo e, asciu­gan­do­si le lab­bra con un to­va­glio­lo, con­ti­nuò: - Non so co­me tu fac­cia a ca­pir­lo, ma è ve­ro! Od­dio, nean­ch'io so se... in­som­ma, in­na­mo­ra­to for­se è trop­po! O for­se no!  For­se non è la pa­ro­la giu­sta...

    - Rac­con­ta, rac­con­ta... - chie­se l'ami­co ap­pog­gian­do le brac­cia sul ta­vo­lo met­ten­do­si in po­si­zio­ne di in­te­res­sa­to ascol­to.

    - L'ho vi­sta sta­mat­ti­na per la pri­ma vol­ta e... ve­des­si che bel­la! -  ri­spo­se con una cal­ma che sor­pre­se lui stes­so.

    - Co­me si chia­ma?

    Ro­ber­to fe­ce spal­luc­ce, con un’aria di­spia­ciu­ta:

    - Non lo so! Non ho po­tu­to fer­mar­la...

    - As­sur­do! Sei sem­pre il so­li­to! Ti in­na­mo­ri di una sco­no­sciu­ta! De­vo sem­pre pre­sen­tar­te­le io le ra­gaz­ze! - com­men­tò l'ami­co con aria de­lu­sa.

    - È bel­lis­si­ma! Per­fet­ta! - dis­se Ro­ber­to di­se­gnan­do in aria, con le

    ma­ni, le for­me del cor­po del­la ra­gaz­za!

    - Pfui! - fi­schiò Fran­co in­di­can­do con gli oc­chi un pun­to al­le spal­le dell'ami­co. - Bel­la co­me quel­la?

    Ro­ber­to gi­rò len­ta­men­te la te­sta per guar­da­re la ra­gaz­za che ave­va in­di­ca­to l'ami­co e, ri­gi­ran­do­si di scat­to, dis­se con­ci­ta­to:

    - È lei! È lei! Vie­ne ver­so di noi?

    - Per ora sem­bra che stia aspet­tan­do di at­tra­ver­sa­re la stra­da! - ri­spo­se Fran­co guar­dan­do con am­mi­ra­zio­ne la ra­gaz­za: - Hai ra­gio­ne ad ave­re quell'aria da sce­mo: è ve­ra­men­te bel­la.

    Ro­ber­to tor­nò a gi­rar­si e vi­de la ra­gaz­za at­tra­ver­sa­re la stra­da e spa­ri­re in una stra­di­na la­te­ra­le.

    - Ma da lì non si va da nes­su­na par­te! è la stra­di­na che por­ta sol­tan­to all'in­gres­so di quei due con­do­mì­ni!

    - Non dir­mi che abi­ta là! Ed io non la co­no­sco e non l'ho mai vi­sta? - s'in­ter­ro­gò Ro­ber­to.

    - Beh! Sai com'è: le ra­gaz­zi­ne cam­bia­no e di­ven­ta­no don­ne da un gior­no all'al­tro...

    - No, che sce­mo che so­no! è im­pos­si­bi­le che abi­ti lì! Sta­mat­ti­na l'ho vi­sta scen­de­re dall'au­to­bus!

    - Sa­rà an­da­ta a tro­va­re qual­che ami­ca! - sen­ten­ziò Fran­co – Be­via­mo­ci su ed aspet­tia­mo che esca! Al­la sua sa­lu­te! - con­clu­se al­zan­do il bic­chie­re in di­re­zio­ne di Ro­ber­to.

    - Ascol­ta, Fran­co, de­vi aiu­tar­mi! - Ro­ber­to as­sun­se un'aria pre­oc­cu­pa­ta. - Cer­chia­mo, pe­rò, un mo­do in­tel­li­gen­te per fer­mar­la e co­no­scer­la...

    - Sia­mo al­le so­li­te, io le co­no­sco e tu te le fai! - escla­mò Fran­co fin­ta­men­te ar­rab­bia­to. - Ti ho mai de­lu­so?

    - Beh, que­sta non è co­me le al­tre! Ci ten­go a non ap­pa­ri­re il so­li­to pap­pa­gal­lo che vuol at­tac­ca­re bot­to­ne...

    - Que­ste co­se è me­glio non pro­gram­mar­le! Se ci pen­si su non com­bi­ne­rai mai nien­te! Bi­so­gna agi­re d'ac­chi­to, se­guen­do l'istin­to!

    - Sta­vol­ta ho pau­ra!

    - Sia­mo ner­vo­si eh! - escla­mò Fran­co sfot­ten­te. - Non ti pre­oc­cu­pa­re! Fai con­to di co­no­scer­la già! Aspet­tia­mo che esca e ci pen­so io! Stai cal­mo e gu­stia­mo­ci que­sta bir­ra.

    Ro­ber­to si­ste­mò la se­dia in mo­do da po­ter ve­de­re l'in­gres­so del­la stra­di­na, poi pre­se la bir­ra e la fi­nì d'un fia­to.

    - Non ci so­no al­tre usci­te, mi sem­bra, ve­ro?

    - C'è so­lo que­st'al­tro in­gres­so, qua vi­ci­no - ri­spo­se Fran­co, con si­cu­rez­za - e ba­sta! Dun­que è tut­to sot­to con­trol­lo.

    E se ne stet­te­ro, in si­len­zio, con gli sguar­di pun­ta­ti ai due in­gres­si.

    Il tem­po pas­sa­va, il ca­me­rie­re ave­va già scam­bia­to più vol­te i boc­ca­li di bir­ra vuo­ti con al­tri pie­ni e la ra­gaz­za non era an­co­ra usci­ta.

    - Son qua­si le ot­to - escla­mò d'un trat­to Fran­co, guar­dan­do l'oro­lo­gio - o abi­ta là o si fer­ma an­che per ce­na dall'ami­ca.

    - È im­pos­si­bi­le che abi­ti là, ti di­co! Al­tri­men­ti non sa­reb­be ve­nu­ta in au­to­bus que­sta mat­ti­na! Aspet­tia­mo an­co­ra un po’!

    - Ma Ro­ber­to, al­le ot­to ar­ri­va Ele­na con i suoi ge­ni­to­ri a ca­sa tua!

    - Sì, sì, lo so! - ri­spo­se Ro­ber­to guar­dan­do l'oro­lo­gio e scuo­ten­do ner­vo­sa­men­te le gam­be. - Aspet­tia­mo an­co­ra un po’!

    E si mi­se a gi­ra­re ner­vo­sa­men­te tra le ma­ni il boc­ca­le di bir­ra vuo­to, con lo sguar­do fis­so sui due in­gres­si.

    - Sen­ti, tu sai be­ne  com'è tuo pa­dre. Tie­ne mol­to al­la pun­tua­li­tà! E poi  sai  che  sca­ri­ca la col­pa sem­pre su di me! Non  che  mi  im­por­ti

    mol­to, ma...

    - Die­ci mi­nu­ti, die­ci mi­nu­ti sol­tan­to... - lo in­ter­rup­pe Ro­ber­to e, guar­dan­do l'in­gres­so che sem­bra­va aver in­ghiot­ti­to la ra­gaz­za, con­ti­nuò - Dai, ma­le­di­zio­ne, esci...

    - Ascol­ta: tu co­no­sci quel­li che abi­ta­no in que­sti due con­do­mi­ni? Po­trem­mo riu­sci­re a sa­pe­re chi è e...

    - Ma no, co­no­sco di vi­sta due o tre per­so­ne!

    - Tua ma­dre co­no­sce­rà si­cu­ra­men­te tut­ti! Pren­dia­mo i co­gno­mi dal­le tar­ghet­te, poi chie­di a tua ma­dre chi ha del­le fi­glie e...

    - Ti sei be­vu­to il cer­vel­lo? Chie­de­re a mia ma­dre! ... per lei non c'è nes­sun'al­tra che Ele­na! - lo in­ter­rup­pe ner­vo­sa­men­te Ro­ber­to.

    - Pren­dia­mo lo stes­so i co­gno­mi ed in qual­che mo­do ci in­for­me­re­mo! Dai!

    - Non mi sem­bra una gran­de idea! E... va be­ne, per ora fac­cia­mo co­me  di­ci tu, poi ve­dre­mo di stu­dia­re me­glio la si­tua­zio­ne! Ok, an­dia­mo! - e, al­za­to­si, sta­va per av­viar­si!

    - Ehi! Quan­ta fret­ta! E le bir­re? Ab­bia­mo fat­to una stra­ge! - dis­se Fran­co fer­man­do l'ami­co per un brac­cio.

    - E' ve­ro, scu­sa! La­scia, pa­go io! è col­pa mia se sia­mo sta­ti qui per tut­to que­sto tem­po.

    - Co­me vuoi! - ri­spo­se Fran­co al­zan­do le ma­ni in se­gno di re­sa.

    Ro­ber­to pa­gò ve­lo­ce­men­te le bir­re la­scian­do il re­sto per il ca­me­rie­re e, rag­giun­to Fran­co, si av­via­ro­no en­tram­bi ver­so la stra­di­na da do­ve era spa­ri­ta la ra­gaz­za.

    Svol­ta­ro­no l'an­go­lo a si­ni­stra, sa­li­ro­no i gra­di­ni e, svol­tan­do an­co­ra a si­ni­stra, si tro­va­ro­no di fron­te all'in­gres­so del pri­mo con­do­mi­nio.

    - Cri­sto, c'è un'al­tra usci­ta che dal pri­mo pia­no por­ta al­la stra­da di so­pra! Non lo sa­pe­vi? - escla­mò Fran­co dan­do­si una gran ma­na­ta sul­la fron­te.

    - O Dio! Chis­sà dov'è or­mai quel­la ra­gaz­za! No, non lo sa­pe­vo! - escla­mò Ro­ber­to con aria con­tri­ta e de­lu­sa - Sa­pe­vo che c'era­no sol­tan­to quei due in­gres­si.

    - An­ch'io!  Pas­san­do dal­la stra­da che c'è so­pra, non ci ave­vo mai fat­to ca­so!

    In ef­fet­ti all'al­tez­za del pri­mo pia­no era sta­to co­strui­to un pic­co­lo pon­te, che per­met­te­va di usci­re di­ret­ta­men­te sul­la stra­da, in sa­li­ta, che por­ta­va ver­so il car­ce­re.

    - L'ab­bia­mo per­sa, per og­gi! Ma pren­dia­mo lo stes­so i no­mi! Poi ve­dre­mo!- pro­po­se Fran­co, ve­den­do l'ami­co ab­bat­tu­to e sco­rag­gia­to.

    - Non ser­vi­rà a nien­te! An­dia­mo!

    Ma Fran­co era già da­van­ti all'in­gres­so e leg­ge­va  sul­le tar­ghet­te del ci­to­fo­no:

    - Sal­vag­gio, Ca­ru­so, Ian­nuz­zi, En­te Na­zio­na­le Sor­do­mu­ti... - les­se ve­lo­ce­men­te. - No, que­sta dev'es­se­re un'as­so­cia­zio­ne, non c'en­tra...

    - Dai, la­scia per­de­re, an­dia­mo! - dis­se Ro­ber­to, in­ter­rom­pen­do l'ami­co e guar­dan­do l'ora. - Mio pa­dre sa­rà fu­rio­so...

    - Beh! Dì pu­re che il ri­tar­do è col­pa mia! Tan­to lo so che non gli so­no mol­to sim­pa­ti­co...

    - Ma no che ti vuol be­ne! Lo sai com'è fat­to: ce l'ha con te per­ché sei un po’ in­die­tro con gli esa­mi...

    - Tse! un po’ in­die­tro... - escla­mò Fran­co mu­li­nan­do a mezz'aria la ma­no.

    - ...ed ha pau­ra che con­ta­gi an­che me! - con­ti­nuò Ro­ber­to, pren­den­do­lo sot­to­brac­cio e ri­tor­nan­do ver­so il bar. - Da quel­la vol­ta che ho ri­pe­tu­to quei due esa­mi mio pa­dre è ter­ro­riz­za­to.

    - Ad­dos­san­do la col­pa a me, na­tu­ral­men­te!

    - Dai, non pre­oc­cu­par­ti! Ci sen­tia­mo, eh, ti chia­mo do­ma­ni! - e sa­lu­tan­do l'ami­co con una leg­ge­ra pac­ca sul­le spal­le si di­res­se di cor­sa ver­so ca­sa.

    Tro­vò tut­ti in sa­lot­to: sua ma­dre, in pie­di, vi­ci­no ad Ele­na ed a sua ma­dre, se­du­te sul di­va­no; suo pa­dre e quel­lo di Ele­na era­no se­du­ti sul­le pol­tro­ne, con le gam­be ac­ca­val­la­te. Il pa­dre di Ro­ber­to ascol­ta­va, con una ma­no ap­pog­gia­ta al men­to, quan­to di­ce­va il pa­dre di Ele­na, ma era vi­si­bi­le la sua ir­ri­ta­zio­ne per il ri­tar­do del fi­glio: in­fat­ti guar­da­va in con­ti­nua­zio­ne l'oro­lo­gio.

    Vi­sto Ro­ber­to si al­za­ro­no tut­ti; Ele­na ed i suoi ge­ni­to­ri per sa­lu­tar­lo, men­tre suo pa­dre gli si av­vi­ci­nò con aria mi­nac­cio­sa.

    - Buo­na­se­ra e... scu­sa­te il ri­tar­do - far­fu­gliò Ro­ber­to, nel­la spe­ran­za che il pa­dre non lo rim­pro­ve­ras­se da­van­ti agli ospi­ti.

    - Oh! Pre­su­mo che tu ab­bia una buo­na scu­sa, una scu­sa plau­si­bi­le per que­sto ri­tar­do!

    - Un con­trat­tem­po, pa­pà! Chie­do scu­sa! - ri­spo­se ri­vol­gen­do­si ad Ele­na ed ai suoi ge­ni­to­ri.

    - Ep­pu­re sa­pe­vi che, a par­te il fat­to che ci ten­go al­la pun­tua­li­tà, sa­pe­vi che ave­va­mo ospi­ti, no? Scom­met­to che sei sta­to a per­der tem­po con Fran­co!

    - Sì, so­no sta­to con Fran­co, ma il ri­tar­do è sta­to per cau­sa mia e non sua...

    - Ri­cor­da che chi va con lo zop­po im­pa­ra a zop­pi­ca­re... - sen­ten­ziò il pa­dre, su­bi­to in­ter­rot­to da Ele­na.

    - Oh, ma non im­por­ta! Fran­co, poi, è un ami­co!

    - Sì, non è nul­la! Non è nul­la! - ag­giun­se il pa­dre di Ele­na, che ave­va nel­la man­can­za di pun­tua­li­tà un suo di­fet­to.

    - An­dia­mo a ta­vo­la! - in­vi­tò la ma­dre

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