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Post mortem: Qualcuno cammina
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E-book283 pagine4 ore

Post mortem: Qualcuno cammina

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Info su questo ebook

Dieci racconti che condurranno il lettore nei territori della paura e dell'incubo, uno stile visionario ed evocativo. "Sono qui per te" racconta la mutazione genetica, nel seminterrato di un ospedale, incubatrice per morti viventi; in "Soldato grigio verso soldato blu" il leader di una band heavy metal si sveglia dentro una bara; "Bloody Hellborn" unisce in modo inedito i temi della scrittura e del vampirismo; "Quattro zero zero" racconta la vicenda di un elettricista, di un folle e di una bomba a orologeria; il protagonista di "Al tredicesimo piano della ventitreesima strada", durante una seduta di psicoanalisi, rielabora un incidente attraverso uno schock allucinatorio. Ne "All'ora della morte" un clown è in un limbo, tra la vita e la morte. Anche la mente lucida di un giornalista può fare brutti scherzi, come in "Replay"; ne "I riflessi dell'ambra" un uomo, vedovo e disperato, riceve un messaggio che lo metterà in contatto con una realtà esoterica. "Moon Down" è un ospedale psichiatrico che nasconde un terribile segreto. In "Una vecchia stretta di mano" un bibliotecario incontra un essere attraente e misterioso con cui dovrà affrontare la minaccia più grande per il genere umano.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2020
ISBN9788894966640
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    Anteprima del libro

    Post mortem - Daniela Estrafallaces

    Daniela Estrafallaces -  Post Mortem. Qualcuno cammina

    Musicaos Editore, 2019 - Le Citrine, 4

    Progetto grafico -   Bookground

    Illustrazione di copertina -     Luca Arcuti

    Ogni riferimento a fatti, cose, persone, è da ritenersi puramente casuale.

    Musicaos Editore

    Via Arciprete Roberto Napoli, 82

    Neviano (Le) – tel. 0836.618.232

    www.musicaos.org

    info@musicaos.it

    Isbn del cartaceo 978-88-94966-312

    INTRODUZIONE

    a mio padre

    Penso che una raccolta di racconti nasca dal bisogno di risolvere una questione percettiva, da una necessità di interpretare segnali che producono rumore (si muove lentamente, sottopelle, ma c’è). Sono segnali che per     essere    hanno bisogno di venir fuori. Hanno bisogno di spazio. L’interpretazione di un segnale di questo genere è interpretazione di quella stessa urgenza creativa che gli ha permesso di manifestarsi attraverso il pensiero e che chiede di essere riversata in un canale comunicativo, in un naturale rapporto di causa-effetto. Già, ma come ci si comporta quando si percepisce (e qui il pensiero cosciente cambia del tutto modalità e frequenza trasformandosi in qualcosa di più sottile) qualcosa che chiede di     essere    e di indossare per l’occasione il proprio abito su misura? È come fissare per un tempo indefinibile una scatola (nera) con dentro qualcosa che si agita. Si deve pensare all’approccio giusto per sollevare il coperchio. L’approccio ideale è suggerito spesso dalla materia del contendere. Qui si è trattato di un metaforico giro di tasti di pianoforte, un’alternanza di bianchi e neri in cui il bianco non è solo luce ed il nero non è solo buio. Nelle storie della raccolta avrebbe perciò dovuto esserci una prepotente ingerenza di mondi, una battaglia da un polo all’altro dell’universo creativo.

    Sono qui per te    è una storia esemplificativa in questo senso. In ordine temporale, si tratta del primo racconto concepito in questa raccolta. Ho voluto che si muovesse in un mondo di bianco, dal piano di calpestio non troppo sicuro, com’è quello dei corridoi di un ospedale e di tutta l’immondizia che può scorrerci sotto. (Il cinema ce lo insegna. Mai fidarsi di una cantina con un interruttore rotto che scatta a vuoto. Mai fidarsi di un sotterraneo. Ci sono sempre cose immonde, da quelle parti). Vic Diamond è il tirocinante di pronto soccorso che dovrà suo malgrado riconoscere l’esistenza della     longa manus    di un mondo di tenebra, qualcosa che andrà ben oltre le beghe quotidiane con antagonisti/burocrati come Stan Douglas e Kurt Connor, figure archetipiche ancorate all’apparente stabilità di un tessuto sociale corrotto che va lasciandosi poco alla volta.

    Se si volesse fare un salto indietro alla scatola che fa rumore, Soldato grigio verso soldato blu    ha fatto davvero un gran chiasso. È una storia di quelle in cui il suono prende il timone della narrazione ed interpreta, guida, canalizza l’insieme degli effetti stilistici. C’era una stanza in un vecchio motel lungo un’interstatale americana. La città dov’era la stanza del motel, non si chiamava ancora New York (per dirla in altri termini, il suo abito su misura non era ancora pronto). C’era però uno specchio esagonale attaccato ad una parete tinta di rosso. Si tratta di un dettaglio minimo nel contesto della narrazione ma sul piano elaborativo quel che interessa è ciò che lo specchio avrebbe potuto riflettere. Un assoluto nulla, un vuoto di volontà e intenti, un liquame interiore in cui i pensieri sono respinti e poi trattenuti in un pantano vischioso. Dal punto di vista narrativo quello specchio è poco o più di una metafora, ma allo stesso tempo strumento interpretativo interessante nella fase di raccolta delle informazioni, indispensabile a costruire un personaggio che deve prendere vita su carta. Nella camera del motel c’era Bruce Garner, un musicista rock prodigo di informazioni su quel mondo sommerso dal vuoto interiore che va riempito di colori sgargianti e deformanti, per l’effetto deleterio dello sguardo fisso sui ricordi che si agitano sotto veli troppo sottili.    

    Dal punto di vista della costruzione narrativa di quella storia, lo specchio rappresenta una modalità visiva silente che si affianca alla prevalenza dei suoni forti, un testimone di staticità in cui può essere riflesso solo ciò che può riflettersi. Ne è esempio emblematico la storia gotico-vampirica di     Bloody Hellborn    in cui realtà e fiction romanzesca si scambiano volentieri il ruolo, come il lettore vedrà, riflettendosi ora nell’una ora nell’altra. Ora smettendo di riflettersi.    

    È questa realtà sospesa, un mondo palpabile-impalpabile che racchiude in sé il vero ed il suo rovescio (più ruvido, certo. Ma si devono pur mettere le mani anche nel vuoto per averne un’idea) a tracciare sottili linee di confine fra un racconto e un altro, linee che possono essere facilmente attraversate per vedere cosa c’è dall’altra parte perché il contenuto di questa raccolta è una mappa onirica di angosce che si annidano in uno spazio subcosciente, non abbastanza lontano dai livelli percettivi sensoriali per non essere captato. L’idea della narrazione come spazio labirintico in cui orientarsi senza neppure una torcia è la proposta e colonna portante della raccolta. La metafora del buio, in senso di perdizione, di oscurità, di tenebre, di reclusione si propone di guidare i lettori per contrasto, attraverso canali percettivi che coinvolgono i sensi e, soprattutto, le sensazioni primordiali, le paure antiche depositate nel subconscio come polvere di anni, come polvere di archivi, sotterranei, vecchie cantine e obitori in cui le cose accadono     alla rovescia. Nel mondo selettivo dei racconti, in cui la luce illumina le cose che sarebbe meglio non vedere, si muovono i protagonisti alla scoperta, come il lettore, di quello che ci sarà dall’altra parte.    

    Nelle pagine successive, il testimone passa a loro. Sarà la loro visione, libera dei filtri del     deus ex machina, a provare a fornire un’idea di quello che succede là dove non si tocca, in quegli spazi di buio/luce che nel contesto della narrazione diventano spazi vissuti nella loro interezza, spazi magmatici in cui le storie e gli interpreti emergono con profili personalizzati, insoliti, talvolta spiazzanti anche per lo stesso autore.

    Quegli spazi, veri e propri siti gestazionali della narrazione, si agitano a quei livelli di profondità che raggiungono la coscienza ma non abbandonano la guida delle modalità inconsce, perché il loro obiettivo è quello di toccare e scuotere le paure come stracci, rendendole materia intellegibile nello stadio della consapevolezza. Un passaggio che, nella prospettiva della narrazione, fonde i livelli di realtà con i loro piani paralleli, i mondi surreali, quegli spazi bui, poco esplorati, carichi di insidie che non hanno forma eppure hanno la presa (forte) di dita invisibili. Sono quelle sensazioni radicate nell’inconscio primordiale a creare una realtà che è minaccia alla percezione cognitiva e al tempo stesso suggerimento consapevole di esistenza inarrestabile nel quotidiano. Le paure non si uccidono, perché sono creature di altri mondi che vengono spesso in pellegrinaggio nel nostro. Dietro ad una porta, sotto il letto, in cantina, in una fetta di mondo onirico portato alle estreme conseguenze tanto da non voler mollare la presa sul reale. Sono presenti e si muovono agevolmente alla luce del sole e al calare delle tenebre. Sono sottili ma invincibili e vogliono essere guardate in faccia. E quando ci decidiamo a guardarle vediamo noi stessi. Perché loro sono noi e noi siamo loro. I frutti del bizzarro costume magmatico della luce. E del buio.

    Lecce, 5 aprile 2019

    Daniela Estrafallaces

    SONO QUI PER TE

    Lucy, a piedi nudi in corridoio, scivolava leggera e silenziosa. «Ce la sbrighiamo in pochi minuti, Vic». Un sussurro di voce, piglio da vamp. Andava come una foglia sul pelo dell’acqua. Al decimo piano del     Mercy Soul Hospital    di Chicago. Vic Diamond simpatizzava da sempre per     Mercy Soul. Classe primo ‘900. Gli sapeva di fresco, quel nome. Un secolo di vita e non sentirlo. Era la sensazione nitida delle cose che si apprezzano d’istinto solo se si è capaci di     sentire.     Per tutti quelli che vedono il consenso come un alibi di comodo con indosso il vestito della domenica. È il genere di convinzione che ti fa stare fermo lì, in attesa di un segnale da parte di     Lucy. Finché, al capo opposto del corridoio, la vide agitare una mano e sorridergli: «Okay!», gli gridò. Con un secondo cenno, gli chiedeva di restare lì e guardare. Strizzava un occhio verso di lui e sorrideva di nuovo. Somigliava a Judith in modo incredibile. Persino identica, nel sorriso. «Okay, Lucy. Sono pronto…». La risposta fu un tossicchiare caparbio.     Le cose importanti per i bambini sono le stesse che per gli adulti hanno smesso di avere senso da un pezzo.

    Lucy aprì le danze con un passo strascicato, braccia che fendevano alla rinfusa lo spazio, gli occhi puntati al soffitto a sforzarsi più che potevano di mostrare il bianco. Vic palleggiò le cartelle cliniche da una mano all’altra e sorrise: «Mi sa che dovrò sequestrarti quei fumetti sul comodino, baby…».

    Lucy sfoderò una risatina gorgogliante, senza abbassare la testa. Puntava su di lui, a meno di mezzo metro. Vic si piegò e se la prese sulle ginocchia. «Devo pensare che ci sia di nuovo qualcosa che non va in questa bella testolina?».

    Lucy fece segno di no. Le scostò i capelli dal viso un po’ accaldato, le fece seguire l’indice, in su e giù, destra e sinistra. Le sentì il polso carotideo. Tutto in ordine. Lei intanto parlava, intrecciando le mani. «Ho visto un uomo nel seminterrato… Camminava come ti ho fatto vedere. Aveva gli occhi lucidi e faceva dei versi con la bocca, ma non diceva niente. Poi mi ha morso…». Tirò su la manica sinistra e gli mostrò il polso. Era gonfio e tumefatto.

    Vic ebbe un flash. Si rivide a cinque anni, al funerale della sorella, il vento freddo sulla faccia, la bara coperta. Judith era lì dentro. La fantasticheria infantile aveva minacciato più volte di friggergli il cervello, quel giorno. Qualcosa sotto le dita, e il ricordo si accartocciò e scomparve rapido. Lucy gli stava guidando la mano lì     dentro. Era un tre per due in centimetri, lunghezza verso profondità. Il morso di un animale… Sicuro! Cos’altro avrebbe potuto essere?

    «È una brutta ferita. Mi dici come te la sei fatta     sul serio, Lucy?».

    «Te l’ho detto! Quello lì mi ha morso…».

    Le tirò giù la manica. «Va bene, tesoro. Ti credo. Ora, però, andiamo a mettere qualche punto».

    Alla risposta, si accompagnò una deglutizione a sorpresa. Non gli piacque il modo in cui lo fece. Soprattutto, non gli piacque il motivo. Era qualcosa che sapeva di delirio. Mentre premeva il pulsante di chiamata dell’ascensore, gli venne in mente il giardino. Aveva visto due cani di grossa taglia girovagare nelle aiuole. Che diavolo, gli animali sono la corsia preferenziale delle malattie infettive. Il tempo di suturare la ferita di Lucy e l’avrebbero sentito, giù in amministrazione.     Ti ci vuole un capro espiatorio, non è vero, Vic? Ma falla finita! Quello non è il morso di un cane…    Le funzioni cerebrali dei suoi cinque anni si rispolveravano da cima a fondo senza alcuna richiesta formale.

    «Io sono scappata» insistette Lucy mentre le porte dell’ascensore si aprivano. «Ma lui mi ha seguito e mi ha morso. Sono riuscita a seminarlo solo perché era lento come una lumaca!».

    «Chi è che avresti seminato, Lucy?». Kurt Connor, vice primario di psichiatria, arrivava sempre alle spalle, voce grassa inconfondibile.

    «Nessuno» rispose Vic. «Lucy mi stava solo raccontando un sogno».

    «Non l’ho chiesto a te, dottor Vic…». Sorrideva mostrando i denti, che erano la parte migliore di lui. Victor si strinse nelle spalle. «Fa lo stesso. Lucy è un po’ stanca e non ha voglia di parlare, non è vero piccola?». Lei gli strinse la mano e annuì, gli occhi dritti nell’ascensore. «Ora, se il dottor Connor vuole scusarci, abbiamo da fare un salto in sala suture…».

    Connor gli bloccò l’ascensore con un piede quand’erano già dentro. «Dove credi di andare, dottore? Questo è il     mio    reparto e si dà il caso che sia l’ora del giro visite».

    Vic schioccò le labbra. Poi si chinò all’orecchio di Lucy. «Mostragli il braccio, tesoro. Sta tranquilla…».

    Lucy sollevò la manica. Era appena a metà strada quando Kurt Connor cominciò a saltare come un canguro. «Ma che roba è?!?».

    Vic simulò uno sgomento cameratesco. «Stando alla profondità e alla forma della lacerazione, penserei ad un morso. Ci sono anche i segni dei denti, vedi? Non mi sembra un caso psichiatrico, però… Ed ora, cowboy, ci lasci passare? Ti riporterò la fanciulla fra una mezz’ora al più tardi. Le faccio un rammendo come si deve e te la riporto in tempo per il tuo prezioso giro visite, okay?». Connor ritirò il pi