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Comunità sanante: Dalla pastorale della salute alla salute della pastorale
Comunità sanante: Dalla pastorale della salute alla salute della pastorale
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Comunità sanante: Dalla pastorale della salute alla salute della pastorale

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Se il servizio ai malati e ai sofferenti è per la Chiesa, fin dall’inizio della sua storia, “parte integrante della sua missione” è compito di chi lavora in questo tipo di pastorale rendere “visibile” questa realtà richiamando a tutta la comunità cristiana un suo impegno accanto al malato, a chi soffre, a chi se ne prende cura e nel vasto mondo socio-sanitario. Ma è compito di chi riflette teologicamente sull’agire ecclesiale nel mondo della salute, in particolare accanto alle persone più fragili, richiamare come la dimensione sanante (salvifica e salutare) sia non solo presente in una pastorale specifica, e in ambiti particolari, ma debba essere riconosciuta come parte integrante dell’essere Chiesa e del suo agire pastorale: caratteristica della sua identità e del suo multiforme agire.
Dall’Introduzione 
LanguageItaliano
Release dateFeb 3, 2020
ISBN9788899515195
Comunità sanante: Dalla pastorale della salute alla salute della pastorale

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    Book preview

    Comunità sanante - Luciano Sandrin

    Introduzione

    Cose vecchie e cose nuove

    Chi lavora nel mondo sanitario e si occupa, in modo particolare, dell’accompagnamento pastorale dei malati, delle persone sofferenti e dei loro familiari, lamenta un certo disinteresse della comunità ecclesiale su questo tipo di esperienze. La psiche gioca brutti scherzi anche nelle comunità ecclesiali e in coloro che, a vario titolo, ne fanno parte e sono chiamati ad esserne rappresentanti particolari: strategie difensive della mente, più o meno coscienti, di fronte a realtà drammatiche come il dolore, la fragilità, la malattia, la disabilità e la morte, possono impedire un impegno pastorale (e una riflessione teologica che lo diriga) che sia almeno pari a quello profuso in altri campi.

    L’impegno accanto ai malati, e nel più vasto mondo della sofferenza, non è mai venuto meno nella storia della Chiesa ma, sia sul versante assistenziale che pastorale, è stato spesso delegato ad alcuni specialisti del settore: cappellani ospedalieri, professionisti socio-sanitari, ordini e congregazioni religiose, associazioni specifiche. E oggi, sempre di più, delegato al mondo del volontariato. Il processo di delega porta con sé una certa ambiguità. Se il detto della delega, ciò che viene apertamente espresso, è quello di incaricare qualcuno di interessarsi di uno specifico problema perché lo si ritiene particolarmente competente e di lui ci si fida, spesso il non detto della delega stessa, ciò che non viene espresso ma che può esserne una motivazione più o meno cosciente, è quello di liberarsi di realtà troppo dolorose da guardare in faccia e di difendersi da emozioni forti che ne sono collegate. Anche la comunità ecclesiale può mantenere i suoi equilibri, la sua tranquillità e il suo benessere, delegando ad alcune persone fidate alcuni problemi troppo disturbanti. Con il risultato però che le realtà della malattia e del dolore (e coloro che, come in uno specchio, ce le richiamano) diventano socialmente ed ecclesialmente marginali, se non proprio invisibili. Si rischia così di perdere il contatto con esperienze umane fondamentali ma anche con le proprie radici, e cioè l’obbligante esempio di Gesù e il suo comando di non disgiungere l’annuncio del Vangelo, il dono del battesimo e la guarigione dei malati.

    La difficoltà della comunità ecclesiale di confrontarsi con i temi propri della pastorale che si interessa del mondo della salute e della cura – pastorale sanitaria o pastorale della salute – ha però anche un’altra radice. Anche noi cristiani, ai vari livelli del nostro impegno pastorale, preferiamo evitare gli ambiti di vita, e i problemi che questi sollevano, in cui non abbiamo risposte facili sull’amore di Dio, in cui cioè si indeboliscono man mano le armi della nostra teodicea. Molti cristiani, e anche importanti uomini e donne di Chiesa, non affrontano questi temi se non quando sono improvvisamente forzati ad entrarvi dagli eventi drammatici che toccano la loro vita o quella dei propri cari e delle varie persone con le quali entrano in relazione, ma si ritrovano spesso impreparati a farlo. Gli effetti possono essere poco rispettosi dell’esperienza di chi soffre e pastoralmente deludenti.

    Se il servizio ai malati e ai sofferenti è per la Chiesa, fin dall’inizio della sua storia, parte integrante della sua missione è compito di chi lavora in questo tipo di pastorale rendere visibile questa realtà richiamando a tutta la comunità cristiana un suo impegno accanto al malato, a chi soffre, a chi se ne prende cura e nel vasto mondo socio-sanitario. Ma è compito di chi riflette teologicamente sull’agire ecclesiale nel mondo della salute, in particolare accanto alle persone più fragili, richiamare come la dimensione sanante (salvifica e salutare) sia non solo presente in una pastorale specifica, e in ambiti particolari, ma debba essere riconosciuta come parte integrante dell’essere Chiesa e del suo agire pastorale: caratteristica della sua identità e del suo multiforme agire.

    Queste sono le riflessioni che facevo qualche anno fa, quando scrissi il libro sulla Chiesa, comunità sanante. Ho l’impressione che siano vecchie ma ancora nuove. Mi era stato chiesto di ristampare quel mio vecchio libro, ormai fuori commercio, su questo tema1. Ma ho preferito rimetterci mano e ri-scriverlo perché gli anni passano e, nel frattempo, ho fatto altre letture, altre riflessioni e ho scritto altri libri.

    C’è chi dice che è vietato lamentarsi. E ha le sue buone ragioni. Io credo, però, che a volte il lamento abbia la sua utilità, perché porta alla luce particolari problemi. Ma credo sia importante andare oltre il lamento, focalizzando bene le situazioni, le problematiche e cercando soluzioni possibili, ma trasformandole in proposte concrete e impegnandosi per la loro realizzazione.

    Questo mio libro è un’occasione per condividere alcune riflessioni teologico-pastorali sugli impegni nel campo della salute e della sua cura che non sono delegabili a qualcuno, ma che sono propri della comunità cristiana nel suo insieme e dei vari soggetti che la compongono. Lo faccio privilegiando un modello di chiesa comunità sanante e riflettendo sulle possibili implicazioni pastorali. Ecco il perché del titolo.

    Sono anche convinto che una buona pastorale della salute può provocare la comunità ecclesiale a riflettere sulla salute della pastorale. Ecco il perché del sottotitolo.

    Questo non è un manuale di pastorale della salute, ma una riflessione poliedrica su molti temi che sono collegati a questa attenzione pastorale. La prospettiva è teologico pastorale, e quindi interdisciplinare, con un dialogo particolare con il mare variegato della psicologia nella quale mi sento più a mio agio.

    In questi ultimi tempi è la compassione che sta attirando la mia attenzione. È una tematica interdisciplinare molto presente negli interessi e negli scritti dei vari professionisti che lavorano nel mondo della salute e della sua cura. Ed è pasto­ralmente stimolante. Lo si potrà costatare in varie parti del libro.

    È un libro che scrive cose vecchie ma sempre nuove. Profetico, in questo senso, è il libro che Bernard Häring ha scritto un bel po’ di anni fa e che in questi giorni ho riletto. E che mi ha convinto che i grandi sono sempre un passo avanti a noi. Il titolo del suo libro è tutto un programma: Proclamare la salvezza e guarire i malati. Verso una visione più chiara di una sintesi fra evangelizzazione e diakonia sanante. La parola sanante, con tutta la sua forza dinamica, è una specie di filo rosso che accompagna la sua riflessione e che qualifica la Chiesa come comunità, la sua predicazione, l’amore che è chiamata a testimoniare, la sua diakonia e le sue relazioni.

    Se ci chiediamo di che cosa oggi il mondo abbia più urgente bisogno la risposta è chiara. Ha bisogno «della fede che ci salva e ci guarisce; della testimonianza gioiosa per Cristo Redentore, Liberatore e Terapeuta, del servizio della salvezza dell’uomo in strettissimo collegamento con la diaconia per la salute e il benessere degli uomini, dei singoli, delle comunità e della società in tutte le loro relazioni decisive»2. E la Chiesa nel suo complesso, ma in particolare la Chiesa locale, è chiamata a continuare la sua opera come comunità sanante, impegnata a prendersi cura delle relazioni con chi soffre, a non abbandonare il malato, qualsiasi cosa succeda, e ad essere il segno (sacramento) della presenza sanante del medico divino. In Cristo salvezza e salute sono inseparabili e nell’incontro sanante con lui diventiamo persone nuove, con nuovi rapporti sani con Dio, con il prossimo, con la comunità, con noi stessi e con l’ambiente. Ed è ciò che i suoi discepoli sono chiamati a continuare nella Chiesa attraverso la proclamazione del regno e la testimonianza dell’amore sanante. Nell’azione della Chiesa c’è una stretta connessione tra la predicazione della salvezza, la celebrazione dei sacramenti della salvezza, l’essenza della Chiesa quale sacramento di salvezza e la guarigione dei malati. E non è un impegno che si possa delegare ai singoli, a un gruppo professionale o a specifiche istituzioni. «La Chiesa dev’essere un fattore sanante in quanto comunità». Ed è la comunità il luogo della ricerca del senso che aiuti a vivere la vita anche nei suoi momenti più difficili. Con il contributo di tutti la comunità di fede può diventare una vera comunità, nella quale le relazioni tra le persone sono reciprocamente sananti, fondate sulla virtù sanante della fiducia in Dio e sull’amore sanante. Ed è ciò che i cristiani vivono in particolare nel sacramento dell’Eucaristia. «Come Cristo nel suo ministero sulla terra non dissociò la proclamazione della salvezza dalla guarigione, così la comunità dei fedeli non può separare il memoriale eucaristico dal memoriale che si realizza per mezzo dell’amore sanante verso i malati e i sofferenti»3.

    Tutta la pastorale, nelle sue varie espressioni, è chiamata riscoprire la sua funzione terapeutica, sintesi di amore e di diaconia, e la sua azione sanante, sintesi di salvezza e salute. E nelle nostre relazioni con chi soffre siamo chiamati a fare attenzione alle parole che usiamo quando parliamo di Dio. Sono parole che evocano immagini sananti o immagini che creano un di più di dolore.

    Accanto a chi soffre siamo invitati a levarci i sandali per rispettare il mondo fragile dell’altro, reso ancora più vulnerabile dal suo dolore.

    Luciano Sandrin

    1

    L. Sandrin

    , Chiesa, comunità sanante. Una prospettiva teologico-pastorale, Paoline, Milano 2000.

    2 B.

    Häring,

    Proclamare la salvezza e guarire i malati. Verso una visione più chiara di una sintesi fra evangelizzazione e diakonia sanante, Ospedale Miulli, Quaderni - 1, Acquaviva delle Fonti (Bari) 1984 (or. ted. 1984), p. 9. Da questo testo prendo le riflessioni che seguono.

    3 Ivi, p. 63. Il corsivo è mio.

    1.

    Comunicare il Vangelo

    Siamo chiamati a testimoniare la gioia e la speranza che nascono dalla fede nel Signore Gesù Cristo, vivendo in piena solidarietà soprattutto con i più deboli, durante il viaggio della loro vita, partendo dall’ascolto della Parola fatta carne, di Colui che secondo l’evangelista Giovanni è la narrazione, la spiegazione, la rivelazione del Padre (cfr. Gv 1,18), la sua esegesi. Il compito primario per la Chiesa, in un mondo che cambia e che cerca ragioni per gioire e sperare, resta sempre la comunicazione della perla preziosa del Vangelo, del tesoro che Dio ha nascosto nel campo della storia e delle nostre storie1. Sull’esempio di Gesù Cristo, che è passato facendo il bene e sanando le ferite delle persone che incontrava, siamo chiamati a pregustare e far pregustare gli anticipi di quella comunione che è la vita stessa di Dio, attraverso la polifonia delle quotidiane relazioni di amore che riusciamo a intessere con tutti i figli e le figlie dell’unico Padre, fratelli e sorelle di Cristo e amati dall’unico Spirito: relazioni che esprimono l’amore trinitario di Dio e ne fanno vivere la nostalgia delle origini e il desiderio del suo pieno compimento2.

    Nel cammino della nostra storia Dio ci parla e ci indica in mille modi la via che porta alla verità e alla vita. E la via principale è la carità che Gesù ha posto come criterio del giudizio con cui, al suo ritorno glorioso, chiederà conto a ognuno dell’uso fatto del dono della vita (cfr. Mt 25,31-46). Saranno le domande sulla carità il test di ingresso nella felicità definitiva3. Le distanze relazionali vanno tolte, o almeno ridotte, qui e ora. Il tempo favorevole per creare comunicazione e prossimità è la vita in questa terra. È qui il kairòs, l’opportunità che Dio ci dona. Troveremo quello che abbiamo creato qui, con le nostre stesse mani.

    La carità è la parola-sintesi del vangelo che annunciamo, criterio di giudizio del nostro credere, anima di un ministero di misericordia e di compassione. È Gesù l’oggi di Dio, la sua salvezza nella storia e nella nostra storia. «Ogni giorno può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo. Questo è il senso cristiano del carpe diem: cogli l’oggi in cui Dio ti chiama per donarti la salvezza»4. È importante discernere nell’oggi della storia l’oggi di Dio, la sua voce, cogliere le nuove opportunità e trovare vie sempre nuove per comunicare il suo Vangelo, «prendendo il largo» con fiducia, abbandonando la riva conosciuta e sicura, verso decisioni pastorali coraggiose e appropriate.

    In forza del battesimo che ci unisce al Verbo diventato uomo per noi e per la nostra salvezza, siamo chiamati a farci prossimi, in modo del tutto particolare, agli uomini e alle donne che vivono situazioni di frontiera, nelle varie periferie esistenziali dove la vita manifesta in modi più forti la sua costitutiva fragilità: i malati, i sofferenti, i poveri, gli immigrati, le tante persone che faticano a trovare ragioni per vivere e sono sull’orlo della disperazione, le famiglie in crisi e in difficoltà materiale e spirituale, interi gruppi sociali in cerca di una nuova terra. Il cristiano, sull’esempio di Gesù buon samaritano, non si domanda chi è il suo prossimo, ma si fa egli stesso prossimo all’altro, entrando in un rapporto realmente fraterno con lui, riconoscendo e amando in lui il volto di Cristo, che ha voluto identificarsi con i fratelli più piccoli, più deboli e più fragili. Il vicino lo creiamo noi quando ci ad-viciniamo con gli occhi, il cuore e le mani a chi è in difficoltà. Le nostre comunità, espressione di una chiesa samaritana, sono invitate a un particolare impegno, che unisca evangelizzazione e testimonianza della carità.

    Siamo chiamati a una pastorale di prossimità. Anche i nuovi modi di comunicare devono essere a servizio di questa prossimità, a servizio della comunicazione e dell’amicizia, superando il rischio che il desiderio di connessione digitale finisca per isolarci dal nostro prossimo, da chi ci sta più vicino, dai nostri cari. Siamo chiamati a gettare le reti, ma anche a entrare in rete, a saperla abitare, a «prendere il largo tra gli innumerevoli crocevia creati dal fitto intreccio delle autostrade che solcano il cyberspazio e affermare il diritto di cittadinanza di Dio in ogni epoca, affinché attraverso le nuove forme di comunicazione, Egli possa avanzare lungo le vie delle città e fermarsi davanti alle soglie delle case e dei cuori»5. La capacità di conoscere e utilizzare i nuovi linguaggi è importante per permettere all’inesauribile ricchezza del Vangelo di trovare forme espressive che siano in grado di raggiungere tutte le persone, sapendo parlare alle loro menti e ai loro cuori.

    La rete sta cambiando il nostro modo di vivere e di pensare, di relazionarci con le persone e col mondo intero. Sta cambiando, e cambierà ancora di più, il nostro modo di fare esperienza, di vivere le relazioni e scambiare informazioni, ma anche di pensare e di vivere la fede, di comprendere la chiesa e la comunione ecclesiale, e non solo di comunicare il vangelo. L’immagine della rete nella quale viaggiare, creare relazioni e abitare può dirci qualcosa del nostro essere chiesa, delle relazioni che in essa intessiamo, del nostro pensare la fede e del nostro operare pastorale6. La nostra stessa personalità ne viene influenzata7.

    La rete, come rete umana vivente (living human web), può essere un tema centrale per parlare teologicamente della chiesa e per avviare nuovi cammini pastorali8. La rete offre un linguaggio nuovo per dire la perenne verità del Vangelo, un luogo per vivere esperienze di relazione, di appartenenza e di comunione ecclesiale. I rischi del cyberspazio e delle cyber-relazioni vanno attentamente valutati, attraverso un attento discernimento, ma non devono chiuderci di fronte alle nuove opportunità che vengono offerte. Ai giovani, nativi digitali, è affidato in modo particolare il compito di evangelizzare il continente digitale. La cultura digitale è un segno dei tempi, un’impegnativa sfida pastorale per tutta la comunità cristiana. Può essere un’occasione – ci ricorda papa Francesco – per «riflettere sul fondamento e l’importanza del nostro essere-in-relazione e a riscoprire, nella vastità delle sfide dell’attuale contesto comunicativo, il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine»9. La rete è una risorsa del nostro tempo, una fonte di conoscenze e di relazioni un tempo impensabili, ma ha i suoi rischi. Se serve a collegarci di più, ad aiutarci gli uni gli altri, si può prestare anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti. O essere il luogo per un sempre più invasivo cyberbullismo. La metafora della rete richiama quella della comunità. Ma non sono la stessa cosa. La rete è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri, ma può diventare una ragnatela capace di intrappolare e di aggravare il nostro isolamento. Ne è un esempio il fenomeno pericoloso dei giovani eremiti sociali che rischiano di estraniarsi completamente dalla società.

    C’è un nuovo fenomeno nato in Giappone, ma che ora si sta diffondendo in vari paesi del mondo: l’hikikomori, che indica una particolare condizione scelta da alcuni giovani per i quali l’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere quella di isolarsi dalla società e dalla famiglia, e di sparire ritirandosi completamente nella loro camera. In inglese si usa la sigla Neet (not in education, employment or training) per descrivere i giovani non impegnati nello studio, nel lavoro o in programmi di formazione. Sono giovani che, ad un certo punto della loro vita, mettono fine a ogni forma di comunicazione, anche quella con i loro familiari, e l’unico mezzo utilizzato per connettersi con il mondo è rappresentato da internet e dai vari tipi di social network. E i numeri di questi giovani stanno via via crescendo.

    Essi percepiscono la realtà che è fuori come qualcosa di ingestibile, cha fa paura, e preferiscono chiudersi dentro la loro camera. È una scelta di un autoisolamento, ma anche un messaggio di una grande solitudine interiore. Non è l’eccessiva dipendenza da internet che provoca questo autoisolamento, ma una grande solitudine e la spinta a isolarsi che determina la ricerca di forme alternative di comunicazione via internet, in cui non ci siano confronti faccia-a-faccia, e nelle quali sia possibile costruirsi una immagine fittizia dell’altro ma anche un falso Sé. Qualcuno parla più sfumatamente di ragazzi in panchina. È un fenomeno di autoesclusione sociale. Gli hikikomori vorrebbero far parte della società, ma non possono farlo perché pensano di non essere in possesso di quelle caratteristiche personali necessarie per fare quello che è socialmente richiesto. Può essere la risposta a una pressione sociale, e ad aspettative familiari, alle quali questi giovani non riescono a rispondere. I problemi non vengono vissuti come sfide da affrontare e superare, anche con l’aiuto degli altri, ma come ostacoli insormontabili che portano al fallimento, e dai quali l’unica via è quella di fuggire. Alla vergogna di non riuscire preferiscono lasciare il campo e scegliere l’isolamento10.

    I giovani hikikomori si chiudono nella loro stanza e si assentano dalla vita, ma forse la loro rinuncia è soprattutto una ricerca di qualcosa che è assente nella società. Cercano forme di comunicazione via internet nelle quali il lontano diventa un nuovo vicino, e il vicino è vissuto come lontano. Così uno psicanalista, Luigi Zoja, descrive il giovane hikikomori, nel libro La morte del prossimo: «Si è chiuso a chiave nella sua stanza. Veglia preferibilmente la notte e dorme di giorno. La madre deposita un piatto davanti alla porta, lui lo preleva quando tutti dormono. Non è escluso completamente dal mondo: di solito ha un computer collegato a internet. Mantiene, cioè un certo dialogo con soggetti lontani, mentre tutto il suo comportamento – la porta serrata e gli orari rovesciati – dichiara quella morte del prossimo che i suoi prossimi, i familiari, si rifiutano di ammettere»11.

    Non si può dire che il computer, e tutti i social network nati per facilitare la connessione tra le persone, siano la causa della solitudine. Ma solitudine e computer si accompagnano. E ci può essere il rischio che i mezzi di comunicazione nati per connetterci con i lontani, ci allontanino dai vicini, e cioè dal prossimo che ci è accanto, di là dalla porta di casa o che incrociamo lungo le strade del mondo dove la gente vive. I nuovi mezzi di comunicazione non vanno frettolosamente demonizzati perché tra le strade nelle quali incontrarsi ci sono anche quelle digitali. «Lo ripeto spesso: – scrive papa Francesco – tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima. E le strade sono quelle del mondo dove la gente vive, dove è raggiungibile effettivamente e affettivamente. Tra queste strade ci sono anche quelle digitali, affollate di umanità, spesso ferita: uomini e donne che cercano una salvezza o una speranza. Anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare fino ai confini della terra (At 1,8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti. Siamo chiamati a testimoniare una Chiesa che sia casa di tutti. Siamo capaci di comunicare il volto di una Chiesa così? La comunicazione concorre a dare forma alla vocazione missionaria di tutta la Chiesa, e le reti sociali sono oggi uno dei luoghi in cui vivere questa vocazione a riscoprire la bellezza della fede, la bellezza dell’incontro con Cristo. Anche nel contesto della comunicazione serve una Chiesa che riesca a portare calore, ad accendere il cuore»12.

    Abbiamo bisogno di appartenenze vere che nutrano il nostro bisogno di amore. Se non le troviamo nel prossimo reale le cerchiamo nel lontano virtuale, con il quale possiamo connetterci e disconnetterci a piacere. Col rischio che tutto ciò ci allontani dall’incontro vero con le persone, e pian piano ci porti a un tipo di relazioni tra di noi, anche affettive, che possiamo accendere o spegnere quando vogliamo: continuamente connessi con un prossimo lontano, ma lontani dal prossimo che ci è vicino13. E tutto ciò può aggravare la solitudine dalla quale cerchiamo di fuggire. Tutto ciò provoca la comunità cristiana e sfida la sua pastorale.

    L’immagine del corpo e delle membra, che San Paolo usa per parlare della relazione di reciprocità tra le persone nella sua Lettera agli Efesini (4,25), ci invita a guardare all’uso del social web come complementare all’incontro in carne e ossa con l’altro. Se la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, non tradisce se stessa e può rivelarsi una preziosa risorsa per la comunione.

    1 Cfr.

    Conferenza Episcopale Italiana

    , Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila, 29 giugno 2001.

    2 Cfr.

    N. Pembroke,

    Renewing pastoral practice. Trinitarian perspectives on pastoral care and counseling, Ashagate, Aldershot (England) – Burlington (USA) 2006.

    3 Cfr. L.

    Sandrin

    , Un cuore attento. Tra misericordia e compassione, Paoline, Milano 2016, pp. 32-40.

    4

    Benedetto XVI

    , Angelus del 27 gennaio 2013. Il corsivo è mio.

    5

    Benedetto XVI

    , Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola. Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2010.

    6 Cfr. A.

    Spadaro,

    Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Vita e Pensiero, Milano 2012.

    7 Cfr.

    D. Villani – S. Triberti,

    La personalità online. Tracce digitali dell’identità, Giunti, Firenze 2018.

    8 Cfr.

    B.J. Miller-McLemore,

    The living web and the state of pastoral theology e Revisiting the living human document and web, in

    B.J. Miller-McLemore,

    Christian theology in practice. Discovering a discipline, Eerdmans, Grand Rapids (Michigan)-Cambridge (UK) 2012, pp. 25-69.

    9 Cfr.

    Papa Francesco,

    Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana. Messaggio per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali, 2019.

    10 Cfr.

    K. Bagnato,

    L’hikikomori: un fenomeno di autoesclusione giovanile, Carocci, Roma 2017;

    P. Beccegato – R. Marinaro

    (edd.), Ragazzi in panchina. Storie di giovani che non studiano e non lavorano,

    EDB,

    Bologna 2017.

    11

    L.

    Zoja,

    La morte del prossimo, Einaudi, Milano 2009, p. 67.

    12

    Papa Francesco

    , Comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro. Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2014.

    13 Cfr.

    D.E. Viganò,

    Connessi e solitari. Di cosa ci priva la vita online,

    EDB,

    Bologna 2017.

    2.

    Teologia pastorale o pratica

    La carità pastorale – scrive Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis – «spinge il sacerdote a conoscere sempre più le attese, i bisogni, i problemi, le sensibilità dei destinatari del suo ministero: destinatari colti nelle loro concrete situazioni personali, familiari, sociali» (n. 70). È un invito rivolto a tutta la comunità cristiana e ai vari soggetti che, con diverse competenze, ne esprimono l’agire. È un richiamo all’attenzione che la Chiesa deve porre alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini e delle donne che vivono nell’oggi della storia, ai grandi segni dei tempi e ai segni presenti nei tempi e nella vita delle persone. «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia»1.

    Nel proporre come dovere proprio di tutto il Popolo di Dio, e soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, quello di «ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (Gaudium et spes, 44), il Concilio Vaticano II vede nel reciproco rapporto tra Parola ed esperienze delle persone, non solo un necessario presupposto all’agire pastorale, ma anche un luogo teologico, per un autentico cammino di interpretazione e intelligenza della fede.

    È un cammino non sempre facile. La situazione attuale – il qui e ora nel quale la Chiesa è chiamata a riproporre il perenne messaggio del Vangelo – è complessa, spesso ambigua e contraddittoria. In essa il buon grano e la zizzania sono mescolate (cfr. Mt 13,24ss), non sono sempre distinguibili. C’è bisogno quindi non solo di conoscere, ma soprattutto di interpretare attraverso un attento discernimento, che per il credente viene attuato nella luce e nella forza del Vangelo vivo e personale che è Gesù Cristo (criterio per eccellenza), e con il dono dello Spirito Santo. Nella situazione storica che stiamo vivendo Dio ci chiama, come singoli credenti e come comunità ecclesiale, non solo a esprimere la verità perenne del Vangelo nelle mutevoli circostanze della vita, ma a cogliere i segni della sua presenza, le sue epifanie.

    Il Concilio Vaticano II ci ricorda il «dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ogni generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto» (Gaudium et spes, 4). La Chiesa, segno che riflette efficacemente il mistero della comunione trinitaria, è chiamata a costruire dentro la storia il Regno di Dio che va oltre il tempo, decodificando, nelle vicende, nelle attese e nelle speranze degli uomini i segni della presenza dello Spirito, le tracce della presenza del Dio-con-noi, che abita le nostre storie, si incarna nelle nostre relazioni d’amore, cogliendo le sue indicazioni e i suoi inviti all’azione. Il discernimento dei segni dei tempi – per camminare insieme, scegliere insieme e agire insieme – non può che essere comunitario, sinodale. «Il camminare insieme, la sinodalità, non è una tecnica per vivere bene insieme, ma è la condizione senza la quale lo Spirito santo non può parlare alla chiesa. Gli stessi pastori, i quali per essere tali devono avere il dono del discernimento, hanno la responsabilità di mettersi in ascolto dei fratelli e delle sorelle, del gregge loro affidato, per discernere la volontà del Signore e darle attuazione ecclesiale. Una chiesa sinodale e sinfonica è la chiesa in vista della quale ciascuno deve impegnarsi, secondo il grado di fede e la grazia ricevuta, perché solo così si dà forma al corpo di Cristo nella storia»2.

    C’è uno stretto rapporto tra Chiesa e mondo, un continuo intrecciarsi tra il suo cammino e quello della storia e delle storie delle singole persone. La Chiesa «cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio» (Gaudium et spes, 40). In questo cammino, i segni dei tempi sono opportunità particolari e momenti di grazia in cui le domande degli uomini incrociano la missione della Chiesa chiamandola ad offrire nel presente (anche riscoprendole nel suo patrimonio di fede perché sfidata dalla storia) le risposte che le sono proprie, risposte non predefinite ma provocate dalle esigenze contestuali che fanno "ri-leggere" e inculturare il dato di fede nelle diverse situazioni. «La vicenda di Gesù illustra con estrema chiarezza questo principio: fin dall’inizio, per dare parola al suo annuncio, egli ebbe bisogno della invocazione dei malati, della loro attesa e della loro fede, come attesta il rilievo assolutamente centrale che i miracoli di guarigione assumono nel quadro del suo ministero»3.

    Ma i segni della presenza di Dio, del suo comunicarsi ancora oggi a noi, non devono essere scrutati e interpretati solo dentro ai grandi movimenti della storia, e nelle aspirazioni della comunità nel suo insieme (trovando quindi risposta nelle grandi programmazioni pastorali), ma devono essere cercati e interpretati anche (e forse soprattutto) nel quotidiano della vita delle persone che incontriamo e delle relazioni che intessiamo con loro, e in esse trovare un’efficace risposta. I grandi segni dei tempi si incarnano, trovano espressione e possibile risposta, nei segni presenti nel tempo e nella storia di ognuno di noi.

    La teologia è un parlare di Dio che ha come base il discorso che Lui fa su se stesso e cioè la sua stessa rivelazione avvenuta nella storia e compiuta definitivamente in Cristo. In Lui «piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9)» (Dei Verbum, n. 2). E nell’Incarnazione del Verbo la comunità cristiana vede non solo una verità da credere (ortodossia) ma anche una verità da praticare (ortoprassi). Nel fare teologia, la comunità cristiana è chiamata all’attenzione perché ha il compito di trovare (e ri-trovare) parole e gesti che narrino Dio alle persone che vivono le loro esperienze di gioia, dolore e speranza nell’oggi e rispondano alle profondità (spesso da loro stesse sconosciute) del loro domandare, specialmente nei momenti più fragili della vita. Ed è questo, in particolare, il compito della teologia pastorale o teologia pratica.

    La storia della pastorale coincide con la storia stessa di Dio che fin dalla creazione ha voluto intessere con noi un dialogo per farci partecipare alla sua vita divina: un Padre che in tanti modi, attraverso la mediazione di re e profeti, si è proposto come pastore del popolo scelto creando una particolare alleanza d’amore; un Figlio che nella pienezza dei tempi si è incarnato per prendersi cura del suo gregge; uno Spirito che da secoli sostiene la comunità dei discepoli del Cristo nel continuare la sua opera. La teologia pastorale o pratica, come riflessione sistematica sulla dimensione pastorale della chiesa, sul suo agire dentro la storia, è però più recente. Sotto la spinta del Concilio Vaticano II, i teologi hanno preso sempre più coscienza della storia come luogo proprio della rivelazione salvifica di Dio e di una fede attenta alle sue espressioni: la Parola definitivamente narrata in Gesù Cristo e i segni della presenza del suo Spirito nell’oggi della nostra vita. La prassi credente è vista sempre più come luogo teologico del dirsi di Dio a noi e del nostro poterlo narrare4.

    Giovanni Paolo II, nella Pastores dabo vobis, sottolinea l’esigenza di questa disciplina all’interno del cammino formativo. «Si esige, dunque, lo studio di una vera e propria disciplina teologica: la teologia pastorale o pratica, che è una riflessione scientifica sulla chiesa nel suo edificarsi quotidiano, con la forza dello Spirito, dentro la storia; sulla chiesa, quindi, come sacramento universale di salvezza (LG 48), come segno e strumento vivo della salvezza di Gesù Cristo nella Parola, nei sacramenti e nel servizio della carità»5.

    È necessario lo studio della teologia pastorale, come studio metodico e scientifico della Chiesa, della sua presenza e del suo agire nel mondo, uno studio della Chiesa-in-situazione-storica che – come scrive René Latourelle – appartiene all’intelligenza della Chiesa: «Così, mentre la teologia dommatica tratta della Chiesa nel suo essere essenziale, cioè come mistero e istituzione, umana e divina insieme, visibile e invisibile, la teologia pastorale è una riflessione metodica sul suo essere mutevole, cioè sul mistero della edificazione del Corpo di Cristo che è la Chiesa nella sua attuazione presente e concreta e sulle condizioni di tale attuazione, sul modo con cui la situazione contemporanea reagisce al compimento attuale della missione salvifica della Chiesa»6. In ogni nuova situazione storica vi è un’indicazione di Dio, un suo invito a nuovi compiti, a nuove forme di presenza e di azione. La teologia pastorale o pratica è una teologia storicizzata, ancorata a eventi individuali e collettivi, frutto di scelte umane debitrici nei confronti di un’eredità del passato, sensibili ad una problematica emergente nel presente e attirate dalle possibilità offerte dal futuro, implicata e coinvolta nel divenire e mutare storico della società in cui la Chiesa vive. Essa muta, anche, in rapporto a distinte comprensioni e immagini di chiesa.

    Oggetto di studio della teologia pastorale o pratica è l’agire della chiesa nella sua varietà, è il qui e ora del suo agire nella storia. È la situazione storica vissuta qui e ora dalla comunità credente (ma anche dal singolo credente che vive la sua appartenenza a questa comunità) che diventa luogo teologico e provoca la parola del Vangelo perché manifesti la sua forza salvifica e la sua perenne novità e forza salutare nella situazione data.

    Nel cercare un itinerario metodologico che prenda in considerazione l’agire ecclesiale nel suo passaggio dalla situazione data a quella desiderata, dalla pastorale attuale a quella possibile, dall’ideale alla realtà, si è man mano elaborato un metodo teologico specifico sul quale molti esperti di teologia pastorale o pratica oggi si trovano d’accordo, pur con alcune differenziazioni: convergono sull’analisi valutativa della prassi attuale e della situazione nella quale è inserita, gli obiettivi da raggiungere per rinnovarla, l’esigenza di progettare e programmare il passare dalla prassi rilevata a quella prospettata, e tutto questo alla luce della fede e in base ad adeguati criteri teologici. Si differenziano invece nel descrivere i vari passaggi dell’intero cammino metodologico.

    Nel metodo vedere-giudicare-agire, adottato anche da vari documenti magisteriali (cfr. Gaudium et spes), si parte dalla prassi da analizzare (vedere) e da valutare in base a un quadro dottrinale di riferimento (giudicare) per riorientare la prassi (agire) nell’oggi e in prospettiva futura. È un metodo adottato nelle Conferenze Generali dell’Episcopato latinoamericano di Medellin e di Puebla, messo un po’ da parte a Santo Domingo, perché visto un po’ troppo sociologico, ma ripreso ad Aparecida. I sostenitori di questo metodo rispondono ad alcune critiche affermando che «il vedere è già una lettura credente», fatta da una comunità credente che cerca di discernere negli avvenimenti storici i segni dei tempi7. «Come discepoli di Cristo – ci ricorda il Documento di Aparecida – ci sentiamo sollecitati a discernere i segni dei tempi, alla luce dello Spirito Santo, per porci al servizio del Regno annunziato da Gesù, che è venuto affinché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10)» (n. 33). Per la Chiesa e per la teologia può essere salutare recuperare i diversi modi religioso-culturali attraverso i quali i vari popoli vivono modi creativi e resilienti di essere popolo di Dio e comunità credente che agisce e resiste dentro la storia8.

    Nell’itinerario metodologico teologico, empirico-critico e progettuale, approfondito da Mario Midali, si interroga la teologia a partire dai problemi esistenziali e pratici (empirico) che, a loro volta, sono però compresi a partire da precisi ed espliciti criteri (critico), e in particolare in riferimento a criteri teologici, con un atteggiamento previo e qualificante chiamato «sguardo di fede». Questo metodo comprende tre fasi: 1) l’analisi valutativa della situazione data (fase kairologica); 2) la progettazione della prassi desiderata (fase progettuale); 3) la programmazione del passaggio dalla prassi vigente alla nuova prassi (fase strategica). Queste tre fasi non sono però separate tra loro ma vanno viste come strettamente correlate all’asse portante della progettualità pastorale che le attraversa con caratteristiche proprie9.

    Il metodo del discernimento teologico-pastorale, come caso tipico del discernimento evangelico (cfr. Pastores dabo vobis, 10), è il metodo proposto da Sergio Lanza10. La riflessione teologico-pastorale può essere descritta come un cammino kairologico, pratico, fondato su criteri teologici. La dimensione kairologica dice la relazione teologica alla situazione: indica che per pensare correttamente la pastorale è necessario porsi costantemente in tutto l’itinerario metodologico in relazione con la situazione, ma dice anche che questo approccio alla realtà è sempre connotato da uno sguardo di fede. La dimensione operativa (pratica) sottolinea il riferimento costante all’azione ecclesiale, cioè all’agire, alla pastorale, alle opere, cui tutta la riflessione teologico-pastorale è rivolta, e guida fin dall’inizio l’indagine analitica e i momenti successivi. La dimensione criteriologica indica lo specifico teologico dei criteri che presiedono all’indagine nei diversi momenti, o fasi, del processo metodologico (analisi, valutazione, decisione, progettazione, attuazione e verifica). Le tre attenzioni (kairologica, criteriologica e operativa) sono presenti in ogni momento dell’itinerario metodologico, anche se in modo differenziato, con bilanciamenti diversi. Ciò che qualifica questo metodo è il discernimento, non solo personale ma soprattutto comunitario. Un buon discernimento opera sul filo della memoria storica (la tradizione), ha un risvolto antropologico-culturale attento al qui e ora, e un preciso riferimento ecclesiale in prospettiva operativa: progettazione, attuazione e verifica. Una buona progettazione pastorale è caratterizzata da una serie di elementi che riguardano gli obiettivi in relazione alla situazione specifica, le tappe e i tempi di realizzazione, gli attori interessati e le competenze da attivare, i mezzi in relazione alle reali possibilità della comunità.

    La teologia pastorale o pratica può essere descritta, sinteticamente, come quella disciplina teologica specifica che offre la sua coscienza critica all’agire della chiesa oggi, nelle sue varie forme espressive (martyria, leitourgia, diakonia e koinonia) attraverso un itinerario metodologico di correlazione critica, e cioè di confronto continuo, tra la realtà della pratica ecclesiale e i suoi referenti teologici, che non deve essere concepita dentro un sistema di domande e risposte ma come una conversazione costante, un dialogo continuo tra le richieste presenti nell’oggi, la prassi del popolo cristiano e il Vangelo tramandato e vissuto.

    L’itinerario metodologico, secondo i vari autori, si sviluppa in diversi passaggi o tempi che non sono tanto fasi di riflessione rigide e immutabili, ma momenti di un ciclo ermeneutico in costante interazione, dentro una riflessione e un’interpretazione che dovrebbero essere sempre in movimento. Possiamo sintetizzare così l’itinerario metodologico della teologia pastorale o pratica: percezione delle esperienze pastorali e delle questioni che queste pongono (suscitata da una crisi o da una loro problematizzazione); analisi (e interpretazione valutativa) approfondita dei contesti nei quali queste esperienze vengono vissute e queste pratiche vengono agite; correlazione critica (conversazione) dei dati dell’analisi con i dati della Rivelazione, della tradizione, della storia e con l’esperienza di fede vissuta dalla comunità ecclesiale; progettazione di un agire pastorale rinnovato, perché la chiesa sia veramente più evangelica e più profetica (e la decisione sulle strategie più adatte); attuazione del progetto pensato e deciso; verifica della pratica per valutare la pertinenza e adeguatezza di tutto il processo. E quindi sinteticamente: vedere, interpretare, valutare, progettare, agire e verificare.

    Si può sintetizzare questo itinerario metodologico con tre brevi domande: Che cosa sta avvenendo qui e ora? Quale è la volontà di Dio riguardo a questa situazione? Come devo procedere in maniera efficace per rispondere alla domanda che mi viene posta oggi dalle persone, dalla prospettiva di fede e quindi con lo sguardo di Dio?11 «La fede – ci ricorda la Lumen Fidei, la prima Lettera Enciclica di Papa Francesco, scritta a quattro mani con Benedetto XVI – non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere» (n. 18).

    È la dimensione operativa (il riferimento alla ricchezza e creatività dell’agire) che caratterizza la teologia pastorale: una riflessione teologico-pastorale è tale solo se permette di andare «dalla pastorale alla pastorale», «dall’agire all’agire», se conduce a una decisione operativa – che ha i suoi presupposti, le sue caratteristiche peculiari – e se passa dal

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