Uno sguardo che cambia la realtà: La pastorale della salute tra visione e concretezza
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Book preview
Uno sguardo che cambia la realtà - Conferenza Episcopale Italiana. Ufficio Nazionale per la pastorale della salute
Angelelli
Introduzione
Massimo Angelelli
Quando Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi
per la nostra salvezza, ha assunto e salvato anche i nostri cinque sensi. Così, la pastorale della salute – certamente non unica – ha molto a che fare con la totalità della persona: un essere insieme corporeo e spirituale, in quell’unità inscindibile che è l’essere umano. Pertanto i nostri cinque sensi, con cui siamo abituati a convivere, non sono solo una modalità per rapportarsi con il mondo che ci circonda, ma sono essi stessi via di rivelazione teologica. «E vide e credette» (Gv 20, 8) è la cerniera tra esperienza sensibile e fede. Paradossalmente, il discepolo Giovanni vide
la tomba vuota, ma era condizione sufficiente per trasformare la sua esistenza in modo inaudito ed imprevedibile.
A partire da questa potente trasformazione della realtà, quest’Ufficio Nazionale ha programmato, per cinque anni ed anche all’interno dei Convegni nazionali di pastorale della salute, una scansione tematica che segua e approfondisca tale dimensione teologico-pastorale dei cinque sensi.
Questo volume raccoglie il primo lavoro di ricerca e approfondimento, scientifico, personale, esperienziale, dottrinale, di diversi Autori che sono stati invitati a riflettere sulla realtà, proponendosi di affrontarla con uno sguardo che andasse oltre
la modalità dominante della mera misurazione tecnico-scientifica, oltre le apparenze e la fugacità dell’attimo fuggente, per cogliere l’umano nella sua relazione con la malattia e con la dimensione teologica della salute/salvezza.
Ringrazio tutti quanti si sono messi a disposizione per questo lavoro; porgo adesso al lettore un testo corposo, che esprime sensibilità – sanitarie e pastorali – diverse, nella convinzione che se occorre stare accanto al malato con uno sguardo amoroso, tale amorevolezza si costruisce insieme con il cuore, con la mente, con la preghiera. Papa Francesco fin dall’inizio del suo pontificato ha ribadito che di fronte ad una cultura dello scarto che intende eliminare bambini difettosi o non programmati, anziani consumati, malati improduttivi ed economicamente costosi, occorre con chiarezza e con coraggio essere testimoni e diffusori di questa cultura della vita
(cfr. Francesco, Discorso del 20.9.2013).
Gesù più volte oltrepassa – e pure abbondantemente – ciò che secondo la cultura dell’epoca erano i confini del lecito e del puro, utilizzando i propri sensi a servizio dell’annuncio del Regno di Dio e della guarigione dell’uomo.
Oggi l’annuncio del Vangelo richiede di guardare nuovamente la realtà con occhi innamorati dell’umanità, che soffrono e patiscono insieme a chi soffre, per costruire un percorso in due tappe: dapprima farsi prossimo, per provare a rispondere – nella comunione – alla domanda di senso di fronte alle provocazioni che scaturiscono dalla dura realtà della malattia, della disabilità e della morte, nei diversi contesti (domanda che può traslucere in uno sguardo più che in mille parole); poi, per guardare insieme, come l’apostolo Giovanni, al di là di una tomba vuota, e intercettare con lo sguardo una prospettiva diversa, la pienezza della vita umana in Dio, anticipata e conosciuta nella fede. È uno sguardo aperto alla trascendenza quello capace di vedere il volto di Cristo nella carne sofferente del malato, e quindi capace non solo di entrare nella storia, e possibilmente di cambiarne le storture, ma di farla diventare anche storia di salvezza per ciascuno.
I. Lo stato della questione
Oltre la superficie, uno sguardo in profondità
Cardinale Francesco Montenegro
Anche a nome dei Vescovi d’Italia vi dico il grazie per ciò che fate, per come lo fate, per la vostra presenza speciale in un campo particolare come quello della salute e della sofferenza.
Inizio con un apologo: un ragazzino per andare a scuola passava davanti al laboratorio di uno scultore, lo vedeva battere col martello e lo scalpello su una gran massa di marmo; ogni mattina il ragazzino osservava, fino a quando, un giorno, al posto di quell’enorme blocco compatto e informe, vide un bel leone. Si fermò e chiese allo scultore: chi ti ha detto che dentro il marmo c’era il leone?
Ecco, trovarsi davanti all’uomo sofferente, è come trovarsi davanti a una massa caotica, ma dentro c’è l’uomo.
L’uomo non è solo stato fatto da Dio, ma è impastato di Dio, perciò anche colui che da molti è messo da parte a motivo della malattia è il grande sogno, il più grande miracolo di Dio. Ogni uomo è un insieme di paura e di gioia, di lacrime, di sconfitte e di speranze, nessuno è uno scarto, ciascuno è una storia unica e originale che merita grande attenzione. Ciascuno è una storia straordinaria, perché per lui Dio si è fatto uomo, è stato crocifisso ed è risorto. L’uomo malato, in pigiama, steso sul lettino – forse incosciente o lamentoso – è mistero, come Cristo è mistero.
Nel pianeta della salute e della sanità potranno essere numerose e valide le ragioni economiche, politiche e istituzionali che richiedono la riorganizzazione del sistema sanitario, ma nessuna di queste può spostare la persona umana dal centro dell’attenzione. Scrive Pascal: «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Non serve che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile di ciò che l’uccide perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È da qui che bisogna partire, non dallo spazio e dalla durata, che noi non sapremmo riempire. Impegniamoci quindi a pensare bene: ecco il principio della morale»1.
Con queste parole lo scrittore esprime la fragilità e la grandezza dell’uomo; il salmista da parte sua ha detto: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato»2.
Quando Pietro, a casa di Cornelio, cercò di sintetizzare la vita di Gesù, usò queste parole: «Gesù passò sanando e beneficando tutti»3. La Chiesa oggi è la continuazione di Cristo: essa non è solo esperta dell’umano, anche questo, ma è immessa nell’umano. Come Gesù deve farsi serva, insegnare, praticare l’accoglienza del nascituro e l’attenzione alla vita, deve curare il malato, dare aiuto al povero, ospitare l’immigrato, visitare il carcerato, proteggere l’anziano.
Le fragilità sono dono e sono anche opportunità che trasformano – questa frase-progetto tante volte l’abbiamo sentita – le ferite in feritoie; feritoie che permettono alla luce di penetrare nel buio del dolore.
Leggo quanto Maria Chiara, una ragazza di Sciacca, morta da poco tempo, ha critto agli amici, durante la sua grave malattia, parlando della sua croce, con garbo e dolcezza. «Il Signore in silenzio mi ha dato la grazia di dimenticare il dolore che ho provato per anni, perché eterna è la sua misericordia»: ecco una ferita che è diventata feritoia. Soprattutto nei malati, e in chi si occupa di loro, la Chiesa alimenta la speranza.
Dice un proverbio Tuareg: «Quando incontri un uomo, fermati, guardalo negli occhi e regola il tuo passo sul suo passo»: il malato – se non si vuole che diventi ‘abitudine’ – non può essere mai un caso da studiare
e da sbrigare; il malato resta sempre un uomo come gli altri; ha il diritto di vivere la sua vita e di viverla fino all’ultimo momento.
Papa Francesco parla dell’arte dell’accompagnamento e dell’aver cura, della capacità cioè di accompagnamento e di consolazione. Si ha cura dell’altro quando si sa mettere in sintonia il proprio cuore con il suo; perciò si ha cura non solo perché gli si dà la pastiglia necessaria per la sua salute, ma perché la si accompagna col cuore. La risposta profetica della Chiesa alle sfide e alle provocazioni del mondo della salute è appunto l’offerta della speranza: voi, operatori sanitari e operatori di pastorale della salute, siete importanti in questo impegnativo servizio; le medicine ci vogliono, ma quanto vale la mano che le porge, il sorriso che l’accompagna, la stretta di mano che spesso comunica più forza della medicina stessa!
La Chiesa, nell’ambito della sofferenza, è profezia di speranza quando si ferma, si curva, manifesta vitalità e capacità di amare e aiuta il credente a far abitare nel proprio cuore la sofferenza degli altri.
Paul Claudel ha detto che Dio non è venuto a piangere la sofferenza, ma a riempirla della Sua presenza. Percorrendo i sentieri del servizio, dell’accoglienza, il pianeta-salute può trasformarsi in laboratorio della civiltà dell’amore per una convivenza più umana. «Dove c’è il dolore – dice Wilde – il suolo è sacro».
Di fronte al dolore dell’altro si deve saper essere rispettosi, non si tratta di saper fare lezioni mediche o dare semplicemente ricette, ma di essere capaci di accostare il malato alla stessa maniera di quando ci si trova in un luogo sacro: come Mosè, dobbiamo levarci i sandali perché in quel momento calpestiamo un terreno sacro.
È un terreno sempre nuovo perché ogni uomo sofferente è novità per noi; nessun uomo è uguale a un altro, anche se può sembrare così, perché, nonostante il dolore appaia uguale per tutti, è sempre diverso per tutti. La sofferenza è un’esperienza terribilmente personale, è unica e proprio per questo può diventare fonte di sorprese. Gesù – dice ancora Claudel – non è venuto a distruggere la croce, ma a distendersi sopra.
Non dimentichiamo che da Betlemme in poi ogni luogo è sacro, è cioè degno di Dio: la chiesa, il letto, l’ospedale, la strada, la fame, la sete, il barcone, la prigione.
Sushako Endo, nel romanzo Il Samurai, scrive: «Credo di capire perché in ogni casa di quei paesi lontani – si riferisce all’Europa – c’è l’immagine di quell’uomo in croce. In fondo al cuore degli uomini c’è il desiderio di avere qualcuno accanto per tutta la vita, qualcuno che non li tradisca, che non li abbandoni, fosse pure un cane rognoso. Quell’uomo si trasformò in un cane rognoso per amore degli uomini»4.
L’uomo della Croce ha chiesto ai suoi amici compagnia e consolazione nel momento del dolore, ha subito la sofferenza, non l’ha cercata e neppure amata e, non potendola evitare, l’ha presa su di sé in un atto di obbedienza, «se possibile, che io non soffra»5 ha detto Gesù al Padre. Conoscendo bene il linguaggio del dolore, Gesù non è rimasto impassibile, quasi una statua di marmo, dinanzi al dolore degli uomini, ma ha pianto per Lazzaro, ha toccato il lebbroso, si è fermato accanto alla mamma in lacrime che portava il figlio alla sepoltura, si è