Abitare i margini: Politiche e lotte per la casa nella Torino degli anni Settanta
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L’industrializzazione che «si fondava, più che su qualsiasi altro fattore, su un contributo eccezionale di risorse umane», cambiò il volto della città. Il costante aumento della popolazione (sino all’80 per cento tra il 1951 e il 1971) rese esplosiva la questione della casa. Nelle periferie sorse un gran numero di nuovi agglomerati di palazzi. Erano gli anni d’oro dell’edilizia economico-popolare, per lo più disinteressata ai problemi sociali posti dai nuovi insediamenti. E subito fiorirono le proteste e si sviluppò il conflitto.
Attraverso il caso-studio delle vicende di un quartiere torinese negli anni Settanta, Giulia Novaro pone alcune delle questioni di allora e di oggi: le politiche e le lotte per la casa, l’assetto delle periferie, il protagonismo dei cittadini, l’effettività del diritto all’abitare.
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Abitare i margini - Giulia Novaro
Giulia Novaro
Abitare i margini
Politiche e lotte per la casa
nella Torino degli anni Settanta
Edizioni Gruppo Abele
© 2020 Associazione Gruppo Abele Onlus
corso Trapani 95 - 10141 Torino
tel. 011 3859500
www.edizionigruppoabele.it
edizioni@gruppoabele.org
isbn 9788865792278
Foto di copertina tratta da: Marisa Sismondini, Il Quartiere 33. Analisi sociologica della vita di un quartiere di Torino, Facoltà di Magistero, corso di laurea in Pedadogia, rel. prof. Luciano Gallino, a.a. 1970-1971; presso Archivio Storico dell’Univeristà di Torino.
Il lavoro qui pubblicato ha vinto, per l’anno 2019, il concorso indetto dall’Associazione Scuola e società al fine di ricordare la vita e l’opera di Margherita D’Amico (Calatafimi, Tp 1940 – Torino 2017) e intitolato La ricerca della parte giusta. Le dinamiche sociali e politiche nella contesa tra movimenti di opposizione e potere.
La pubblicazione del volume avviene in collaborazione con l’Associazione Scuola e società.
Il libro
Torino, anni Sessanta-Settanta del Novecento: l’era del boom, della crescita economica. La più grande che il Paese ricordi.
L’industrializzazione che «si fondava, più che su qualsiasi altro fattore, su un contributo eccezionale di risorse umane», cambiò il volto della città. Il costante aumento della popolazione (sino all’80 per cento tra il 1951 e il 1971) rese esplosiva la questione della casa. Nelle periferie sorse un gran numero di nuovi agglomerati di palazzi. Erano gli anni d’oro dell’edilizia economico-popolare, per lo più disinteressata ai problemi sociali posti dai nuovi insediamenti. E subito fiorirono le proteste e si sviluppò il conflitto.
Attraverso il caso-studio delle vicende di un quartiere torinese negli anni Settanta, Giulia Novaro pone alcune delle questioni di allora e di oggi: le politiche e le lotte per la casa, l’assetto delle periferie, il protagonismo dei cittadini, l’effettività del diritto all’abitare.
L’autrice
Giulia Novaro è laureata in Scienze Storiche ed è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino.
Indice
I. La questione abitativa oggi
Casa e città
Le politiche per la casa dal dopoguerra al nuovo millennio
Torino. Un caso-studio
II. Torino, corso Taranto: il quartiere, gli abitanti, le lotte (1967-1973)
Torino, primi anni Sessanta
La progettazione e la costruzione del quartiere
La composizione sociale
Sovraffollamento, mancanza di servizi e spazi collettivi
Nasce un movimento
Alleanze e divisioni
Cambia la città: il decentramento amministrativo
III. Casa e movimenti: continuità e rotture
Ieri
Oggi
Il lavoro di ricerca, da cui è in buona parte tratto questo volume, rientra nel progetto Ripensare la città nell’Italia del miracolo economico: il caso del triangolo industriale del Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino e nel progetto di Ateneo Homes for Ordinary People in post IIWW Italy. Vorrei ringraziare la prof.ssa Daniela Adorni e il dott. Davide Tabor, relatrice e correlatore della mia tesi, per l’aiuto, i consigli e il sostegno, il dott. Pasquale Fedele e il dott. Daniele Darchini dell’Ufficio Atc per lo studio, l’analisi, la ricerca storica e sociale dell’edilizia pubblica per la collaborazione e le riflessioni condivise, il Comitato inquilini di corso Taranto per la disponibilità. Un grazie, inoltre, allo Spazio popolare Neruda, per il supporto nella stesura dei capitoli sulla situazione abitativa attuale e sulle odierne lotte per il diritto alla casa.
Desidero, infine, ringraziare gli organizzatori e le organizzatrici del Premio Margherita D’Amico, la giuria e l’associazione culturale Scuola e Società per avermi offerto questa possibilità, e le Edizioni Gruppo Abele, per il lavoro fatto e per avermi aiutata in questo percorso.
I.
La questione abitativa oggi
Casa e città
Il problema casa in Italia
Nel solo 2018 sono state emesse in Italia più di 56.000 sentenze di sfratto, quasi tutte per morosità. Oltre 30.000 sono state quelle eseguite con l’uso della forza pubblica e più di 118.000 le richieste di esecuzione presentate dagli ufficiali giudiziari¹.
Le famiglie in attesa di casa popolare nel 2015 erano, secondo Federcasa, 650.000, circa il 16% delle famiglie in affitto. Un numero di poco inferiore a quello dei nuclei che attualmente dispongono di alloggi di edilizia pubblica.
Un milione e 700.000 sono le famiglie considerate in condizione di disagio abitativo poiché l’incidenza del canone sul reddito familiare supera il 30%. Esse costituiscono più del 40% dei nuclei in affitto e appartengono per la quasi totalità alle due fasce di reddito più basse.
Il 13,6% delle famiglie residenti in Italia ha arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti e il 21,2% non riesce a riscaldare adeguatamente la propria casa. Più del 17% delle famiglie vive in una casa sovraffollata, cioè in un’abitazione nella quale il numero dei componenti è superiore agli spazi disponibili².
Carenti sono i dati per quel che riguarda le persone senza casa o con sistemazioni provvisorie e quelli relativi alle costruzioni abusive. Totalmente assenti i dati sulle condizioni abitative degli immigrati irregolari.
Sette milioni sono invece le abitazioni vuote o scarsamente utilizzate³.
Solo l’86% del patrimonio immobiliare Erp (Edilizia residenziale pubblica) è assegnato; il restante è invece sfitto, principalmente perché gli enti non dispongono della liquidità necessaria per provvedere alla manutenzione delle strutture.
A Roma l’amministrazione comunale assegna circa 490 case popolari l’anno: mantenendo questo ritmo ci vorrebbero circa 35 anni per soddisfare i 16.000 nuclei in graduatoria che, nel frattempo, continuerebbero ad aumentare in maniera esponenziale.
Questi pochi numeri forniscono una prima immagine del problema della casa in Italia, una questione strutturale, duratura, con forti implicazioni sul reddito, sullo sviluppo, sull’ambiente, sulla crescita e sulla qualità urbana, sui rapporti sociali, ma che è invece tendenzialmente dipinta con le tinte dell’emergenzialità, e così affrontata.
Una situazione che si è andata ulteriormente ad aggravare in seguito alla crisi economica e occupazionale del 2008, esasperando un quadro già critico e andando a colpire sia categorie considerate già fragili sul piano del reddito, come mostra l’incremento del numero di sfratti, sia un’ampia fascia grigia fino a quel momento ritenuta al sicuro
: persone con un reddito o una pensione da cui non riescono però a trarre una garanzia abitativa sufficiente, famiglie monoreddito, nuclei familiari monogenitoriali, lavoratori precari, pensionati, giovani. Soggetti sempre più esposti al problema della casa sia nella ricerca di un’abitazione a costi accessibili, sia nella difficoltà di mantenerla o nel continuare a sostenere mutui attivati in situazioni di maggiore stabilità.
I dati citati in apertura forniscono anche alcuni elementi sulla qualità e la quantità dell’intervento statale. Le risorse impiegate in materia, pari al 26% degli investimenti pubblici negli anni Cinquanta, sono crollate negli anni Duemila a meno dell’1%, ancor meno rispetto ai già carenti investimenti degli altri Paesi Ue. Ci troviamo al termine di un processo di dismissione del patrimonio pubblico e di totale arretramento dello Stato dal settore. Un processo cominciato già alla fine degli anni Novanta con la delega alle Regioni, la liberalizzazione del mercato dei fitti e l’abrogazione del prelievo fiscale, il contributo Gescal, che fino ad allora aveva finanziato l’edilizia pubblica.
L’azione dello Stato è per lo più affidata a misure emergenziali, modalità di gestione straordinarie caratterizzate dalla temporaneità degli interventi, dalla loro selettività e da tratti marcatamente assistenziali. Si assiste così a una serie di provvedimenti spesso settoriali, non incasellati in un indirizzo politico coerente e strutturato, ma che spesso proprio per questo motivo si sottraggono completamente al dibattito pubblico. La delega agli enti locali, inoltre, porta a un sistema di specchi, di frammentazione e sovrapposizione delle competenze in cui le scelte delle amministrazioni appaiono come depoliticizzate, tecniche e neutrali.
In questo contesto, la scarsezza di risorse economiche per il welfare sociale e abitativo non è affrontata come un tema di frizione tra enti locali e Stato, questione su cui gli enti locali provano a esercitare una pressione, ma come un dato di fatto che va gestito fin dove possibile attraverso un’articolazione delle risorse più ingegnosa per poi dichiarare la propria impossibilità ad agire.
Caccia agli abusivi: quando la casa non è un diritto per tutti
L’altra faccia dell’emergenza è rappresentata dalle politiche securitarie che vanno a colpire chi, non riuscendo a provvedere a un’abitazione nel mercato privato né a raggiungere le poche abitazioni messe a disposizione annualmente dal pubblico, si organizza e, individualmente o collettivamente, occupa edifici o appartamenti vuoti.
La necessità di avere un’abitazione, le situazioni di sovraffollamento e la pessima qualità di molti alloggi in locazione, le gravi condizioni in cui versano buona parte delle periferie e del patrimonio di edilizia pubblica occupano così sulle pagine dei giornali e nel dibattito politico uno spazio estremamente inferiore a quello che è invece dedicato al problema delle occupazioni e ai danni
da queste provocate.
La questione è posta prevalentemente come un problema di ordine pubblico, tendendo a negare la dimensione politica e sociale che la determinano e «producendo invece uno slittamento nella percezione pubblica dell’abitante della città informale
, da soggetto titolare di diritti inevasi a soggetto abusivo
, dunque causa esso stesso dell’emergenza»⁴.
Coloro che lottano per il diritto alla casa, mettendo in atto strategie abitative alternative come le occupazioni, sono rappresentati come usurpatori che non meritano di vedersi riconosciuto tale bisogno. Un discorso che si inserisce in un ragionamento
più esteso che vede la povertà come una colpa individuale e la necessità di soffrire
per fuoriuscirne, affrontare percorsi scomodi, dimostrare la propria buona condotta, riducendo la casa da bene primario a risultato di cui ti devi mostrare meritevole. L’occupazione viene così presentata come la scorciatoia
di chi vuole ottenere benefici senza sostenere gli stessi sacrifici del resto della popolazione.
In questa direzione securitaria muovono i provvedimenti sulla casa emanati dagli ultimi governi.
Il Piano-casa del governo Renzi, Misure urgenti per l’emergenza abitativa, oltre a incrementare nuovamente la vendita del patrimonio immobiliare pubblico, altro leit motiv delle politiche degli ultimi venti anni, all’articolo 5 stabilisce il divieto di allacciare acqua e luce elettrica negli edifici occupati. Inoltre, questo «eloquente esempio della cancellazione del patto sociale urbano», come lo definisce Paolo Berdini, nega agli occupanti il diritto di avere la residenza nel palazzo, rendendo di fatto inaccessibili alle persone tutta una serie di diritti essenziali, dal medico di base, all’iscrizione dei bambini nelle scuole del quartiere, fino all’affidamento e al supporto dei servizi sociali e l’ottenimento del permesso di soggiorno. Si prevede, inoltre, il divieto, per coloro che occupano alloggi di edilizia residenziale pubblica, di fare domanda per l’assegnazione di casa popolare per i cinque anni successivi alla data di accertamento dell’occupazione abusiva.
Delle scelte politiche del governo rimangono anche le immagini dello sgombero a Roma del palazzo di via Curtatone⁵, dove centinaia di famiglie (in gran parte migranti) avevano trovato casa nel 2013, e le successive cariche di piazza dell’Indipendenza⁶, senza che arrivasse dalle istituzioni alcuna soluzione abitativa per queste persone che non fosse il ritorno provvisorio negli Sprar, come fossero appena approdate in Italia.
Nella legislatura successiva non si cambia direzione, anzi. La circolare sugli sgomberi del ministro Salvini obbliga i Comuni a stilare una lista delle occupazioni esistenti e articolare insieme ai prefetti e allo stesso ministero dell’Interno un piano di sgomberi. Sgomberi che riguardano anche diversi insediamenti rom del territorio, in un generale attacco alle forme di abitare informale che esulano dalle regole del mercato.
Il successivo decreto sicurezza, oltre a riprendere le circolari stabilendo le modalità di ricognizione delle occupazioni e fissando in 60 giorni i termini per definire i piani provinciali per l’esecuzione degli sgomberi, inasprisce le pene per gli occupanti. La modifica all’articolo 633 del codice penale prevede infatti da 2 a 4 anni di reclusione, più una multa da 206 a 2.064 euro, per chi prende parte o organizza «invasioni di terreni e edifici».
Un Paese di proprietari
Le politiche degli ultimi anni ripongono, quindi, particolare attenzione al reprimere e condannare i comportamenti di chi, privatamente o collettivamente, si procura una sistemazione abitativa. Anziché intervenire per incrementare le politiche abitative e provare a soddisfare il diritto all’abitare di ciascuno, come previsto da diverse sentenze della stessa Corte costituzionale⁷, la direzione è quella di impedire che le situazioni di bisogno possano sfociare nel farvi fronte autonomamente.
Cambiano i governi ma non cambia, inoltre, l’assoluta carenza di finanziamenti stanziati; nel settembre del 2018 il ministro delle Infrastrutture Toninelli, comunica di aver sbloccato 321 milioni di euro per l’edilizia pubblica, quando nel solo Lazio il deficit manutentivo è stimato essere intorno ai 700 milioni.
Alla base del disinvestimento statale che ha caratterizzato almeno gli ultimi tre decenni vi è l’idea che l’impegno nel sostenere la proprietà della casa, cardine delle politiche abitative fin dagli esordi e obiettivo della stessa edilizia pubblica in gran parte destinata alla vendita o al riscatto, potesse di per sé risolvere il problema della casa.
L’Italia infatti, così come la Spagna, il Portogallo e la Grecia, è caratterizzata da una larghissima quota di proprietari dell’abitazione in cui risiedono, quasi l’80% (per quanto solo il 54% non sia soggetto a mutui), il che rende assolutamente minoritaria la quantità di case destinate al mercato dell’affitto, solo il 15% se si esclude l’edilizia residenziale pubblica. Una percentuale estremamente alta soprattutto se paragonata a quella dei Paesi ricondotti al modello di welfare socialdemocratico dove raramente a livello urbano la quota di proprietari supera il 30%⁸.
Le conseguenze di un mercato dell’affitto estremamente ridotto, e quindi selettivo, sono facilmente immaginabili: situazioni di sovraffollamento o, come si affermava in precedenza, di canoni eccessivi in rapporto al reddito e che colpiscono in particolare le categorie più svantaggiate o i nuovi cittadini
. L’esplosione negli ultimi anni di fenomeni come Airbnb o la possibilità di affittare le stanze agli studenti, ipotesi che permettono guadagni estremamente maggiori, hanno ulteriormente ridotto l’offerta e causato un nuovo incremento dei canoni.
La casa, quindi, e l’abitare sono ben lontani dall’essere considerati una necessaria condizione umana oppure il fondamento della cittadinanza sociale, come in altri tempi e contesti, ma diventano l’obiettivo principale di una vita di sforzo, lavoro e risparmi, oggetto di indebitamenti e continui sacrifici.
Inserita nel contesto familistico italiano, la proprietà della casa assume inoltre un ruolo rilevante di strutturazione e congelamento delle diseguaglianze economiche e sociali e di rafforzamento del ruolo della famiglia nel determinare i livelli di benessere e la stabilità delle generazioni successive.
Abitare ai margini di un mercato inaccessibile
La crisi economica e finanziaria del 2008, come si diceva, aggrava in primo luogo la condizione delle fasce di popolazione più povere, ma rende più fragili anche soggetti che fino ad allora erano considerati espressione di un problema risolto, un’ampia fascia di stabilizzati gravati da mutui non ancora estinti e con difficoltà a pagarli in un mercato del lavoro debole e precario.
La crisi, che muove proprio dalla finanziarizzazione del settore immobiliare, mette in seria difficoltà società basate sull’ampliamento della proprietà dell’abitazione, come quella italiana e spagnola, ma anche quelle fondate sull’affitto come quella tedesca. La ritirata progressiva dello Stato dalla produzione pubblica e l’alienazione del patrimonio Erp, che in Italia si intensifica a partire dagli anni Novanta, è comune anche agli altri Paesi europei, a partire dal right to buy tatcheriano.
Le diseguaglianze sociali nell’accesso alla casa disegnano geografie molto chiare e definiscono la forma stessa delle città. Alle trasformazioni del welfare state e del rapporto dello Stato con le fasce più deboli della sua
popolazione sono connessi i profondi mutamenti nella conformazione e nell’idea stessa di città, nella sua governance e nel rapporto centro-periferia.
Scrive Agostino Petrillo:
Le contraddizioni introdotte dalle politiche urbane neo-liberali, che hanno individuato nella città unicamente uno spazio da finalizzare alla crescita economica costi quel che costi
, la privatizzazione della questione delle abitazioni e più in generale i danni provocati dalla gestione neo-liberale della crisi sul terreno della città, hanno condotto a situazioni paradossali: intere generazioni escluse dal mercato del lavoro, una realtà urbana sempre più compartimentata e divisa, forme di esclusione sociale e spaziale che si intrecciano in maniera perversa. Alla costante erosione dei diritti sociali si è infatti accompagnato un processo di trasformazione urbana a più facce, di cui la questione della casa è solo uno degli aspetti, ma che ha in ogni caso privilegiato alcuni ceti a discapito di altri, respingendo verso i margini delle città i più poveri e svuotando e museificando i centri⁹.
Negli ultimi anni si è intensificato l’uso massiccio di espropriazione e privatizzazioni, interventi che hanno ridisegnato i confini di quartieri e città. Sono proliferati processi di riqualificazione e di gentrificazione che hanno comportato l’espulsione delle fasce di popolazione più deboli in una ridefinizione dal punto di vista spaziale delle frontiere sociali. Il nuovo ruolo strategico delle città nell’economia globale ha prodotto uno spazio ancora più socialmente gerarchizzato di quanto non fosse in precedenza: un fenomeno che ha ovviamente influito sul diritto alla casa ma anche sulla qualità del vivere in città e in particolare nelle sue periferie. In questo senso il diritto all’abitare si salda con il diritto alla città, sia nei suoi aspetti strutturali, come contrapposizione o meglio resistenza ai processi di accumulazione fondiaria, sia nei suoi processi relazionali.
Il passaggio dalla città manageriale a quella imprenditoriale, come afferma Giovanni Semi, «dedita a obiettivi di crescita e competizione più che di gestione delle risorse che le venivano precedentemente allocate da stati nazione keynesiani»¹⁰, determina l’allontanamento dei vecchi residenti dalle proprie case per fare spazio a un’operazione di marketing urbano e alla ridefinizione delle destinazioni d’uso
di ampie zone cittadine.
Come afferma sempre Semi, «assumendo una prospettiva che inquadra gli attori statali e pubblici come i distributori delle regole del gioco e i garanti dei patti di volta in volta stabiliti con attori di mercato e famiglie (in particolare modo il diritto di proprietà), […] lo Stato diventa garante dei molteplici meccanismi di alienazione residenziale
», le cui forme più visibili sarebbero «quelle globalmente note e diffuse degli espropri, degli sfratti e, più in generale, dell’aumento costante dei costi abitativi e delle spirali d’insicurezza che ne discendono».
Mentre i vecchi residenti si allontanano dalle loro case, spinti dalla pressione del mercato immobiliare, dal gonfiarsi del costo degli appartamenti e quindi della rendita, e dall’incremento del costo dei consumi, le zone storiche della città divengono spazi riservati ai residenti abbienti, ai servizi, alla turistificazione, ai consumi di alto livello e al tempo libero. Secondo Harvey, «la qualità della vita in città, e la città stessa, sono diventate merci per soli ricchi, in un mondo in cui consumismo, turismo, industria culturale e della conoscenza, così come il continuo ricorso all’economia dello spettacolo, si rivelano i principali motori dell’economia politica urbana»¹¹.
Centri in cui non c’è spazio per i poveri, per i mendicanti, gli ambulanti e per gli homeless, corpi molesti e fuori luogo
, che vengono ormai sistematicamente allontanati mediante sistemi di ordinanze ispirate dall’ideologia del decoro e della sicurezza, dai Daspo urbani alla creazione di zone rosse
.
Rimangono fuori le aree di scarto, periferie spaziali o sociali, escluse da questi processi e abitate dal resto della popolazione. Tali processi di espulsione e marginalizzazione vanno a modificare le stesse periferie cittadine e la percezione e l’autopercezione dei suoi abitanti.
Per rimanere al contesto italiano, si consideri che il 23% della popolazione del Comune di Roma vive fuori dal Grande raccordo anulare, zona la cui popolazione è cresciuta del 26% negli ultimi dieci anni. Man mano che si procede verso il centro la popolazione diminuisce drasticamente. La città continua ad ampliarsi seguendo i vettori delle diseguaglianze sociali, e imponendo un radicale cambiamento nei modi di vita degli abitanti e nella gestione della vita quotidiana.
Tali processi coinvolgono lo stesso patrimonio di edilizia pubblica e la sua progressiva alienazione.
La giunta Zingaretti nel giugno di quest’anno ha deliberato (ufficialmente con l’obiettivo di reinvestire i fondi, ma su tale scelta indubbiamente pesano le necessità di far fronte agli ingenti debiti dell’Ater) la vendita delle proprietà ubicate in zone di pregio, immobili di interesse storico-culturale oppure siti in zone non centrali, ma «che evidenziano requisiti di centralità in termini di presenza funzionale e di accessibilità ad attrezzature e servizi pubblici e privati […], servizi di trasporti urbani ed extraurbani, di collegamenti viari, di attrezzature scolastiche, sanitarie, sportive e terziarie»; per un totale, secondo l’Unione inquilini, di un terzo del patrimonio. Chi non può acquistare nei prossimi 5 anni, sarà trasferito in aree più periferiche.
Come si diceva in precedenza, se è il mercato a dettare le regole è comunque importante riconoscere le responsabilità delle Amministrazioni in questo processo, dalle patnership pubblico-private, alla liberalizzazione delle licenze, alla vendita del patrimonio pubblico, alla gestione delle infrastrutture e alla localizzazione di attività come le Università, fino al ruolo dei piani regolatori e dei piani strategici cittadini nel ridefinire la conformazione delle aree cittadine. O ancora lo sgombero di realtà inadatte
, dagli edifici occupati ai venditori ambulanti ai mercatini di roba usata, non abbastanza decorosi per situarsi nelle zone centrali o in crescita.
Tale sviluppo urbano, insieme all’assenza di freni al mercato immobiliare, alimenta una situazione sempre più grave. Considerando i costi medi degli