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La dodicesima chiave del cuore
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La dodicesima chiave del cuore

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About this ebook

Sophie e Riccardo: un viaggio interiore alla scoperta di se stessi. Tra alchimia, una vecchia profezia e i versi del Petrarca rinasceranno come la Fenice.
di Maria Sabina Coluccia
Il castello di Carcassonne, che sorge nel sud della Francia, nella regione della Linguadoca, con il suo carico di storia e mistero fa da sfondo alle vicende di una famiglia di produttori di pastis, liquore all’anice
molto amato dai francesi.
Il futuro dell’azienda familiare è legato a una profezia a data alla giovane Sophie, erede della fabbrica, spirito libero e ribelle che dovrà scegliere tra dovere e desideri.
Per trovare la soluzione Sophie ha a disposizione dodici chiavi, che le apriranno le porte del mondo alchemico. Sotto la guida di un Maestro di Alchimia in incognito, la giovane intraprende quindi un viaggio interiore, che la porterà a districarsi tra delusioni, inganni, amori e doveri familiari per mezzo di simboli esoterici, linguaggio dei fiori, solidi platonici e semisconosciuti versi di Francesco Petrarca.
Cosa troverà Sophie dopo aver girato la dodicesima chiave del cuore?
LanguageItaliano
Release dateJan 12, 2020
ISBN9788833284002
La dodicesima chiave del cuore

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    La dodicesima chiave del cuore - Maria Sabina Coluccia

    Ascone)

    Prologo

    Carcassonne, Francia – dicembre 2016

    Il gatto, un pregiato siberiano Neva, era acciambellato davanti al caminetto acceso, alla giusta distanza per poter godere al meglio del tepore del fuoco.

    Il suo mantello chiaro risaltava sul tappeto persiano turchese che si trovava tra la poltrona dove Madeleine sorseggiava il suo infuso alla melissa e la sedia a dondolo di zia Sophie, cinquanta primavere già vissute e una vita avventurosa alle spalle.

    Quella sera di dicembre zia Sophie aveva intenzione di aprire lo scrigno dei suoi ricordi a sua nipote Madeleine, prossima a soffiare su sedici candeline. Anche il grosso micio sembrava aspettare le sue parole.

    Il fuoco scoppiettava allegramente nel salotto dell’antica casa di famiglia situata dentro le mura del castello di Carcassonne, nella Francia del sud, in Linguadoca, mentre grossi fiocchi di neve andavano via via a ricoprire le mura merlate della più grande città fortificata d’Europa.

    Madeleine aveva un talento particolare: era un’artista. Dipingeva, amava i fiori e i profumi, proprio come quella zia da cui aveva ereditato, attraverso la misteriosa danza dei geni, molti tratti.

    Quella zia sono io: Sophie Du Soleil.

    Io e mio marito non abbiamo avuto bambini e Madeleine è la nostra unica nipote, figlia di Yolande, mia sorella maggiore. Il mio matrimonio si è nutrito di amore, sofferenza, passione, rinunce, come pure di poesia, mista ad antiche tradizioni esoteriche, incomprensibili alla maggior parte delle persone che vivono seguendo le regole convenzionali.

    Avevo solo trent’anni e il mio nome era già diventato una specie di leggenda a Carcassonne. I genitori di Madeleine, al contrario, sono gente pratica e bene ancorata al mondo: ingegnere lui e commercialista lei, vivono negli Stati Uniti, dove si sono incontrati e innamorati durante un periodo in cui Yolande ha frequentato l’università all’estero. Poeti e alchimisti non fanno parte del loro modo di essere e della loro realtà, quando invece per me e mio marito sono pane quotidiano.

    Mia nipote Madeleine ha i miei stessi occhi azzurri, i miei stessi capelli ramati, la mia stessa carnagione chiara e il mio stesso spirito artistico. Suo padre le ha lasciato in eredità una buona dose di pragmatismo, ma in quantità minore rispetto al suo talento naturale di saper dialogare con la natura. Sua madre le ha invece trasmesso l’abilità con i numeri, di cui in realtà Madeleine non sa che farsene.

    Insomma, un pesce fuor d’acqua, anche se da piccola sembrava la sintesi perfetta della sua famiglia. Crescendo, però, si è dimostrata sempre più intuitiva, geniale. Ha olfatto e gusto più accentuati della media. Odori, colori e sapori si rivelano a lei nella loro essenza profonda, quasi mistica, molto più che ai comuni mortali. Prova un’attrazione fortissima per la natura, soprattutto per i fiori, che ama raccogliere, intrecciare, essiccare, combinare.

    Per me e mio marito è molto di più che una nipote: è la depositaria di un tesoro di inestimabile valore, che risiede nelle facoltà superiori dell’essere umano e investe il suo spirito. Arte, poesia e alchimia sono dentro di lei fin dalla nascita e deve solo avere il coraggio di farle uscire e di sfruttarne i doni.

    Madeleine è la nostra figlia spirituale, colei che ha ereditato le nostre qualità dell’anima, piuttosto che quelle di suo padre e di sua madre, laboriosi uomini di scienza.

    Benché sia questa la sua natura, Madeleine era però ancora convinta di non valere nulla. I suoi genitori non avevano fatto altro fino a quel momento che ripeterle che i suoi sogni erano solo stupidaggini, che di profumi famosi il mondo era già pieno e che le sue fantasie non potevano garantirle un futuro sereno. Doveva invece impegnarsi a coltivare le sue doti più concrete, quelle che le avrebbero permesso di vivere in modo agiato e sicuro.

    Ora che si trovava in vacanza con noi nella vecchia casa di Carcassonne, potevo provare a svegliarla, farle aprire il cuore alla sua vera natura interiore, farle sentire la necessità di catturare i suoi sogni di ragazza.

    Ritenevo che fosse arrivata l’ora della rivelazione, il momento in cui potesse comprendere il valore di un sogno e la necessità inderogabile di realizzarlo. Per dirla con il linguaggio dei fiori, era giunta l’ora della genziana.

    Mi alzai dalla sedia a dondolo e mi avvicinai alla parete. Feci ruotare il vecchio timone che vi era appeso e richiamai la sua attenzione: «Guarda, Madeleine. Che cosa vedi?»

    «Il timone del nonno Louis che segna l’ora della genziana, zia Sophie», rispose lei guardandomi senza troppo interesse, attratta più dal fuoco nel caminetto.

    «Sai che cosa ci vuol indicare la genziana?» feci io.

    «No, zia. Dovrei saperlo? È un fiore, tutto qui», rispose lei un po’ scocciata.

    «Non è tutto qui, Madeleine», le risposi. «La genziana ci ricorda del nostro valore intrinseco, delle nostre qualità più belle che aspettano solo di essere portate alla luce, riconosciute e coltivate.»

    Avevo toccato una corda sensibile dentro di lei. Distolse lo sguardo dalle fiamme e mi fissò incuriosita.

    «Io non ho qualità, zia», fece con tono lamentoso, «a parte quella assurda capacità di sentire gli odori e di riconoscerli a distanza. Oltre a questo non so fare nient’altro di speciale.»

    «E ti sembra una qualità di poco conto quella di riconoscere gli odori? Questo dono è un talento che ti è stato dato per diventare felice e portare gioia agli altri», le risposi.

    Lei mi guardò di traverso, per niente convinta.

    «Un uccellino mi ha raccontato che vorresti diventare una creatrice di profumi, avere un laboratorio e un negozio sulla Costa Azzurra», dissi a bassa voce, quasi si trattasse di un grande segreto. Il micio aprì un occhio e mi guardò.

    «L’uccellino deve averti anche detto che mamma e papà vogliono che prenda in mano la fabbrica di liquori di nonno Louis, visto che tu e lo zio non avete voluto farlo e vi siete dedicati all’arte, alla poesia e ad altro… Pensano che la mia dote debba essere indirizzata verso qualcosa di produttivo, ma io non sono fatta per il liquore all’anice, anche se adoro il suo profumo.»

    Deglutì, ricacciando indietro un accenno di pianto e tornò a fissare il fuoco. Poi, parlando alle fiamme che scintillavano e guizzavano, continuò: «Quando provo a oppormi mi dicono di non fare come hai fatto tu, di non ripetere la tua storia nella nostra famiglia. Lo dicono con vera paura, quasi fosse una maledizione. Se provo a fare domande non vogliono spiegarmi altro. Che cosa hai fatto, zia, di così sconvolgente, quando eri giovane?» chiese infine, risvegliata da un moto di curiosità che andava crescendo.

    «Vuoi saperlo?» le risposi sorridendo. «Ascolta allora. Era il 1996, e la mia vita cambiò di colpo...»

    Capitolo primo - Acquaceleste

    L’ultima confezione di sapone al profumo di mughetto decorato con spighe di lavanda faceva bella mostra di sé in vetrina, nell’angolo dedicato agli oggetti di una volta che facevano impazzire di desiderio le clienti di mezza età del mio atelier in Place du Palais, al quale avevo dato nome Cose di un tempo antico.

    Acquaceleste era un sapone dall’elegante forma di cigno bianco, circondato da una nuvola di pizzo e tulle. Suggeriva sensazioni di altri tempi: un misto di nostalgia e tenerezza, di infanzia perduta e di innocenza. L’annusavo rapita, soddisfatta del mio estro creativo, della maestria con cui avevo saputo far sposare, ancora una volta, pizzi, nastri, colori, profumi e forme.

    Il mughetto annuncia per tradizione l’arrivo della primavera, promesse d’amore mantenute. Acquaceleste avrebbe avuto il successo che meritava e avrebbe portato la primavera nel cuore di chi l’avrebbe acquistato.

    Ero persa in queste considerazioni, quando un uomo entrò nell’atelier. Il mio mondo fatto di piante succulente e aromatiche, impreziosito da nastri e pizzi, saponette ed eleganti boccette di profumo, lo accolse.

    Diedi uno sguardo all’orologio appeso alla parete. Il timone della vecchia barca di papà, l’unico ricordo che avevo portato con me da Carcassonne quando avevo lasciato la mia famiglia dopo la laurea in chimica, era stato restaurato e adattato a orologio. Scandiva il tempo con un fiore per ogni ora del giorno. In quel momento le lancette si trovavano in corrispondenza del mughetto: le sei del pomeriggio.

    Sapevo che quello sarebbe stato l’ultimo cliente della giornata. Avevo un appuntamento importante con Philippe, il mio fidanzato, che non vedevo da un mese, e avevo intenzione di chiudere in orario.

    «Buonasera signorina», esordì l’uomo avanzando quasi con timore, attento a non urtare i lavori esposti sugli scaffali più bassi.

    Si avvicinò al banco e prima di parlare mi sorrise. «Sto cercando un regalo per una persona speciale e ho notato in vetrina un bellissimo cigno bianco.»

    I suoi occhi neri e profondi si posarono su Acquaceleste, poi tornarono subito a me, creandomi un inspiegabile imbarazzo. La sua pelle abbronzata contrastava in modo gradevole con il completo di lino chiaro che indossava. Un ciuffo di capelli neri gli ricadeva sulla fronte.

    «Buonasera e ben arrivato nel mio negozio speciale. Io sono Sophie e, come può vedere, qui ci sono tantissimi oggetti belli e magici. Se vuole può dare un’occhiata, prima di decidere.»

    Lui alzò lo sguardo all’orologio. «Bello, quel timone. È in vendita?»

    «No, non è in vendita. È il timone della barca di mio padre; l’ho portato qui da Carcassonne quando mi sono stabilita in città.»

    «Peccato», commentò. «È molto particolare, con quei fiori delicati. A Carcassonne non avete il mare, sbaglio? Mi scusi per l’invadenza», aggiunse poi, abbassando il tono di voce. «Il mio nome è Riccardo De Brunis, sono italiano e sono abituato ad associare barche, vele e timoni al mare. Sa, ne abbiamo così tanto!»

    Ridemmo entrambi e per qualche secondo i nostri sguardi s’incontrarono.

    «C’è il Canal du Midi. A Carcassonne navighiamo lì, quando non saltelliamo tra i merli del castello o non facciamo passeggiate nei boschi. Abbiamo anche il Lac de la Cavayere, un grande lago dove possiamo praticare sport acquatici, prendere il sole, divertirci come al mare», lo informai sorridendo, poi continuai: «Vuole quindi proprio la mia ultima creazione?»

    Lui confermò con un cenno del capo, continuando a guardarmi.

    Pagò e prima di uscire si voltò per salutare, strizzandomi l’occhio.

    «Tornerò a trovarla», promise prima di chiudersi la porta alle spalle.

    Poco dopo chiusi l’atelier e mi avviai a piedi verso casa.

    La luce pomeridiana di giugno illuminava la piazza, ancora animata da saltimbanchi e artisti di strada. Philippe deve essere già andato a casa, pensai, non scorgendolo tra i suonatori e i mangiafuoco.

    Quella di Avignone era la tappa conclusiva di un lungo tour che lo aveva visto esibirsi insieme al suo gruppo di musicisti e danzatrici del ventre in tutta la Francia.

    Alle mie spalle il Palazzo dei Papi dominava la scena. C’era ancora una discreta fila di turisti che attendevano di entrare per visitare la grandiosa dimora papale in stile gotico.

    Imboccai una stretta via sulla quale si affacciava un gran numero di negozietti caratteristici che esponevano cesti di lavanda, tessuti provenzali e deliziosi cappelli di paglia.

    Arrivai a Boulevard du Rhône e, come sempre, mi soffermai a osservare il maestoso Rodano che attraversa Avignone.

    Era stato quello il teatro del mio primo incontro con Philippe: lo avevo conosciuto lì cinque anni prima.

    Passai proprio vicino al punto in cui i nostri occhi si erano incontrati, verdi i suoi, azzurri i miei. Una barba rossiccia gli incorniciava il volto, così interessante da catturare la mia attenzione e non farmi accorgere della bicicletta che sopraggiungeva. Per qualche attimo rividi nella mente, come in un film, il momento del nostro primo incontro…

    «Signorina, mi sente? Si è fatta male?»

    Una voce lontana mi aveva costretto ad aprire gli occhi. Ero dolorante, ma quando mi ero accorta di quegli occhi verdi che mi fissavano da vicino mentre io mi trovavo distesa sul marciapiede, ogni dolore era sparito all’istante. Era stato l’inizio della fine, o meglio: l’inizio di una lunga e travagliata storia d’amore che durava da cinque anni.

    Un brivido improvviso mi riportò alla realtà. Persa tra i ricordi, ero arrivata al ponte Edouard Daladier. Era tardi, il pomeriggio volgeva ormai al termine.

    Arrivai a casa e chiamai Philippe. Dopo qualche squillo mi rispose la voce metallica della segreteria telefonica. Poco male, pensai. Di lì a poco lo avrei incontrato, quindi non lasciai alcun messaggio.

    Non ci vedevamo da quasi un mese, ma mi aveva assicurato che il primo di giugno sarebbe tornato ad Avignone per festeggiare il mio trentesimo compleanno. Me lo aveva ricordato anche quattro giorni prima, quando aveva avuto occasione di chiamarmi da un ostello in cui alloggiava.

    Aspettai che suonasse il campanello o facesse squillare il telefono di casa, ma trascorse ormai due ore iniziai a preoccuparmi.

    Erano le nove e avevo lo stomaco a pezzi per l’ansia e l’agitazione. L’istinto mi diceva di precipitarmi da lui, attaccarmi al campanello e scoprire il motivo del suo ritardo.

    Uscii e mi avviai a casa sua: le imposte erano chiuse e non si intravedevano luci accese all’interno. Suonai più volte ma senza risultato. Ero disperata. Che cosa stava succedendo? Perché Philippe non c’era?

    Citofonai alla sua vicina di casa. «Sono Sophie», dissi con voce tremante, «la fidanzata di Philippe. Per caso oggi lo ha visto rientrare a casa? Non mi risponde e sono preoccupata.»

    Mi rispose una voce assonnata: «Sì signorina, l’ho visto rientrare, poco dopo però l’ho sentito chiudere la porta a chiave. Deve essere uscito di nuovo.»

    «Lo ha visto uscire o ha solo sentito che usciva?» insistetti, nervosa.

    «Le ho detto che ha chiuso la porta a chiave, poi ha sbattuto il portone. Ora che ci penso, ho anche visto l’auto che si allontanava. Non so altro.»

    L’auto: giusto. Mi guardai intorno. Di solito la sua vecchia Renault 4 rossa era parcheggiata lì davanti, ma ora non c’era.

    Tornai a casa angosciata e chiamai la mia amica Celeste, che si precipitò da me e mi portò a casa sua. Le raccontai tutto e lei chiamò gli ospedali della zona, ma nessuno aveva notizie da darci.

    «Il tuo Philippe ha deciso di andarsene, a quanto pare», sentenziò lei pragmatica. Io non volevo darle ascolto, mi rifiutavo di credere che quella fosse la verità e che il mio fidanzato mi avesse abbandonata senza darmi alcuna spiegazione.

    «Da quanto tempo non mangi?» mi chiese a un certo punto Celeste, mettendomi davanti un tramezzino al formaggio.

    Quello sarebbe stato il più triste compleanno della mia vita e ogni morso che diedi fu accompagnato da un fiume di lacrime e da vani tentativi di mettermi in contatto con Philippe che, ormai era chiaro, non era in casa, visto che continuava a non rispondere al telefono.

    Era il primo giugno: entravo nei miei trent’anni carica di aspettative deluse, senza torta, senza candeline, senza regalo e con un fidanzato che si era dileguato senza spiegazioni.

    La mattina dopo mi svegliai depressa nella camera di Celeste. Senza alcun entusiasmo mi vestii e feci colazione al bar con la

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