Il prigioniero del Sultana
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Il prigioniero del Sultana - Cristiano Pedrini
PRIMO
Se pensassi
Ecco di nuovo quella domanda invadere la mia mente, come se sapesse che la mia resistenza, dopo quegli ultimi giorni, non fosse più in grado di respingere la sua irruzione. Avevo cercato di osteggiarla in tutti i modi possibili: dai ricordi precedenti a quel maledetto giorno in cui il mio mondo era stato sostituito da quell’unica stanza nella quale mi trovavo, alle fantasie più disparate che riuscivano a trasportare la mia immaginazione oltre quelle fredde e disadorne mura.
Ma anche questa volta la domanda era arrivata quando meno me l’aspettavo. "Sto per andarmene. Lo so, lo sento. A questo punto con chi vorrei parlare per l’ultima volta?" mi ripetei.
La risposta non era affatto scontata. Non per me. Non riuscivo a rispondere con la sincerità che in quel momento avrei dovuto mostrare. Eppure, sapevo che il momento per pormi davvero quella domanda sarebbe giunto presto, nonostante mi sforzassi di credere diversamente.
Sollevai lo sguardo verso quella finestra, la stessa che avevo immaginato più volte di scardinare per trasformarla in una via di fuga e potermi aggrappare alle nuvole che vedevo attraversare il cielo. Avrei voluto salirci sopra e aspettare che mi portassero via. Peccato che non avrei mai potuto raggiungerla, sia per l’altezza a cui si trovava, sia per le sue dimensioni; non sarei mai riuscito a passarci, nonostante la mia corporatura esile. Anzi, in quei giorni avevo perso sicuramente altro peso e non certo perché mi lesinassero il cibo. Più di una volta lo lasciavo nel piatto sperando di indurre quell’individuo a lasciarmi andare, ma probabilmente ottenevo solo il risultato di farlo divertire, il puerile e risibile tentativo di mostrarmi non ancora vinto.
Senza rendermene conto, nonostante il mio sguardo fissasse le gambe distese su una stoffa scarlatta, vidi i loro contorni sfumare, aprendomi la porta di quel ricordo che avevo più e più volte visto ripetersi, come un vecchio film, ma privo del finale che tanto agognavo. Perché continuavo a rivivere quel giorno, a voler ripetere all’infinito quei gesti? Forse speravo di trovare una spiegazione a tutto quello che mi era accaduto o, forse, era solamente il desiderio di non trovare nulla di sensato e di logico in tutto ciò? Se la risposta a quella domanda fosse stata inevitabilmente sì, allora non avrei potuto combattere ad armi pari con chi mi aveva fatto costretto a tutto ciò. Non potevo anteporre la razionalità e la speranza di convincerlo a desistere e, sebbene una parte di me si sentisse stranamente sollevata da quella risposta; era inevitabile che essa scatenasse, come contrappeso, la paura di non sapere come trovare una via di fuga da quella che, ormai, non potevo definire in altro modo se non una prigione.
«Keegan Mason… lei è Keegan Mason?» Il tono di voce schietto e deciso risvegliò il ragazzo dai pensieri che lasciava vagare nella sua mente ogni qualvolta riusciva a ritagliarsi un po’ di tempo per meditare sui passi futuri che non poteva rimandare ancora a lungo.
Il ragazzo sollevò lo sguardo, osservando l’uomo che gli porgeva la mano in saluto. «Sì, sono io,» rispose, allungando la sua per stringergliela, accorgendosi, una frazione di secondo dopo che non l’aveva ripulita ed era ancora sporca del cioccolato che si era sciolto sulle sue dita. Amava alla follia quei biscotti ricoperti di cacao che acquistava nel piccolo bistrò all’angolo sotto casa, nonostante gli lasciassero ogni volta quella traccia che tradiva la sua golosità. Ma lo sguardo divertito dello sconosciuto lo tranquillizzò.
«Mi scusi,» esclamò tutto d’un fiato Keegan, alzandosi frettolosamente dalla panchina e sfilando dalla tasca della tuta un pacchetto di fazzoletti di carta, che porse all’uomo, accompagnandoli con un sorriso imbarazzato.
Quello rimase però con la mano sospesa a mezz’aria, come se stesse rimuginando qualcosa.
«Le assicuro che questi non sono farciti al cioccolato,» lo rassicurò Keegan.
Quelle parole rianimarono il volto dell’uomo, che ne prese uno e si ripulì il palmo della mano. «Le confesso che anche io ho un debole per il cibo degli dèi,» annuì lui. «Lasci che mi presenti: mi chiamo James Marshall e sono un ricercatore dell’Università di Birmingham, Alabama.»
«Lieto di conoscerla,» rispose Keegan, mostrandosi perplesso. Non aveva parenti in quello Stato e neppure si ricordava di aver inviato richieste a quell’università, anche se sapeva che era una delle migliori. Aveva letto una classifica poco tempo prima che la piazzava ad un discreto posto tra quelle pubbliche.
«Possiamo anche darci del tu. Immagino ti starai chiedendo il motivo della mia visita è presto detto,» proseguì James, posando la sua borsa di pelle scura sulla panchina. «Sto lavorando a una ricerca per un fatto avvenuto al termine della Guerra civile e credo che potresti essermi molto utile.»
La perplessità di Keegan lasciò il posto alla sorpresa che non riuscì a nascondere. «Io… esserti utile?» gli chiese, cercando di sforzarsi di capire in che modo avrebbe potuto esserlo. Certo, in storia americana aveva ottimi voti ed era una delle materie di studio che preferiva, ma non immaginava certo di poter collaborare con un ricercatore universitario.
«Capisco il tuo stupore, ma se vorrai dedicarmi un poco del tuo tempo ti potrò spiegare con chiarezza perché voglio coinvolgerti in questo lavoro che, ovviamente, ti verrà retribuito,» precisò l’uomo, guardandosi attorno. Il campus a quell’ora del pomeriggio era tranquillo e silenzioso, e se non fosse stato per la lieve brezza che scuoteva i rami degli alberi, tutto sarebbe sembrato come cristallizzato nel tempo.
Retribuito, si ripeté nella mente Keegan. Già, l’idea di essere coinvolto in una ricerca universitaria che avrebbe potuto sfoggiare per arricchire il suo scarno curriculum era quanto mai allettante, in più se ad essa si aggiungeva la possibilità di mettersi in tasca qualcosa per arrotondare le sue entrate, come poteva rifiutare? Il lavoro come cameriere nel ristorante di lusso in Pearl Street era stato un bel colpo di fortuna. Era vicino all’università e gli permetteva di potersi concedere qualche piccolo extra che la sua borsa di studio non gli consentiva. Avrebbe potuto di certo chiedere una mano ai suoi genitori, ma era intenzionato a dimostrare loro che poteva cavarsela.
«Allora, accetti?» insistette James.
«Ma cosa dovrei fare esattamente?» domandò Keegan.
«Lavoreremo nella mia facoltà. Per te è un problema assentarti per qualche giorno? Ovviamente provvederò io a tutte le spese.»
«In realtà, prima vorrei saperne di più,» obiettò il ragazzo, afferrando lo zainetto che aveva lasciato sulla panchina.
«Giusto. Potrei anche essere un pazzo serial killer in cerca della sua prossima vittima,» sorrise James, prendendo il portafoglio dalla tasca interna della giacca. Ne estrasse un tesserino e lo mostrò a Keegan. «Questo dimostra chi sono,» gli disse, osservando la reazione del ragazzo, che allungò il collo verso il badge indicante le credenziali dell’uomo.
L’emblema dell’università, nome e cognome, la firma del rettore, tutto sembrava in ordine. Keegan sollevò lo sguardo. I suoi occhi castani si addolcirono e, rimettendosi lo zaino sulle spalle, sorrise: «Sembra vero, ma non posso comunque averne la certezza».
La grassa risata di James parve scacciare la quiete che li circondava. «Sei davvero sospettoso ragazzo. Fai bene, visti i tempi che corrono.»
«Non lo saresti anche tu? Io sono uno studente come molti altri, anche se beneficio di una borsa di studio per meriti sportivi, e so bene che in