L'urlo dell'innocente
By Unity Dow
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L'urlo dell'innocente - Unity Dow
Colophon
Titolo originale
The screaming of the innocent
© 2002 Spinifex Press Pty Ltd
© Edizioni le Assassine, 2019
Tutti i diritti riservati
Traduzione dall’inglese di Marina Grassini
Progetto grafico copertina e interni: studioquasar
Copertina: elaborazione da foto Adobe Stock
ISBN della versione e-book 978-88-94979-25-1
www.edizionileassassine.it
info@edizionileassassine.it
Unity Dow
L’urlo dell’innocente
Traduzione di Marina Grassini
Edizioni le Assassine
Milano
CAPITOLO 1
La guardava senza malizia: semplicemente la voleva, ne sentiva il bisogno. Certo, nel volerla e nel sentirne il bisogno c’era una qualche forma di affetto, anche se era difficile definirlo tale. E lei era, a conti fatti, disponibile. La guardava ridere con gli amici, gettando la testa all’indietro, mentre forse imitava con le braccia il volo di un uccello. Era intenta a raccontare una storia divertente ai compagni e tutti l’ascoltavano. Probabilmente stava facendo la sciocchina, come talvolta succede ai ragazzini. Qualsiasi cosa stesse facendo, non si era accorta che lui la osservava. Era la seconda volta che con l’auto passava accanto a quel gruppetto di bambini. Non aveva avuto difficoltà a riconoscerla, l’aveva già puntata in precedenza.
No, la guardava senza malizia, senza volerle fare del male o causare dolore ai suoi famigliari. Semplicemente la voleva, ne sentiva il bisogno: dopo, il dolore sarebbe stato inevitabile.
Sotto ogni aspetto lo si poteva considerare una brava persona. Era con la stessa donna da venticinque anni e non c’erano avvisaglie che la volesse lasciare. Aveva ventitré anni quando aveva sposato Rosinah, la sua fidanzata allora ventenne. Nel corso degli anni lei si era trasformata da giovane donna slanciata in matura matrona. Le amiche la invidiavano per la sua acconciatura: il parrucchiere le costava almeno 250P a seduta, l’equivalente del salario mensile di una domestica. La invidiavano per i suoi ampi e coloratissimi vestiti ghanesi, che ben si combinavano con i copricapo multicolori. La invidiavano per i collant, che non avevano mai una smagliatura. Rosinah era perfetta a ogni funerale, matrimonio, raduno di fedeli in chiesa, colloqui a scuola e incontri di partito. Si metteva solo un filo di rossetto: così da non apparire sciatta ma neppure volgare. E tutti dicevano che il signor Disanka era proprio un bravo marito.
Era anche un bravo amante. Aveva appena comprato alla sua amante Maisy una monovolume Toyota Hilux a due ruote motrici, dopo averle pagato anche l’affitto della casa. Un uomo meno accorto − e ce ne erano davvero tanti di uomini avventati attorno − avrebbe comprato per la sua amante una berlina a quattro ruote motrici, ma non Disanka! Lui aveva capito che era necessario mantenere un confine netto: sua moglie, come lui, guidava una berlina a quattro ruote motrici, una macchina che non era corretto far guidare a un’amante. Quando poi a Maisy era stata destinata per la sua attività un’area confinante al take-away di sua moglie, si era dato da fare perché le venisse subito tolta.
Era stata sua madre a metterlo in guarda sulla pericolosità della vicinanza, gli aveva sussurrato con insistenza: Rra-Lesego, non puoi mettere le due donne gomito a gomito, sarà una guerra
. Gli si rivolgeva sempre come Rra-Lesego − padre di Lesego − in segno di rispetto. Lei stessa era chiamata Mma-Disanka − madre di Disanka − e ne andava molto fiera: non sempre una madre poteva essere orgogliosa dei propri figli, ma lei lo era sinceramente.
Cosa vuoi dire?
le aveva chiesto, distogliendo con fatica lo sguardo dalla televisione: stava giocando il Manchester, la sua squadra di calcio preferita, e non era affatto contento di essere disturbato.
Mma Betty ha sentito da suo fratello, che lo ha sentito da alcuni suoi amici, che Maisy avrà un terreno due negozi più in là del tuo, proprio vicino all’ufficio postale. Gli incaricati del Consiglio per il Territorio erano là proprio ieri a delimitare i confini. Non puoi permettere che le tue donne siano così vicine: anche la moglie più devota avrebbe qualcosa da ridire. Devi intervenire!
E Mma Disanka aveva interposto la sua matronale figura fra lui e la televisione, in modo da ricevere tutta l’attenzione da parte del figlio. Aveva il suo interesse a mantenere unita la famiglia: sua nuora dopo tutto era stata molto buona con lei, permettendole di vivere con loro; Mma Disanka non aveva infatti intenzione di ritornare dov’era nata, anche se inizialmente era venuta solo per una breve visita. Le piaceva vedere crescere i nipoti e non era di certo disposta a guardare da un’altra parte, vedendo che la pace famigliare era minacciata da un evento che si poteva evitare.
Lui aveva prontamente ascoltato il suo parere ed era andato subito a parlare con il presidente del Consiglio per il Territorio, ottenendo seduta stante che a Maisy venisse concessa un’area all’altro capo del villaggio.
Non era il posto migliore per una piccola sartoria, ma almeno si era evitata una possibile guerra. Così facendo però il signor Disanka doveva un favore al presidente responsabile del Territorio: l’uomo desiderava rimanere in carica per altri quattro anni, aveva quindi bisogno di voti e si aspettava un aiuto e un sostegno dall’uomo d’affari.
Molti furono d’accordo nel ritenere che Disanka avesse agito da buon marito, non facendosi distogliere dalle sue responsabilità familiari; anche il presidente aveva ben capito le sue motivazioni e ne aveva approvato il comportamento, desiderando che ci fossero più uomini così sensibili come il signor Disanka, una persona presente all’interno dei diversi comitati e molto rispettata per l’impegno che metteva nel facilitare la realizzazione dei progetti utili alla comunità. Quando, ad esempio, ci fu da mandare una delegazione all’Ufficio del Presidente per protestare contro la polizia, accusata di aver investigato in modo approssimativo nel caso dell’omicidio Neo Kakang, lui era stato naturalmente scelto per farvi parte. Questo per dire quanto fosse rispettato: un membro della comunità da imitare, certamente.
Era anche un buon padre: non affettuoso ma neanche troppo severo. La sua espressione era austera, ma cortese. Era da tutti definito una persona civile
: il viso piacente, il portamento eretto, la figura alta e asciutta, tutto suggeriva una persona gentile e disponibile. Amava i suoi quattro figli e lo dimostrava in molti modi: i figli nati dal suo matrimonio ovviamente; alla gente non importava se amasse o no quelli avuti da relazioni extraconiugali. Essendo un brav’uomo, un uomo ben inserito nella vita sociale, né li amava né li odiava. Il loro benessere era legato a quello della madre: se lui andava a letto con la loro madre, sia i suoi figli che quelli che la donna aveva avuto da altri, godevano di certi benefici economici. Talvolta ritornava da una vecchia fiamma e stava con lei per qualche settimana o per qualche mese: per tutto quel tempo la donna e i figli potevano contare su cibo più abbondante e, nel caso del bambino più fortunato, persino su un paio di scarpe nuove.
Era molto affezionato ai quattro figli avuti dal matrimonio, due maschi e due femmine: li accompagnava in auto a scuola, mentre la maggior parte dei ragazzi andava a piedi o era sballonzolata su un autobus malandato. E amava teneramente la più piccola, Morati o, come era affettuosamente chiamata, Debaby − la piccola di papà −. La viziava così tanto che lei sembrava sempre sul punto di esplodere fuori dalla sua tuta da ginnastica e durante gli spostamenti in macchina proiettarsi all’esterno, nonostante l’auto procedesse molto lentamente. In realtà la piccola non sobbalzava nemmeno, per lo più oscillava da una parte all’altra, rimpinzata senza fine di dolciumi, gelati, carne di pollo, bibite zuccherate e molto altro ancora, quale dimostrazione d’amore. Se qualcuno insisteva nel proporle piccoli lavori domestici, subito veniva difesa da un susseguirsi di proteste e di abbracci, anche se aveva ormai undici anni compiuti. Per contrasto l’oggetto delle attenzioni di suo padre in quel momento era in grado di volteggiare e saltare come una piccola antilope.
Secondo i giudizi dei più, il signor Disanka era dunque un brav’uomo. Affari che prosperavano, una brava moglie, una brava amante che allevava per conto suo il loro figlio, bravi figli nati nel matrimonio, brave ex-amanti che si occupavano da sole dei figli frutto della loro relazione e che occasionalmente erano disponibili a spezzare la monotonia del rapporto con moglie e attuale amante. Del resto non è forse vero il detto che un uomo non può vivere di solo pane?
Tutto stava a indicare che era un botswani di successo e lui voleva rimanere tale, e programmava il futuro in modo da preservare il suo stato. Progettava di ampliare i propri affari e anche di comprare una macchina nuova l’anno seguente. Stava anche pensando di installare uno scaldabagno nella casa dell’amante e di cambiare il letto, che era scomodo. Per mantenere però la posizione di supremazia della moglie, intendeva cambiare anche il letto matrimoniale: non che fosse necessario, ma voleva che non ci fossero dubbi su chi era la moglie e chi l’amante. Si proponeva inoltre di continuare a occuparsi della comunità nel suo ruolo di presidente di vari comitati, incluso quello di tutela dai crimini. Era infine favorevole all’ampliamento delle scuole locali, così che un maggior numero di ragazzi potesse frequentarle e, forse, alla successiva visita del Ministro della Sanità, lo avrebbe sensibilizzato sulla necessità di dare più fondi all’ospedale locale.
Nel villaggio circolavano pettegolezzi sul suo conto, ma succedeva così con tutte le persone affermate. Si credeva che queste avessero ottenuto il successo solo grazie a espedienti diabolici, tuttavia il signor Disanka aveva deciso di non curarsene e di considerare le voci maligne come frutto di invidia e di cattiveria.
Ora il gruppetto di ragazzini stava giocando a saltare la corda. Quella che Disanka stava osservando lo faceva con abilità, mentre due suoi amici facevano oscillare la fune al ritmo della canzone Moloi, tike; tike, moloi! Moloi, tike; tike, moloi! (Strega, nasconditi; nasconditi, strega! Strega, nasconditi; nasconditi, strega!). Il buon uomo guardava affascinato e rapito; quando la ragazzina saltava, la gonna le si sollevava mostrando le sue gambe da impala: sode, muscolose, scure come un tronco lucidato di moselesele. Non c’era un grammo di grasso. Perfetta. Lei afferrò la gonna e infilò l’orlo nelle mutandine, non lo fece per mancanza di pudore, ma per essere sicura di saltare meglio. Il gesto permise all’uomo che la stava guardando, all’uomo di cui tutti riconoscevano il valore, di avere una visione completa delle sue gambe scure, fino all’inguine, dove era visibile la sua biancheria rosa. Era a seno scoperto, ovviamente: il pomeriggio era caldo e lei stava giocando con gli amici vicino a casa sua, naturale che fosse a seno nudo.
Mio Dio, è perfetta!
mormorò fra sé e sé. Il corpo era proprio quello giusto, non aveva ancora forme tondeggianti, si poteva a malapena notare un accenno di seno, proprio quel che gli serviva. E che natiche piccole e sode aveva! Era sicuro che quando sollevava le braccia nel salto le sue ascelle avevano solo una leggera peluria, non ancora i peli. Lo sapeva anche se era lontano: se avesse perso la sua innocenza, non avrebbe sollevato la gonna a quel modo e non le sarebbe stato permesso di saltare la corda a seno nudo, anzi non lo avrebbe più fatto. Era pronta per essere colta.
Dio, è perfetta, proprio al punto giusto
mormorò il brav’uomo, il padre di famiglia, il marito, l’amante, lo stimato uomo d’affari. Ora aveva fermato la sua Hilux e la stava guardando, apertamente. Gli venne in mente il suo ultimo raccolto e un brivido di piacere attraversò tutto il suo corpo. Si sentì esaltato e confuso, a stento riusciva ad aspettare. Tremava a tal punto da temere di non essere in grado di nascondere il suo stato alla figlia amatissima, quella figlia trasformata in una palla di lardo per il troppo amore. Aveva bisogno della ragazzina snella che saltava alla corda per poter continuare ad amare la ragazzina all’interno della Hilux, rimpinzandola di gelati, torte, patatine, chewing gum. Il sudore gli usciva copioso da tutti i pori, come se una moltitudine di microscopici tombini fossero scoppiati tutti insieme, e un flusso incontrollabile di emozioni fuoriuscisse senza più controllo. Per un attimo temette di bagnarsi: una calda umidità si stava impadronendo delle sue parti intime e delle sue ascelle. Dovette trattenere il respiro, in preda alla paura. Quella sensazione diede un nuovo gusto al suo piacere, e nell’attesa vi era una dolcezza corretta da un tocco amaro. E proprio quella sensazione dolceamara gli causò un altro attacco di tremore fin quasi a farlo uscire di senno e a prendere in considerazione l’idea di saltare fuori dalla sua bella macchina con l’aria condizionata e di buttarsi nell’umido e caldo pomeriggio e afferrare la bambina, così, subito.
Ma si riprese immediatamente e respinse quel pensiero insensato: bisognava fare le cose nel modo giusto, le avrebbe fatte nel modo giusto. Erano ormai passati due anni dall’ultima volta, e ora era più che pronto per la nuova esperienza. Il cuore gli batteva forte fino a scoppiargli in petto.
Papà, sei triste per la loro casa mezzo diroccata? Andranno alla scuola per i bambini poveri che vuoi costruire? Papà, perché non torniamo a casa? Papà, voglio il gelato!
La richiesta di Debaby finì con un piagnisteo e lui, da buon padre, sapeva di dover cedere, amava troppo quella ragazzina viziata: la prese tra le braccia, la baciò e le promise che le avrebbe comprato il gelato e tutto quello che avesse desiderato. Lei gli rivolse un grande sorriso, consapevole di avere il papà migliore del mondo: un papà dolce e gentile, che la coccolava, le dava baci e l’avrebbe sempre protetta. Scommetteva che nessuno di quei ragazzini mezzi nudi e sporchi che saltavano alla corda avevano un padre come il suo!
Mentre l’auto veniva messa in moto, un bambino che doveva avere quattro anni alzò lo sguardo e le braccia agitandole e gridando con voce infantile: "Toyota Hilux! Toyota Hilux! Mo-Japan! Giapponeseee!".
Si, anche per un bambino di soli quattro anni, il signor Disanka era un uomo di successo.
Quando la ragazza udì le grida di apprezzamento del bambino, si distrasse e perse il ritmo, la corda le si impigliò attorno a una caviglia facendola inciampare. I suoi amici esultarono e lei smise di saltare per mettersi al posto di uno di quelli che teneva la corda. Alzò lo sguardo e vide la macchina nuova fiammante con al volante un uomo e una bambina; sorrise loro, per educazione. Era una ragazzina ingenua del villaggio, orgogliosa che un adulto, un uomo di successo, la stesse osservando, e fraintese il suo interesse, pensando che fosse attirato dalla sua abilità di saltatrice. Era come un’impala che non aveva capito chi fosse il bracconiere, un’impala che aveva preso il bracconiere per il guardiacaccia.
Neo!
Un’altra ragazza a cui toccava saltare alla corda la richiamò con impazienza. La giovane impala distolse lo sguardo dal brav’uomo e cominciò a far ondeggiare la corda per la compagna che, mentre saltava, cantava una nuova canzone ‘Phuduhudu, thaisia! Phuduhuhu thaisia!’ (‘Antilope, evitalo! Antilope, evitalo!’). La giovane saltava bene, fingendo di essere una gazzella che schivava una trappola. Erano ragazzini di villaggio, giocavano e si sentivano al sicuro nel loro mondo, schivando pericoli immaginari.
Il brav’uomo si scosse dal suo stato di trance. Si allontanò pensando a come portare a termine il suo compito: come procedere a raccogliere la fertilità
prima che fosse visibile agli altri, prima che gli uomini si mettessero di mezzo contaminandola. Prese la direzione di Maun, lasciandosi alle spalle il villaggio di Gaphala e la ragazzina, ripromettendosi di tornare presto.
Guardò il cellulare, vide che c’era segnale e decise di chiamare un amico: Salve, Capo. Sono Disanka. Possiamo vederci? Sì, questa sera va benissimo. Ho qualcosa per le mani che ti potrebbe piacere...è perfetta. Bene, bene
e chiuse la chiamata. Aveva bisogno di un terzo uomo, forse di un quarto, di un terzo sicuramente.
Entrò a Maun e prima di tornare a casa, si fermò a un supermercato per mantenere la promessa fatta alla figlia, che ora si era tranquillamente addormentata sul sedile accanto. Doveva anche andare a prendere la primogenita, Lesego, a scuola. Sapeva che, nonostante fosse cresciuta, ci teneva a mostrare un padre così affettuoso. C’era stato un tempo, un paio di anni prima, che aveva preso le distanze da lui, ma ora era tornata a essere la Lesego di una volta. Lo aveva attribuito a una crisi legata alla crescita. Era contento che il legame si fosse ristabilito e così preferiva andare a prenderla a scuola di persona piuttosto che inviare un autista. Gli era venuta fame e non vedeva l’ora di sedersi davanti a un piatto succulento con attorno la sua bella famiglia, almeno quella era un’esigenza che poteva soddisfare alla luce del sole.
CAPITOLO 2
L’ uomo che il signor Disanka (il bravo marito, padre, amante, uomo d’affari nonché coscienzioso cittadino) aveva scelto come suo secondo era il Capo Motlababusa Bokae, un uomo la cui arroganza era del tutto evidente nel portamento, nel modo di camminare e di parlare. Tuttavia era forse ingiusto bollarlo di arroganza: in una notte di tempesta di quarant’anni prima era sgusciato fuori dal ventre materno, rosso e ammaccato per lo sforzo di essere nato, con il cordone ombelicale attorcigliato al collo, dopo di che era stato avvolto da una crescente arroganza. Infatti, al suo primo respiro, l’arroganza lo aveva già in pugno e ne stava disegnando la figura e i connotati. D’altra parte la stessa cosa era accaduta a suo padre e a suo nonno, e senza dubbio sarebbe successa a suo figlio.
Aveva programmato di avere presto un figlio: quelli avuti dalle sue innumerevoli amiche non avevano importanza, contava solo quello che sarebbe nato da sua moglie. Tra i suoi progetti c’era infatti di sposarsi presto così da assicurare un futuro alla discendenza Bokae, una discendenza di capi. Diversamente da lui, il figlio avrebbe portato il nome di un vincitore e indossato la pelle del leopardo − simbolo del comando − per diritto di nascita.
Tanti pensavano che l’atteggiamento presuntuoso del Capo Bokae, la sua voce arrogante, e le continue violenze sulle ragazzine fossero il risultato dell’essere nato quasi capo
o, per meglio dire, essere nato come colui che sarebbe dovuto essere designato tale. E, benché ci sia una grande differenza tra esserlo veramente ed esserlo solo in teoria, la gente gli consentiva tuttavia di mantenere una buona dose di superbia. Naturalmente la sua arroganza era alimentata da amarezza e rabbia verso chi pur essendo in posizione inferiore gli aveva scippato indegnamente il trono di famiglia. E quindi, l’uomo arrogante era alla fine un uomo pieno di rancore.
Era sorprendente che, dopo tre generazioni, la collera aumentasse invece di diminuire. Il mercato del lavoro era diventato sempre più agguerrito e tutti si guardavano intorno stando all’erta e in competizione anche all’interno dei propri clan. Con rinnovata energia Bokae combatteva quindi contro chi considerava un usurpatore. I suoi metodi di sfida erano oscuri, silenziosi, misteriosi: spesso andava di notte a consultare gli stregoni. Voleva rovesciare l’attuale capo e prenderne il posto.
Essere un capo significava aver un buon lavoro senza avere una preparazione,