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Increspature
Increspature
Increspature
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Increspature

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Narrativa - romanzo (1215 pagine) - «Ti amo senza alcun dubbio e mi manchi. Ma non posso starti accanto. Perché ti farò ancora del male. Se non ti cercherò sarà dunque per questo. Martina non si dimentica facilmente. Ho trascorso i momenti più belli e intensi della mia ingarbugliata vita con te. Mi manchi fino al dolore. Ma ho paura di me. Dentro di me vive una bestia sempre pronta all’attacco. Perdonami Martina. Mio Amore».


In un connubio tra romanzo epistolare e diario di vita, la storia si snoda lungo gli anni di un rapporto d’amore, vendette, abusi, ricatti e sopraffazione, gioia e disperazione. Fotografa la Napoli e il Sud Italia di oggi, esplora la psicologia e i sentimenti dei protagonisti, denunciando con crudele profondità il male di vivere, il disturbo psichico, l’universo delle paure più ancestrali e dei traumi alla loro origine, narrando un amore che non vuole saperne di morire, disposto a uccidere persino chi lo vive. Un grido d’allarme sulla manipolazione affettiva e sulla violenza di genere.

Un romanzo denso, intenso, ruvido e terribilmente realistico, attuale e contemporaneamente senza tempo. Perché ciò che narra accade da sempre, con imperterrita continuità.


Giulia Ventale è traduttrice, pubblicista e copywriter con un profondo amore per la letteratura e la comunicazione. Lettrice di narrativa e saggistica sin dagli anni della gioventù, ha approfondito soprattutto ambiti come la psicologia, la psichiatria, la letteratura moderna e contemporanea, la linguistica e, negli ultimi anni, i thriller. Nel corso del tempo ha sentito crescere dentro il desiderio di ampliare la propria capacità espressiva fino al momento in cui l'esigenza di dar vita a un romanzo si è fatta strada prepotentemente, rendendosi insopprimibile.

Oggi il suo progetto è diventato realtà con Increspature, che narra un rapporto nato dall'amore e sfociato gradualmente nell'abuso.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateDec 17, 2019
ISBN9788825410891
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    Increspature - Giulia Ventale

    nell'abuso.

    In certe condizioni, un grande amore può trasformarsi nel suo opposto.

    Divenendo abuso e manipolazione.

    I

    Le prime tracce del Natale in arrivo mi circondavano, cominciavano a darmi quel senso di soffocamento, quasi di asfissia che avvertivo distintamente da decenni, ormai. Non che avessi bisogno del Natale per sentirmi priva d’aria. No davvero. Guardavo la mia vita, la fotografavo col pensiero, avviavo il rewind, accorgendomi che c’era in quasi tutti i fotogrammi qualcosa di stridente, una mancanza sostanziale, tranne che per la mia storia di madre.

    Una storia iniziata vent’anni prima, cercata, desiderata e voluta. Una storia che m’aveva finalmente condotto sui sentieri dell’autostima, della pienezza, del senso di sé. Una storia che s’era preannunciata come fondamentale, il giro di boa dell’esistenza, il prima e il dopo. Ce n’era voluto perché potessi coronarla, non era stato facile. M’ero fatta forza, avevo lottato, finché finalmente avevo concepito mio figlio. Una gioia immensa, una forza sconfinata, una voglia di vivere mai provate prima. Era andato tutto bene, tutto seguiva un percorso magico, ideale, senza macchie. Il corpo si rinnovava insieme alla mia anima, mi lanciava segnali di straordinario benessere, mi accompagnava sulla strada della felicità. Avevo messo al mondo mio figlio con gioia, entusiasmo, gratitudine immensa alla vita. Col sorriso sulle labbra e nel cuore. Un parto meraviglioso, addirittura da manuale, m’avevano detto i medici durante e dopo. Esterrefatti dalla mia forza di volontà, dal mio non cedere al dolore, alla spossatezza, alle contrazioni sempre più pressanti. Il mio autocontrollo li sbalordiva, li ammutoliva: guardavano il monitor con le mie contrazioni, poi guardavano me, poi ancora il monitor e poi ancora me. Con crescente stupore:

    – Signora, lei ha delle forti contrazioni! Perché non urla, non si dispera, non invoca i Santi? Signora, le sente le sue contrazioni?

    E certo che le sentivo. Erano le contrazioni del mio bambino che si faceva strada per nascere, per donarmi la felicità di essere, finalmente, madre. Neanche l’episiotomia era stata necessaria. Un bambino grande e sano, nato senza quel tragico taglio, che tanti segni lascia nel corpo e nel cuore di molte, troppe donne. No, grazie, ce la faccio da sola. Che momento di incontenibile perfezione, fu.

    E la magia si ripeté con la mia bambina. Non potevo crederci. Io, sempre così insicura e insoddisfatta di me, così piena di dubbi su qualsiasi scelta della mia vita, mi ritrovavo a essere una madre piena di forza, di fiducia in se stessa, di voglia di dare e ricevere quelle emozioni irripetibili che sgorgano dalla maternità.

    Ecco, quello fu il mio riscatto da una vita di frustrazioni, dolore e scelte sbagliate.

    La mia dimensione-madre era stata raggiunta nel più appagante dei modi. E continuava a darmi una ragione per vivere. In fondo, cosa mancava? Solo la mia dimensione-donna. Ma per quella dovevo aspettare, considerato che il mio matrimonio accusava falle enormi e rappresentava con cinica chiarezza il mio fallimento di donna. Era stato per questo, probabilmente, che, tanti anni dopo la nascita dei miei figli – divenuti nel frattempo giovanissimi adulti – m’ero innamorata di Giacomo. Mi aveva conquistata con la sua verve, la sua ironia, il suo fare imprevedibile. E le sue capacità letterarie. Sì, perché da subito aveva dato fondo al suo repertorio di seduttore, ricco di esperienze. Aveva cominciato a scrivere per me poesie, prosa, dediche. E il talento aveva svolto il suo lavoro: mi ritrovai avviluppata in una storia giocosa, accattivante, a tratti frenetica, in ogni caso inebriante. C’era passione, divertimento, allegria, spensieratezza, erotismo, novità.

    Presto però le cose cominciarono a cambiare. Mi accorgevo che mancava qualcosa d’importante, mancava da parte sua l’empatia. Molto tempo dopo (ma forse neanche tanto) trovai dentro di me la conferma che non poteva esserci empatia, perché non c’era amore né capacità di percepire un sentimento. Ci avevo creduto, avevo capito che il mio matrimonio era irrimediabilmente finito e m’ero separata da un uomo a cui volevo un bene dell’anima, ma che ora sapevo non aver mai amato. Ma con Giacomo il rapporto procedeva a sbalzi, ad alternanze, non decollava. Tuttavia mi facevo forza per l’innamoramento iniziale, proseguivo convinta che ci fosse molto per cui valesse la pena lottare. Ben presto dovetti prendere atto che ero solo una figura dell’harem, una delle tante. Avevo accanto un narcisista puro, misogino e privo della pur minima capacità d’immedesimazione. Era incapace d’amare. Esisteva solo lui. Gli altri erano ombre sbiadite, figure di contorno del monarca, funzionali unicamente all’affermazione di sé stesso. Non me ne rendevo conto, ma avevo cominciato ad attuare il modello di comportamento assorbito da mia madre: l’amore è sofferenza, è patimento, l’amore non è mai quello delle favole.

    Il suo non era stato pessimismo innato, bensì aveva rappresentato il disperante traguardo di una donna violentata in tutti ma proprio tutti i sensi, dal primo, grande amore della vita di ognuna di noi: suo padre. L’aveva privata di ogni gioia, le aveva rubato l’infanzia, l’adolescenza, la gioventù. Le aveva impedito di viversi le sue esperienze, di aprirsi al mondo, sia pur nelle più lievi sfumature. Era stata sua prigioniera, le aveva violato l’anima, il corpo, i desideri, i sogni. E annientato la fiducia negli uomini. Eppure lei l’aveva amato.

    Solo quando se n’era andato per sempre, mia madre aveva sposato un uomo, vedovo con due figlie adolescenti. Un uomo agli antipodi del suo padre-padrone, ma che lei poteva vedere solo attraverso gli occhi del suo dolore, delle sue vessazioni, dell’annientamento della sua identità di donna. Mio padre. Quante volte mi aveva messa in guardia da lui: Gli uomini sono tutti porci, non fidarti mai di loro. Vogliono una sola cosa e, quando l’ottengono, sanno di averti in pugno e faranno di tutto per schiacciarti. Stai attenta a tuo padre, non dormire nel suo letto, non l’abbracciare troppo. Ma lui era il mio babbo, mi manifestava costantemente il suo amore, mi chiamava Boccuccia di rosa, tesoro mio. Ma lei era la mia mamma, che però si dedicava di più, troppo di più, a mio fratello. Conflitto, atroce conflitto. I genitori sono Dèi incontrastati per ogni figlio. Come amarli entrambi senza sentirmi in colpa per l’uno o per l’altra?

    Ero cresciuta con questa lacerazione e soprattutto con il terrore che mia madre avesse ragione, che il mio dio fosse in realtà un mostro. Non lo fu, mai. Neanche quando mi ritrovai a dormire nel suo letto, per una serie di circostanze fortuite. Non fece altro che essere un meraviglioso padre. Ed io mi sentii la peggiore delle figlie, per aver dubitato ignobilmente di lui. Dunque mia madre si era sbagliata? Fu allora che cominciai a credere di essere sbagliata io. Perché mia madre non poteva sbagliare, ai miei occhi. Mi dipingeva un uomo che non era mio padre. No, era il suo. E del cui brutale agire avevo assorbito le innominabili conseguenze. L’epilogo di questo sfacelo fu tutto nella mia radicata, inconscia visione dell’amore, da allora e per sempre: soprusi, sopraffazione, violenza, dolore, abusi, annientamento del sé.

    Passava il tempo, ma la situazione involveva sempre più. Ero frustrata, scontenta, insoddisfatta. Ero consapevole del modo d’essere di Giacomo, lo vedevo con nitidezza, ma non riuscivo a uscirne. Più tardi, nel tempo, avrei percepito con chiarezza che avevo continuato così a lungo con lui perché ero innamorata del mio innamoramento, ma non amavo lui. E subivo le sue scorrettezze, il suo egoismo, il suo gelo come una condanna a cui non avevo il diritto di sottrarmi.

    E intanto si avvicinava un altro, inutile Natale. Anche quel giorno avevo in mente di comprarmi un libro. Una passione che non m’aveva mai abbandonata, anzi m’aveva spesso offerto con delicatezza e puntualità i messaggi che il mio stato d’animo mi richiedeva a gran voce. Ne avevo tanti che ancora mi attendevano, pazienti e orgogliosi di essere letti, saggiati, studiati, sottolineati, evidenziati, riletti, assorbiti. Erano i miei compagni fedeli, incapaci di tradirmi. Come sempre, mi dibattevo nella mente alla ricerca del volume che in quel momento sentissi più vicino, che potesse aiutarmi a comprendere quel mio stato di sospensione e incertezza, insoddisfazione e insofferenza che avvertivo sempre più. Ma, prima di tuffarmi tra gli scaffali ricolmi e invitanti, e avvertire sui polpastrelli la patina della polvere e nel naso il classico prurito di una piccola crisi d’allergia, decisi di passare a salutare Teresa, una delle amiche più durature e significative della mia vita, peraltro anche mia parente, in qualche modo complicato da spiegare. D’altronde, era proprio nel periodo in cui non lavoravo, che potevo godermi quei pomeriggi privi di ansie da stress per gli impegni professionali, gli orari da rispettare, gli incarichi da portare a termine entro tempi brevi e tutta quella mole di responsabilità e incombenze dettate dal lavoro. Amplificavo quelle occasioni dentro di me, per farne scorta nei momenti di maggior stress, per riviverle come un patrimonio di relax a cui attingere quando le giornate sarebbero diventate tiranne.

    In quella tiepida serata di dicembre ritrovai Teresa sorridente e serena, mi accolse con un sorriso e un abbraccio. Il suo negozio, ritratto di lei senza se e senza ma, si offriva in tutto il suo splendore, i luccichii dei gioielli dalle vetrine ammiccavano sornioni, esercitando un fascino neanche tanto misterioso. Dopo pochi attimi, mi accorsi della presenza di una persona, un uomo che, più che un cliente, mi pareva essere un suo amico. Era seduto comodamente, senza formalismi, e sorrideva. Provai una strana sensazione: mi sentivo inspiegabilmente accettata, sentivo calore. Come sempre, però, dopo un attimo ebbi timore di disturbare. Magari erano intenti a parlare di cose personali, di situazioni riservate.

    La mia discrezione si fece largo con garbo ma con forza e mi spinse a dire:

    – Non voglio disturbarvi, magari ho interrotto una conversazione importante. Ora vado in libreria, così avrete il tempo di concludere e poi torno qui.

    – Ma no, non è il caso – mi rispose Teresa. – Roberto mi stava raccontando una sorta di avventura capitatagli qualche giorno fa. Resta pure, così la racconta anche a te.

    Ero combattuta, ma preferii andar via per un po’. Avvertivo uno strano brusio interno, piacevole ma disorientante. Tornai dopo una ventina di minuti. Il brusio non accennava a calare. Rientrai nuovamente scusandomi per l’intrusione, in risposta ne ebbi sorrisi compiaciuti e rassicurazioni sul gradimento della mia presenza. Fu allora che Roberto mi chiese:

    – Perché non ti siedi accanto a me? C’è abbastanza spazio per due.

    Con un po’ di riluttanza mi accomodai, sentendo sempre quel brusio e soprattutto dimentica di tutti i miei problemi. Esisteva solo il qui e ora. Con piacevole determinazione lui riprese a parlare, supportato da Teresa, dell’episodio che già le aveva narrato. Si trattava di un rapporto con una donna che conosceva molto poco ma che tanto lo attraeva, incontrata appena un paio di volte. Qualche giorno prima, aveva deciso di farle una sorpresa, incontrandola solo per una mezz’ora, il tempo che le sarebbe occorso per cambiare treno alla Stazione Centrale e raggiungere la sua città di residenza. Aveva con sé una rosa rossa, voleva che fosse il simbolo della sua emozione per lei, ma, per tutt’una serie di coincidenze mancate, non era riuscito a vederla. In sé, la narrazione non riportava eventi eclatanti o particolarmente suggestivi, ma il suo modo di renderla la trasformava in qualcosa di avvolgente, emozionante, caldo. Teresa commentò:

    – Esistono ancora uomini che spendono ore del proprio tempo solo per vedere una donna per pochi minuti e offrirle una rosa?

    – Effettivamente – mi venne spontaneo rispondere – sembra un racconto del passato, intriso di quell’alone di romanticismo, di dolcezza e attenzione, che oggi sembra davvero svanito.

    Quasi spontaneamente, a quel tema ne seguì un altro sulla stessa lunghezza d’onda: Roberto raccontò di un’altra sua esperienza sentimentale, vissuta un paio d’anni prima con una donna svedese, Ingrid, conosciuta tramite un sito d’incontri. Sentiva d’essersi innamorato a distanza, solo tramite chat, foto e telefonate, e così aveva deciso di andare in Svezia per stare con lei. C’era rimasto circa tre settimane, durante le quali aveva dovuto però verificare l’assenza di una vera e propria affinità con lei, tanto che, deluso da quelli che lui riteneva comportamenti scostanti, aveva deciso di tornarsene in Italia. Ingrid aveva cercato di trattenerlo, anche perché la decisione di lui era stata troppo repentina, letteralmente dalla sera alla mattina, perciò lei aveva tentato di fargli capire che avevano bisogno di tempo per conoscersi meglio e trovare una migliore sintonia. Ma lui era stato irremovibile: aveva prenotato il volo di ritorno per l’indomani e, alla frase accorata di lei: Io non voglio perderti aveva risposto con un lapidario: Mi hai già perso. Non le aveva concesso alcuna chance, aveva chiuso subito e se n’era tornato a casa. In quel momento m’era parsa troppo rapida e drastica la sua decisione, ma me lo tenni per me, poiché non lo conoscevo affatto e inoltre sapevo troppo poco di quella storia, per avere le idee chiare.

    Andammo poi avanti su quel tema, allargandolo al rapporto uomo-donna in generale, con tutte le sfumature e difficoltà che questo comporta. Ci ritrovammo all’orario di chiusura come fossero passati pochi minuti invece che ore. Un saluto gentile e niente di più. Andai via di lì con un tepore di benessere. Una leggerezza che, forse, non avevo mai provato.

    Mi calai nuovamente nella mia vita, senza dare troppa importanza a quell’incontro, che pure a tratti mi tornava alla mente. In genere, i primi incontri con chiunque mi lasciavano piuttosto indifferente, ero sempre molto cauta nella comunicazione. Un paio di giorni dopo Teresa e io ci concedemmo una giornata di relax alle terme. Era una piacevolezza che, quando possibile, non ci facevamo mancare. Parlammo anche di quell’incontro, di cui conservavo un ricordo gradevole, mentre lei continuava a sottolineare la poeticità del comportamento di Roberto verso quella donna, che prescindeva dall’esito che quel rapporto avrebbe avuto nel tempo. Al tramonto, terminate le concessioni al benessere, tornammo insieme al negozio, anche perché lei mi avrebbe prestato un trolley in vista del mio viaggio con Giacomo, previsto una decina di giorni dopo.

    Stavo andando via da lei con il grande trolley vuoto, quando incontrai Roberto pochi passi più in là. Era con un amico, ci salutammo con un sorriso e, dopo poche parole, mi chiese il mio numero di cellulare. Non ci pensai su un attimo, estrassi dal portafogli un mio biglietto da visita e glielo porsi, senza chiedergli il suo numero. La richiesta mi trasmetteva piacere, ma ci tenevo che fosse lui a cercarmi, se avesse davvero desiderato farlo. Il tepore cresceva, il viaggio sembrava lontano e remoto, quasi una prospettiva che non mi riguardava più, di là da venire. Montai in macchina chiedendomi se mi avrebbe mai chiamata e formando contemporaneamente il numero di telefono di Teresa. Volevo raccontarle subito di quell’incontro, sentire cosa ne pensasse. Mi rispose che era carino che lui mi avesse chiesto il numero di cellulare.

    – Vediamo cosa succede, ora – aggiunse poi sogghignando come una vecchia megera furbacchiona. Proprio al termine di quella telefonata mi comparve il messaggio della chiamata persa da un numero che, naturalmente, non conoscevo. La richiamai subito, le chiesi se corrispondesse a quello di Roberto. Dopo una breve verifica, me lo confermò. Mentre parlavo con lei, ancora una chiamata persa da lui. Mi e le dissi che, forse, due telefonate perse potessero bastare perché finalmente lo richiamassi io. Lei sorrise ancora, divertita e intrigata, avallando la mia tesi. Mi decisi perciò a richiamarlo. Ero un po’ emozionata, sospesa, non sapevo cosa aspettarmi, ma sapevo che, dentro di me, era scattato qualcosa. Si era creato un movimento verso. Ripensavo al suo volto, agli occhi, ai capelli, alla sua voce, alle sue movenze e alle sue mani, al suo corpo. Me ne sentivo attratta, io che ero sempre stata così diffidente, difficile e poco propensa agli entusiasmi occasionali. Ma cosa accidenti mi stava capitando? Dov’era Giacomo dentro di me? Dov’era finito? Perché non si palesava, non si frapponeva, non reclamava il suo posto? Niente. Non c’era.

    Richiamai Roberto, mi rispose subito. Tono scherzoso e allegro, quasi dileggiante per quella mia linea sempre occupata, era davvero difficile parlare con me! In un lampo mi chiese di rivederci la sera successiva, di bere qualcosa insieme, di parlare un po’. Volli fare un po’ la preziosa, non per tattica (che pure sarebbe andata bene), ma perché mi sentivo già troppo coinvolta, cercavo un appiglio per rimandare la resa dei conti, la mia verifica di quel che mi stava capitando tra capo e collo.

    D’altronde, questa caratteristica me la riconoscevo da tempo immemore: quando si prospettava qualcosa di bello, tendevo a procrastinare, ad attendere, a cercare prima di capire. Risposi, spinta dal mio bisogno di frapporre un istante fino al prossimo incontro, che per la sera dopo avevo già un impegno. Proposi la sera successiva, ma lui ricordò di avere una cena con suo figlio.

    – Bene – pensai – così trascorrerà una giornata in più per vederci più chiaro.

    Ci accordammo per tre sere dopo, sarebbe stata una domenica. Intanto avrei potuto vedere Giacomo, percepire il mio sentire, se e quanto fosse cambiato. In effetti, verificai in quei giorni di interludio tra la telefonata e l’incontro con Roberto, che con Giacomo avevo perso molto coinvolgimento, che oramai mi pesava starlo ad ascoltare mentre parlava sempre e solo di sé stesso, autocelebrandosi, senza accorgersi minimamente del mio stato d’animo. Trascinai una serata con lui senza riuscire neanche per un attimo a ritrovare l’atmosfera di un tempo, neanche quella decisamente sbiadita dell’epoca più recente, in cui comunque aveva continuato a esserci da parte mia la convinzione caparbia che valesse la pena continuare.

    Pensavo ineluttabilmente sempre più a Roberto, con cui intanto era iniziato un intenso, continuo contatto basato su messaggi, telefonate e mail. Il programma cambiò: ci incontrammo il pomeriggio successivo alla telefonata, incapaci di attendere oltre. Percorremmo molti chilometri in auto, scegliendo poi di fermarci in un caffè invitante, per bere insieme un prosecco. Brindammo, gustammo i salatini, chiacchierammo fittamente. Mi chiese cosa ne pensassi del rapporto uomo-donna, come idea generale. Gli risposi che ritenevo noi esseri umani in generale poco propensi alla fedeltà, come quasi tutti i mammiferi, d’altronde. Che ciò che poteva determinare la fedeltà in una coppia poteva essere solo l’amore, che, ne ero certa, rappresentava l’unico vero stimolo a costruire, a restare fedeli, scegliendo di esserlo, rinunciando a ciò che per me altro non era se non un’istintiva, invincibile tendenza alla promiscuità. Dentro cui non c’era nulla di moralmente condannabile, anzi, secondo me era ora che l’essere umano si decidesse ad abbandonare quella mole gigantesca di moralismi e tabù che per millenni avevano pesantemente disturbato e devastato tante vite, almeno alle nostre latitudini. Solo la spinta invincibile e inesauribile dell’amore poteva far sì che addirittura, di fronte a un’occasione di sesso, un essere umano potesse scegliere di rinunciarvi in nome di un sentimento che sovrastava l’istinto fisico. Altrimenti, laddove l’amore fosse stato assente, le pulsioni sessuali avrebbero prevalso e fatto il loro legittimo corso. Per me, si trattava di smettere di vergognarsi dei propri istinti primordiali, esigenze non certo meno nobili degli altri bisogni primari moralmente accettati, quali la sete, la fame, il sonno. Anche il bisogno sessuale aveva finalmente il diritto di essere riconosciuto in tutta la sua dignità. Così come se ne riconosceva all’Amore, motore propulsore di sconfinata potenza, che rappresentava per me la chiave di volta, l’unica, di fronte alla quale era possibile una scelta, una rinuncia a qualche ora di piacere fisico nel nome di qualcosa di immenso. Mi sembrò intrigato dal mio pensiero, forse insolito per una donna o comunque per le donne che mi avevano preceduto. Ci tenni ad aggiungere che non mi piaceva generalizzare, volendo intendere che quei miei pensieri rappresentavano per me una tendenza comune, non un diktat da applicare a tutti. Aggiunsi che notavo con maggiore frequenza questo atteggiamento specifico nel maschio, che, pur amando la propria donna, spesso si concedesse occasionali rapporti di stampo puramente sessuale. Non escludevo per nulla che anche molte donne potessero comportarsi così, ma nella mia esperienza personale (diretta e indiretta), questo comportamento si era verificato più spesso da parte dei maschi. Lo attribuivo a diversi fattori: innanzitutto a differenze biologiche e chimiche tra maschi e femmine, che rendono i primi più propensi a scindere i sentimenti dal sesso fine a sé stesso, permettendogli di far convivere contemporaneamente entrambe le scelte. E ad avere una disponibilità continua e generalizzata, mentre le seconde manifestano il bisogno di un contesto più strutturato, di un’atmosfera più appropriata perché il desiderio sessuale nasca. Nelle femmine (e dunque in me), avvertivo maggiormente l’esigenza di costruire rapporti stabili, continuativi. C’erano, a mio parere, anche ragioni culturali, che accentuavano questa diversità del sentire e dell’agire. Precisai più volte che le eccezioni fossero frequenti e spesso (ma non sempre) andassero rapportate a un malinteso senso di emancipazione delle donne, che in realtà si rivelava come uno scimmiottamento dei comportamenti da sempre tipicamente maschili. Per quanto mi riguardava, la spinta dell’amore interagiva fortemente nelle mie scelte, nel senso che mi spingeva naturalmente a non desiderare avventure di letto, e a sapervi rinunciare senza rimpianti, se mi si presentava l’occasione. Perché l’amore mi donava una tale pienezza che, anche in un momento difficile del rapporto (evento possibile anche nella migliore delle storie) non emergeva in me l’esigenza del tradimento, neanche al solo scopo di ferire o cercare di recuperare attenzione dalla persona amata. In assenza d’un sentimento d’amore, qualsiasi essere umano (uomo o donna che fosse) aveva il sacrosanto diritto di viversi tutte le storie, anche di sesso, che desiderasse. E non c’era nessuna differenza sul piano morale, se si trattasse di un uomo o di una donna. Era semplicemente una scelta di libertà, che nessuno poteva avere il diritto di giudicare, se esperita nel rispetto di entrambi gli individui. Ero consapevole di esprimere una visione del mondo così lontana dalla morale comune e così laica, da essere in netto contrasto con quanto pensava la maggior parte della gente che mi circondava.

    Andammo via di lì dopo aver bissato il prosecco. Eravamo euforici, pieni di energia. Il viaggio di ritorno fu invece intriso di tristezza: mi parlò dei suoi due tentativi di suicidio, avvenuti negli anni precedenti, fortunatamente falliti. Me li rappresentò con una tale carica emotiva da darmi la sensazione di vederli come in un film. Sentivo in me la sua disperazione, la sua angoscia, le percepivo sulla pelle. Ricordo che, dopo averlo ascoltato, immediatamente risposi:

    – Non ringrazierò mai abbastanza la vita per averti risparmiato. Non rinuncerei a questi momenti per nulla al mondo. Ci sei, e questa è una fortuna per me, ma soprattutto per te.

    Ascoltammo, tornando, un album che lui amava moltissimo – di un artista che anch’io amavo profondamente. L’aveva sempre accompagnato nei momenti più neri degli ultimi anni e gli infondeva sempre un’infinita malinconia, a volte un’angoscia insostenibile. Ora era felice di ascoltarlo con me, perché, mi disse, gli rendeva più sopportabile la sofferenza che gli trasmetteva, aiutandolo a percepirne e apprezzarne la straordinarietà artistica. Mi chiese di tradurgli alcune parti mentre l’ascoltavamo, lo feci con emozione (d’altronde, la traduzione era da sempre la mia adorata professione), trovandomi di fronte a liriche di rara grandezza e sterminato dolore, ma forse proprio per questo sconvolgenti nella loro destrutturante bellezza. Roger Waters ci andava giù duro, era un coltello che affondava nell’anima.

    Il pomeriggio successivo decidemmo di allontanarci dal centro e di dirigerci verso un’oasi ben distante di bellezze naturalistiche. Fu una passeggiata interminabile, in cui non smettemmo un attimo di parlare, scherzare, ricordare. Un torrente in piena. Mi parlò della sua infanzia, del suo matrimonio fallito anni prima, di un caro amico morto in un incidente che ancora lo sconvolgeva per come si fosse svolto. Mi parlò di sé, dei suoi tormenti interiori. Scoprimmo ancora una volta di amare la stessa musica, di provare le stesse vibrazioni ascoltandola. Intanto le ore trascorrevano senza avere più cognizione del tempo, si fece buio. Ci scoprimmo affamati, ma anche pieni di energia. Optammo divertiti per due panini con la mortadella. Quante ore erano trascorse? Quattro, cinque, sei, di più? L’orologio era l’ultimo dei pensieri, il tempo era stato magnifico quel giorno, il sole ci aveva riscaldati senza sosta, in quell’inizio d’inverno così tiepido, indulgente. Trovammo, lungo la strada di ritorno, un minimarket ancora aperto; ci fermammo subito pregustando la nostra merenda speciale. Quei panini ebbero un che di unico, di profumato, di inebriante. Li divorammo con cupidigia, accompagnandoli a una birra gelata. Eravamo su un belvedere che ci regalava uno splendido mare di sera, calmo, luminoso grazie ai riflessi dei lampioni sul lungomare e alla luna, che sembrava quasi a portata di mano, per quanto appariva grande e brillante. Una volta soddisfatti gli appetiti dello stomaco, ci ritrovammo vicini, con naturalezza, quasi senza accorgercene. In un attimo sentii la sua guancia sulla mia, avvertii il suo calore; i suoi piccoli, delicati baci mi presero l’anima. Non esisteva nulla, solo quel momento. Risposi con la stessa dolcezza, con dentro un’emozione che scavava un solco profondo tra tutta la mia vita precedente e quegli attimi. Restammo a lungo così, abbracciati dolcemente, increduli, in silenzio. Quegli istanti rimasero sempre tra noi come i baci alla mortadella. Baci ingenui, puri, genuini. Un profumo che mi dava le vertigini.

    Ci ridestammo dal sogno, ripartimmo lentamente, parlando piano piano. Tenendoci per mano, tornammo a dedicarci alla nostra adorata musica, che ci aveva accompagnati con discrezione in quell’astrazione dal mondo, donandoci un’emozione in più alle infinite che stavamo vivendo insieme.

    II

    La fatidica domenica era giunta. I vissuti dei giorni precedenti avevano agito intensamente, eravamo ormai pronti al grande salto. Veleggiavo su una soffice nuvola, ero astratta dalla vita reale. Tra me e il mondo esterno c’era la stessa distanza esistente tra due galassie. Non pensavo a Giacomo (chi era?), né tantomeno al viaggio. L’unico pensiero che mi teneva ancorata alla vita reale erano i miei figli. Ma chissà ai loro occhi come apparivo. Probabilmente stralunata, incomprensibilmente euforica, sorprendentemente assente.

    Un sms di Giacomo mi riportò per un attimo con i piedi per terra: – Cherie, invece di vederci a pranzo da me, come previsto, ti spiace se rimandiamo a stasera?.

    Dispiacermi? pensai No di certo! lanciandomi subito in un cambiamento di programma che si preannunciava ideale. Avrei potuto (dovuto?) dirgli: Rimandiamolo a mai più ma ero troppo confusa e frastornata per mettere insieme un pensiero così razionale e ragionato. M’importava solo di chiamare Roberto e chiedergli se avesse voglia di pranzare con me, da lui. M’aveva già prospettato la preparazione delle linguine al salmone, innaffiate da una buona bottiglia di vino. Lo chiamai per dirgli che mi ero liberata per pranzo, accolse la notizia con gioia, mi disse di raggiungerlo subito. Riuscii a trovare la sua abitazione dopo qualche attimo d’incertezza.

    Eravamo felici di essere lì, insieme. Avvolti in un alone di contentezza che ci astraeva dalla realtà, trasportati in un mondo tutto nostro. Come nei giorni precedenti, parlammo tanto, scherzammo, ridemmo. Pranzammo con calma, senza farci prendere dall’ansia di ciò che sapevamo stava per accadere.

    Poi fu tutto molto naturale. Ci ritrovammo abbracciati, a baciarci con tenerezza, volendoci gustare ogni momento, senza fretta. Era come se ci conoscessimo da sempre e nello stesso tempo potessimo scoprirci attimo per attimo. Mi chiese se poteva abbassare il letto (era di quelli che si sollevano a parete, trasformandosi in libreria), gli risposi di sì con un sorriso. Mentre lo vedevo indaffarato a tirarlo giù e sistemarlo, volle dirmi qualcosa d’importante:

    – Martina, ci tengo a farti sapere che sono sterile, quindi sotto questo aspetto non devi preoccuparti. A causa di una disfunzione ormonale, produco pochi spermatozoi, che inoltre sono poco vitali e non in grado di muoversi. Per avere i miei figli mi sono sottoposto a trattamento ormonale sostitutivo.

    La notizia non mi suscitò alcuna reazione negativa. Anzi, fu il nulla-osta per una preoccupazione in meno. Neanche per un attimo ci venne in mente di usare il preservativo come tutela dal rischio di trasmissione d’infezioni. No, proprio l’idea non ci sfiorò.

    Facemmo l’amore a lungo, in quel pomeriggio assolato. Trascorremmo molte ore vicini, abbracciati, dopo, a parlare intensamente. Per me fu una scoperta: non avevo mai vissuto un rapporto con quella intensità, quel coinvolgimento, quella passione. Non ebbe tuttavia l’orgasmo, ma non mi sembrò sorpreso né contrariato. Mi disse che a volte gli capitava, e che non potevo avere dubbi sul grande piacere che aveva provato. Aggiunse poi che anche nel Kamasutra l’orgasmo non viene considerato una priorità, anzi gli si dà un’importanza molto relativa rispetto a quanto si ritiene nel mondo occidentale. E che così il piacere poteva essere più prolungato. Neanch’io diedi importanza a questo aspetto, presa com’ero dalla gioia di quanto mi stava accadendo, delle sensazioni magiche che provavo, del fatto di sentirlo così vicino, così partecipe, così dolce eppure così appassionato.

    Quella sera non andai da Giacomo, inventai un pretesto, rendendomi conto che neanche a lui importava più di tanto che non ci vedessimo. Era iniziata una nuova, rivoluzionaria fase della mia vita. Con Roberto prendemmo a comunicare senza sosta, fino al momento in cui, quotidianamente, ci rincontravamo, felici di quel che provavamo, inesausti nella voglia di stare insieme e di scambiarci ogni parte di noi.

    Quando lo raccontai a Teresa, ne fu felice. Si sentiva l’artefice di un incontro d’amore, della mia felicità, della mia rinascita. Ed era così che mi sentivo: rinata. Lo ripetevo spesso a Roberto:

    – Tu mi hai ridato la vita. Con te sono rinata, sono un’altra donna.

    Avevo scoperto un modo d’amare e sentirmi amata che mai avevo conosciuto. Ero euforica, piena di energie, positiva, gioiosa, entusiasta. Teresa fu da noi soprannominata Cupida, con pieno merito! Propose di vederci quanto prima da lei per un brindisi con prosecco per festeggiare il nostro amore, brindisi che puntualmente ci godemmo qualche giorno dopo. Mi diceva:

    – Più ti guardo e più mi accorgo che sei un’altra persona. Sei radiosa, emani luce.

    Con Roberto affrontammo il discorso del mio rapporto con Giacomo. Sapeva che ne avevo sofferto, ma fu molto cauto e attento alle mie esigenze. Si avvicinava la data della partenza, che mi creava molto disagio, non sapendo cosa fare. Avevo un marcato senso del dovere, un disagio che mi derivava dall’impegno preso a suo tempo per il viaggio, che m’impediva di dire a Giacomo quanto fossero cambiate le cose. Non desideravo partire, non m’importava nulla di trascorrere 5 giorni con lui in una capitale che pure mi aveva sempre attratto molto, Amsterdam. Ora quell’attrazione era svanita nel nulla, si era fatta inconsistente, non m’apparteneva più. In tutti quei giorni non l’avevo mai più cercato (né lui l’aveva fatto), non avevo provato l’istinto di tornare in contatto con lui, avevo vissuto solo in funzione di Roberto, del nostro rapporto, del nostro divenire. Eppure tornava prepotente l’ombra di quel viaggio, a cui mi rassegnai stupidamente, con un senso del dovere fuori luogo e decisamente inutile nei confronti di Giacomo.

    Le giornate trascorrevano con passione e trasporto, arrivò anche il primo orgasmo, dopo qualche giorno. Se non avevo mai drammatizzato per la sua assenza, quando questo si manifestò in tutto il suo vigore, ne fui contenta, manifestando a Roberto la gioia per il raggiungimento di un traguardo che di certo era importante anche per lui.

    Il giorno prima della partenza mi costrinsi a chiamare Giacomo. Succube del mio senso del dovere, del non venir meno alla parola data, lo cercai nel pomeriggio, per prendere accordi per la mattina successiva. Trovai un uomo infastidito per la mia assenza dei giorni precedenti, che però si guardò bene dall’esprimermi a chiare lettere. Preferì trattarmi con distacco, dicendomi che era impegnato e aveva pochi minuti per parlare. Sarebbe stato il momento ideale per dirgli che non volevo più partire, sentivo il tutto come un’oppressione insopportabile, eppure il mio radicato concetto del rispetto e della correttezza, ma soprattutto la mia inconscia visione dei rapporti di coppia, mi spinse al silenzio. Non ebbi la forza di dirgli che di quel viaggio non m’importava nulla, perché non m’importava più nulla di lui, che sì gli ero affezionata, ma come si può esserlo a un amico, non certo come è giusto che sia verso il proprio partner. L’eredità ricevuta da mia madre agì marcatamente, m’indusse a subire la sua insofferenza e a tacere. E a rimandare una scelta oramai ineluttabile.

    Una sola volta, in quei giorni, Roberto mi aveva detto: – Se non vuoi, non farlo.

    Gli avevo risposto, preda delle mie arcaiche convinzioni:

    – Ma come faccio? Ormai è tutto deciso, non posso tirarmi indietro. Sarebbe scorretto.

    Sapevo di forzarmi, ma non vedevo alternative. Dovevo pagare il fio. Mi sentivo incatenata, bloccata, come in quei sogni in cui non si riesce a muoversi, a parlare, pur volendolo con tutti sé stessi.

    Un carico eccessivo, anche fuori luogo, di cui mi resi conto ancor più l’indomani, quando c’incontrammo all’aeroporto. Anche perché quella mattina, mentre mi preparavo, era accaduto qualcosa di molto inquietante e inatteso: avevo scritto a Roberto per chiedergli come andasse, come avrebbe trascorso quella giornata. Mi aveva risposto che anche lui era in partenza.

    Per dove? – gli domandai, sorpresa.

    Per Avellino. Ho bisogno di capire. Non mi piacciono le situazioni sospese. Come dici tu, devo vedere il mito e la realtà. Lo so che ti addolora ma è un passo necessario per me.

    Ah, senti il bisogno di verificare cosa provi? – fu la mia istintiva risposta. – Ti auguro che le cose vadano come è meglio per te. Che siano quanto più aderenti ai tuoi desideri e sentimenti.

    Se non comprendo questa cosa non posso essere veramente libero di donarmi. Spero che tu sappia cosa vuol dire. Grazie per questo, anche. Lo so che ti do un dolore, ma non posso fare a meno di percorrere questo viale.

    Percorrilo fino in fondo. Così saprai chi ti aspetta davvero all’uscita.

    Concludemmo così la nostra comunicazione, promettendoci di risentirci nelle ore successive. Pur essendomi già svegliata con un senso di blocco, uno stato d’animo controverso e negativo, quei messaggi peggiorarono notevolmente il mio spirito, creandomi una serpeggiante inquietudine, un substrato di pericolo e ansia. Partii ancora più forzatamente, mi sentivo una condannata all’espiazione di una pena che m’ero costruita con le mie mani e perciò ancora più difficile da sopportare. Il mio stato nascente verso Roberto, così presente e vitalizzante nei giorni precedenti, aveva dovuto lasciare il posto a una preoccupazione strisciante, viscida, untuosa. Cosa sarebbe accaduto in quei giorni di lontananza? Quale risultato emotivo avrebbe avuto la sua visita ad Avellino, a quella donna poco conosciuta e che pure esercitava su di lui un fascino così marcato da spingerlo a cercarla per capire? Significavo dunque poco per lui? Certo, anch’io avevo espresso incertezze, dubbi, contraddizioni e dunque accettavo la sua decisione con lo stato d’animo di chi sa di aver commesso degli errori, di chi non ha saputo prendere decisioni chiare e nette e deve conseguentemente mettere in conto la sconfitta.

    All’aeroporto arrivammo entrambi con anticipo. Durante il tragitto avevo già tentato varie volte di chiamare Roberto, ma senza successo; non mi aveva mai risposto. Sapevo che non poteva essere ancora arrivato ad Avellino (quando sicuramente non avrebbe più risposto), e questo contribuiva ad accrescere la mia ansia. Perché non mi rispondeva? Cosa poteva significare quel silenzio? Gli mancava la voglia di sentirmi, non sapeva cosa dirmi? Era teso, agitato, preoccupato? Una volta appurato di avere un po’ di tempo prima dell’imbarco, mi allontanai da Giacomo con il pretesto di aver bisogno della toilette, per tentare di parlare con Roberto. Mi ero fermata presso i tavolini esterni di uno snack-bar, guardandomi intorno senza in realtà vedere alcunché. Anche i suoni mi giungevano ovattati, tutto intorno a me era come un’immagine sbiadita, estranea. Stavolta mi rispose. Trassi un sospiro di sollievo. I colori tornarono nei miei occhi, i suoni ripresero spessore e presenza. Mi disse che aveva viaggiato con la musica a volume alto e perciò non aveva sentito le mie telefonate. Che presumeva di arrivare ad Avellino di lì a un’ora e che ci saremmo risentiti. In parte mi sentivo confortata – almeno ero riuscita a parlargli – ma l’ansia non mi abbandonava. Il pessimismo trovò ampi varchi dentro di me, si fece strada senza fatica, complice la mia cronica, bassa autostima. Ero pressoché certa che avrebbe scelto lei, che si sarebbe accorto di provare per lei qualcosa d’importante, che lo spingeva a conoscerla meglio. Pensai tristemente che era quello che mi meritavo: se avessi rinunciato a quello stupido viaggio, probabilmente non avrebbe più pensato a lei, la nostra storia sarebbe proseguita e diventata più forte. Invece avevo scelto l’obbligo, m’ero ingigantita quella scelta operata in precedenza in condizioni del tutto diverse, m’ero messa da sola il cappio alla gola. Lei c’era, in qualche modo, prima di me. Dovevo accettare lo stato dei fatti e riconoscere che con me s’era solo concessa una piacevole parentesi, paradossalmente propedeutica al nuovo incontro con lei. Avevo così poca fiducia in me stessa, da non immaginarmi un epilogo diverso. Avrebbe scelto lei.

    Viaggiai con un peso sul cuore, sentendomi molto stupida per essere lì, invece che dove avrei voluto. E mi macinavo la mente al pensiero di quel che intanto stava probabilmente accadendo. Una volta atterrati, mi resi conto che con la mia scheda telefonica italiana non potevo certo chiamare o mandare sms in Italia. Si sarebbe esaurita in un attimo. Così pensai che, per quella sera, mi sarei arrangiata con le mail, per poi organizzarmi il giorno dopo con calma.

    L’hotel era ben ubicato nel cuore della città in un bel palazzo d’epoca, ma all’interno modernissimo e ben strutturato. Camera confortevole, in cui tuttavia mi sentivo a disagio. Non dormivamo più insieme da quando avevo conosciuto Roberto; alla preoccupazione per ciò che stava accadendo con ogni probabilità ad Avellino, s’aggiunse il disagio del pensiero di dormire con Giacomo, che intanto, pur avvertendo indubitabilmente il mio stato d’animo turbato, assente, continuava a far buon viso a cattivo gioco. La sera prima, a cena a Roma con una coppia d’amici (il volo partiva da lì), avevo – per Giacomo insopportabilmente – chattato senza sosta per tutto il tempo, atteggiamento che non mi era consono, e proprio per questo maggiormente stridente con il mio consueto modo di essere. Avevo sempre ritenuto maleducato, che si fosse in due o più, che qualcuno stesse quasi tutto il tempo col cellulare in mano, disattento alla conversazione dei presenti, preso da messaggi e social network. Eppure mi ero ritrovata a comportarmi esattamente in quel modo. La situazione era degenerata quando, a un certo punto, Roberto m’aveva chiamata, e io, scusandomi, m’ero allontanata per parlare con lui. Tornata poi al tavolo dopo un bel po’ di tempo, m’ero sentita apostrofare da Giacomo:

    – Ma insomma, stai tutto il tempo a chattare, poi ricevi telefonate e ti allontani, che modi sono questi?

    Solo in quel momento mi ero resa conto di quanto effettivamente il mio comportamento fosse poco garbato, me ne scusai e l’incidente si concluse lì. Tra i pregi che dovevo in ogni caso riconoscere a Giacomo c’era di certo quello della mancanza di risentimento. Una volta chiarite le cose, tutto tornava a scorrere senza musi lunghi o fastidiose polemiche.

    Di fondo, però, il mio atteggiamento continuò così per tutta la vacanza. Poco dopo l’arrivo, gli dissi che dovevo assolutamente controllare la posta, perché attendevo alcuni incarichi di traduzioni e, poiché in camera non c’era connessione, dovevo spostarmi nella hall, dov’era disponibile il WI-FI.

    Collegai il notebook con febbrile attenzione, inserii la password fornita dall’hotel e finalmente mi collegai alla pagina della mia posta elettronica. Scrissi a Roberto una lunga mail, in cui gli raccontavo la giornata ma soprattutto gli chiedevo come fosse andata la sua. Mi rispose quasi subito, mentre Giacomo mi raggiungeva per domandarmi che tempi avessi col lavoro, perché voleva che prenotassi il ristorante per quella sera. Gli chiesi ancora una mezz’ora, sentendomi disturbata per l’intrusione. Volevo leggere in santa pace la risposta alla mia mail, capire cosa accidenti stesse accadendo laggiù, mentre io ero stata così sciocca da andarmene in viaggio con un uomo che sentivo lontanissimo da me, che m’era ormai, definitivamente, uscito dal cuore. Non mi raccontò i dettagli, preferendo poi parlarmene a voce. Mi disse solo che non era riuscito a vederla, perché lei gli aveva più volte ripetuto di non andare, visto che era impossibilitata a liberarsi dei suoi impegni di lavoro. Per lui questo aveva significato senza ombra di dubbio che lei non avesse voglia di vederlo, che non le importasse nulla di lui. Mi chiedeva poi come stessi e cosa avessi in programma. Gli risposi che quello che era accaduto non aveva portato alcuna soluzione, anzi, eravamo al punto di partenza. La mia preoccupazione aumentava sempre più, ma per quella sera avrei dovuto fermarmi e pazientare sino all’indomani per saperne di più. Giacomo continuava a spazientirsi e perciò non mi fu possibile attendere la successiva risposta. Fuori c’era la neve, l’aria era molto fredda, ma il freddo era soprattutto dentro di me. Sentivo un pericolo strisciante, subdolo, un senso di minaccia insistente.

    Affrontai la serata con rassegnazione e pazienza. Cenammo in un ristorante ricco di atmosfera, con un’eccellente cantante al pianoforte, che per qualche attimo riuscì a regalarmi piacevolezza e distrazione. Ma il pensiero tornava sempre lì, alla fumosa situazione che s’era creata e preannunciava sviluppi per me dolorosi. Temevo che il negarsi accrescesse il desiderio di lei, che ne inspessisse il fascino, l’inafferrabilità. Ero certa che lui le avrebbe strappato un nuovo appuntamento quanto prima e che tutto poi sarebbe andato nel modo più deleterio per me. Intanto ero lì a migliaia di chilometri, ad arrovellarmi nei miei pensieri contorti, con accanto un uomo che, in maniera incontrovertibile, non volevo più.

    Ma l’ombra delle mie inconsce, antiche concezioni proseguiva nella sua opera nefasta: una volta tornati in hotel, mi costrinsi a cedere alla sua voglia di sesso. Mi sacrificai con mestizia e (ingiustificato) senso del dovere, vivendomi uno dei rapporti più tristi e passivi della mia vita. Durante il quale un fiume in piena nella mia mente mi precipitava addosso le splendide emozioni e sensazioni vissute fino a due giorni prima con Roberto, creando una faglia incolmabile tra le due esperienze. Una faglia che, di minuto in minuto, diveniva sempre più profonda, insanabile. Quando tutto finì, avevo un groppo alla gola, mentre cominciava ad affiorarmi una rabbia incontenibile per la mia debolezza e capacità autolesiva.

    Mi stavo facendo del male, avendo scelto di farmene. Non capivo, ero smarrita, tormentata, preoccupata. Dormii poco e male, l’agitazione mi concesse brevi, superficiali pause. Al mattino ero distrutta e di pessimo umore. Facemmo colazione in un clima nebuloso, poi dovetti cedere alla doverosa organizzazione della giornata. Che mi offrì un barlume di luce quando ricevetti un sms, in cui il mio fornitore di servizi telefonici mi annunciava che la mia ricarica era andata a buon fine. Dopo pochi attimi, mi arrivò un messaggio da Roberto: era stato lui a ricaricare la mia scheda! Mi prese un moto di tenerezza, di gratitudine per il suo pensiero, che mi dimostrava quanto avesse voglia di comunicare con me. C’inviammo ancora qualche breve messaggio, m’incalzava nel domandare che programma avessimo per la giornata, infine aggiunse:

    E io dove sono in te?. – Fui sorpresa dalla domanda così diretta, mi sentii avvampare. Risposi cercando un appiglio scherzoso.

    Sei nel regalino che ti ho preso un paio d’ore fa: carino, divertente e, come dire, disimpegnato. Così non avrai timore che io voglia attentare alla tua libertà… Anzi, il mio regalino t’invita inequivocabilmente a goderne....

    Era un posacenere che riproduceva il Red Light District, il famoso Quartiere a Luci Rosse di Amsterdam. Ma non glielo dissi.

    Mi manchi – fu la sua immediata replica.

    Altro tuffo al cuore. Altra scarica della mia cronica mancanza di fiducia in me stessa, oltre al surplus aggiunto da quanto m’aveva raccontato sull’esito della sua visita ad Avellino. Mi venne spontaneo scrivergli:

    Ma quando mai. – Avevo paura, ero impagliata.

    Non dubitare mai delle mie parole, non c’è cosa più brutta per me.

    Accusai il colpo, aveva ragione.

    Cambiò subito argomento, domandandomi come andasse con Giacomo. Gli risposi che non andava male, tranne per il fatto che cominciava puntualmente a rompere ogni volta che scrivevo. E dal suo punto di vista aveva pure ragione. Ma non potevo aggiungere altro, era impossibile comunicare con dei messaggi il turbine che avevo dentro, affiancato dal pentimento della mia scelta di partire. Né potevo parlargli, in quel momento e con un mezzo così scarno come gli sms, del vuoto che avevo avvertito quella notte, del piattume e anche della nostalgia sconfinata che avevo di lui. M’ero messa in trappola da sola, ben mi stava subirne le conseguenze. Avevo già iniziato a fare il conto alla rovescia, cercando di rendermi meno penoso il tempo che avrei dovuto ancora trascorrere lì.

    L’impresa fu ardua, i giorni mi sembrarono interminabili, pur trovandomi in una città di grande fascino e vitalità. Visitammo tanti luoghi ricchi di storia, di cultura, d’arte. Il fiume Amster offriva scorci suggestivi, l’atmosfera prenatalizia (decisamente laica) infondeva allegria, la gastronomia seduceva, la musica era dappertutto.

    Ma io ero altrove, in uno spazio e un tempo indefinibili. Il secondo giorno, me ne resi conto a posteriori, cercai in tutti i modi di prendermi un malanno, un po’ per una sorta di autopunizione e un po’ perché questo avrebbe allontanato Giacomo da me. Ci riuscii in pieno: raffreddamento, probabile febbre, ma soprattutto una fortissima tosse secca, astiosa. Non feci nulla per curarmi, mi lasciai andare senza resistenze, perché l’unico obiettivo era, giustificato dal non volergli trasmettere i virus o batteri che obiettivamente albergavano in me, tenerlo a debita distanza. M’importava solo di questo: che tra noi non ci fosse più vicinanza, tantomeno a letto. L’obiettivo fu raggiunto. Non mi toccò più.

    Intanto proseguiva la fitta comunicazione scritta con Roberto, che mi stava vicino con discrezione, allegria e dolcezza. Eravamo immersi nella nostra voglia di rivederci, di stringerci. Avevo già maturato, finalmente, la decisione: una volta rientrati, avrei lasciato Giacomo, per vivermi appieno e gioiosamente l’amore della mia vita. Questa scelta così fondamentale per me (malgrado l’ombra che continuava a starmi alle spalle a causa della donna di Avellino) m’inondava di energia e ottimismo, predisponendomi ad affrontare anche le eventuali sconfitte che, sentivo, erano dietro l’angolo. Avrei fatto tutto il possibile e anche l’impossibile, perché il nostro amore crescesse illimitatamente. Di questo ero certa: era la prima, vera e unica occasione che la vita mi offriva, d’amare ed essere riamata. Andavo in giro, mangiavo e dormivo per dovere, attendendo unicamente il momento del rientro, per riabbracciare Roberto.

    Il giorno della partenza, finalmente giunto, vedeva l’aereo solo nel tardo pomeriggio. Decidemmo di trascorrere le ore di attesa facendo un ultimo giro per la città, sapendoci oramai orientare bene. Passeggiavamo lungo l’Amster, quando Giacomo non ce la fece più. Cominciò una polemica che non gli era mai appartenuta, parlando con un tono di voce concitato, alterato. Si disse stanco del mio continuo chattare, passare ore al notebook a scrivere, scrivere, scrivere, ma soprattutto si mostrò esasperato della mia assenza, della mia quasi abulia. Anche in quel caso, sapevo di essere in torto, ai suoi occhi, perciò reagii senza troppa forza, dicendogli che tante volte in passato era capitata la situazione contraria, ma che io non avevo mai polemizzato. Cercammo, a un certo punto, di non inasprire gli animi, entrambi consapevoli di dover trascorrere insieme ancora molte ore. Lui cercò di tornare al suo consueto umore, fatto di superficiale allegria e strafottenza, io m’adeguai. Pensai che si trattava semplicemente di lasciar andare avanti la lancetta del tempo. Poi tutto avrebbe trovato finalmente la sua giusta dimensione. Ed io avrei agito come oramai avevo fermamente deciso. La forza che mi sentivo dentro, una determinazione che raramente si era manifestata in tutta la mia vita, mi dava ulteriore conferma di quanto Roberto fosse importante per me, di quanto la mia esistenza fosse a un punto di svolta, al classico giro di boa.

    Volammo senza intoppi, atterrammo a Roma con puntualità. Prendemmo il treno per Napoli, molto affollato e per nulla confortevole. Ma che importava, mi stavo riavvicinando a Roberto, che avevo continuato ad aggiornare sui nostri spostamenti e orari. La tortura era in procinto di terminare. Una volta sul treno, lo chiamai, allontanandomi da Giacomo. Parlammo per quasi tutta la durata del viaggio. Finalmente mi raccontò i dettagli di quella giornata ad Avellino, a cui risposi che il problema restava, che la situazione era statica. Le aveva telefonato più volte durante il viaggio per dirle che stava arrivando, che andava lì solo per vederla. Ma lei aveva nettamente rifiutato, dicendogli di tornare indietro perché non avrebbe potuto incontrarlo. Lui era comunque andato fin lì, poi, di fronte all’ennesima risposta negativa, se n’era tornato indietro. Ribadii che nulla era cambiato rispetto a prima, che ora anzi i suoi dubbi si sarebbero ulteriormente rafforzati.

    Fu dopo questa narrazione che mi disse: – Tu non mi conosci ancora. Il suo rifiuto di vedermi ha significato per me non solo che non le importava nulla di me, ma anche e soprattutto che io con quella donna non ho nulla in comune. Non le ho chiesto un nuovo appuntamento, non desideravo farlo. Io sono fatto così, per me la faccenda è chiusa. Voglio solo riabbracciarti.

    Mi salì un calore dentro. Mi stava forse dicendo che mi amava? Non lo sapevo, ma quel che m’appariva in una luce brillante era che lui pensasse a me con tanto trasporto e non volesse più saperne dell’altra.

    Il treno giunse puntuale alla stazione. Accompagnai Giacomo a casa, per poi precipitarmi da Roberto. Eravamo già d’accordo che avrei dormito da lui. La nostra prima notte insieme. Il solo pensiero mi faceva battere più forte il cuore, mi seccava la bocca, mi dava le vertigini. Corsi da lui subito dopo aver lasciato Giacomo. M’abbracciò forte. Facemmo l’amore con impeto, senza sosta, a lungo. Fu come risvegliarmi da un brutto sogno, fu come tornare a nascere, fu l’estasi. Dopo restammo abbracciati, stretti, felici. Mi raccontò di aver seguito il mio volo minuto dopo minuto con un software della compagnia aerea, che tracciava su una mappa virtuale il percorso già svolto e il punto esatto in cui di volta in volta si trovava, quanto tempo e quanti chilometri mancavano all’arrivo, le condizioni meteo… Quando l’aereo aveva toccato il suolo, lui aveva pensato: – Eccola, è tornata da me.

    Quel racconto mi commosse, gli dissi che avevo contato i giorni, le ore e i minuti che mi separavano da lui, che mi erano sembrati interminabili e ora ero lì, tra le sue braccia. a un certo punto mi chiese se avessimo fatto l’amore in quei giorni. Scelsi la strada della sincerità, anche se avrei potuto mentirgli, dicendogli che la sera dell’arrivo eravamo crollati subito per la stanchezza e l’indomani m’ero procurata il malanno. Ma non volli ingannarlo, perché dal primo momento avevo voluto essere onesta e schietta con lui in ogni ambito della mia vita e anche perché era stato con me tutti i giorni prima della partenza, presumendo ovviamente quel che sarebbe accaduto. Gli risposi: – Sì, solo la prima sera. Poi sono riuscita a tenerlo lontano da me. Non ne avevo alcuna voglia, è stato triste e squallido, ho ceduto al mio senso del dovere, stupidamente. Ho pensato a te tutto il tempo, sentendomi un vero schifo. Perdonami.

    Lui abbassò lo sguardo, ma accusò bene il colpo. Non disse granché, ascoltò i miei commenti, mi sembrò consapevole del fatto che ero confusa e che non avevo ancora lasciato Giacomo. Aggiunsi che mi ero preparata al fatto che la sua visita ad Avellino avesse un epilogo per me doloroso e che sapevo di doverlo accettare. Sentirmi dire che aveva scoperto di provare un sentimento per quella donna era un’eventualità che sapevo essere concreta, così come era concreto il rischio che facessero l’amore. Non sfuggivo alla realtà. E se gli eventi avevamo preso un’altra piega, non potevo che esserne grata al destino. Nel mio caso, avevo sbagliato a partire e a fare ciò che ne era conseguito, ero stata inutilmente e masochisticamente integerrima con me stessa, me ne assumevo la responsabilità, sapendo di dargli un dolore. Eravamo entrambi rimasti ancorati al nostro passato, da cui ora, però, ciascuno con le sue ragioni, avevamo deciso di affrancarci. Non avevamo dubbi: la scelta era cosciente e definitiva. Mi sembrò accettare le mie, le nostre ragioni. Cambiò subito argomento e ci dedicammo a noi.

    Dormimmo molto poco, quella notte. Anche quando lui, di tanto in tanto, s’appisolava, io restavo a guardarlo, felice come non mai, incredula che la vita mi avesse donato una felicità così totale, immensa, completa.

    Al mattino ero fisicamente distrutta ma piena di energie. La mente, il cuore, i sensi non smettevano di ballare, cantare, gioire all’unisono. Chi se ne importava se il corpo era debole da una giornata di viaggio e una notte d’amore. Il tempo splendido contribuì a infondermi ulteriore entusiasmo. Ero al settimo cielo. Facemmo colazione insieme, imboccandoci l’un l’altra, stringendoci la mano, guardandoci a lungo negli occhi, inebriati e sconcertati dalle nostre pulsanti emozioni.

    In tarda mattinata dovetti tuttavia darmi una mossa, decidermi a prepararmi per tornare a casa, dai miei figli. Loro non potevano sapere ancora cosa mi stesse succedendo, avrei dovuto presto parlargli, ma sapevo che non sarebbe stato facile. Un passo alla volta, mi dissi. L’amore per Roberto mi darà la forza di affrontare il dolore che darò loro. Dolore sì, perché non sapevano ancora che il loro papà e io eravamo separati da tempo, poiché vivevamo ancora da separati in casa, in attesa di trovare una sistemazione consona alle nuove esigenze e informare i nostri figli dello status quo subentrato nelle nostre vite. Avevamo molti sensi di colpa verso di loro, e l’uno verso l’altra, perché la fine di un matrimonio è sempre qualcosa di sconvolgente da affrontare, anche quando, come nel nostro caso, rimanevano la stima e l’affetto. Sapevamo di aver commesso tanti errori, di aver lasciato scorrere il tempo cercando di affrontare i nostri problemi in maniera – ora ne eravamo consapevoli – inadeguata. C’erano stati infiniti alti e bassi, i nostri figli ci avevano dato un’immensa gioia, che a lungo ci aveva storditi, facendoci credere che le cose tra noi fossero migliorate e si potesse guardare al futuro insieme. Così non era stato. Il tempo ci aveva ripresentato il conto. Ora la decisione di separarci era irrevocabile.

    C’era un altro passaggio importante da compiere: dovevo lasciare Giacomo. Decidemmo che in quei giorni gli avrei parlato. Intanto continuavamo a vivere il nostro idillio, con Teresa che ci manifestava continuamente la sua gioia e noi che ne eravamo sempre più impregnati.

    Quando Giacomo, la mattina del 23 dicembre, mi contattò per propormi di cenare insieme, gli dissi subito di sì, per avere l’opportunità di liberarmi di quel peso. Informai Roberto, chiedendogli se dopo avrebbe avuto voglia di vedermi. Mi rispose che sì, che aveva sempre voglia di vedermi e avrebbe atteso con trepidazione l’esito dell’incontro. Ero determinata, non avevo alcun dubbio, solo la certezza di fare la scelta giusta. Non avvertivo neanche grande disagio nei confronti di Giacomo, che già iniziavo a vedere come un amico, a cui mi legava un sincero affetto. In fondo, per lui ero una delle tante, anche se con me aveva un rapporto non semplicemente di letto, bensì anche un’intesa sul piano relazionale e culturale, e una buona dose di fiducia. Ma niente di più né di diverso.

    Arrivai da lui all’orario concordato, chiacchierammo del più e del meno, gli scaricai sul computer le foto del viaggio. Sembrava tranquillo, parlava del nostro soggiorno ad Amsterdam con piacevolezza, sembrava ignorare tutto quanto ne aveva indubitabilmente inquinato il presunto fascino. Appena terminata la cena, gli dissi che avevo bisogno di parlargli.

    – Certo, dimmi pure – mi rispose, accomodandosi con calma sul divano di fronte a me, che invece non vedevo l’ora di sbrigarmi e andar via per volare da Roberto.

    – La nostra frequentazione finisce qui – esclamai di getto.

    Rimase con la pipa in una mano e l’accendino nell’altra, con le braccia a mezz’aria, per qualche secondo con lo sguardo fisso nel vuoto. Poi prese a guardarmi, chiedendomi:

    – Perché?

    – Perché mi sono innamorata di un altro.

    Come mi sentivo fiera di quella verità che mi scorreva nelle vene, come m’avvertii forte in quell’attimo.

    – Mi hai fatto questo bel regalo di Natale – fu la sua ironica risposta.

    Eccolo, Giacomo, a ritrovare tutto sé stesso, a essere capace anche di autoironia, sebbene comunque sorpreso dalla mia decisione. Chiaro che aveva capito durante tutto il viaggio che c’era qualcosa di diverso e importante che mi prendeva, mi catturava e portava lontano da lui. Ma, nella sua visione delle cose, si trattava probabilmente di un’avventura, di uno sfizio che mi stavo togliendo e che in fondo non lo scalfiva più di tanto, visto che non m’amava e conseguentemente non era geloso di me. Sì, mi voleva bene, ma questo non c’entrava nulla con l’amore. Aveva dunque desunto che, una volta soddisfatte le mie voglie, sarei tornata da lui, o meglio, che avrei continuato a occupare il posto che m’aveva generosamente riservato nel suo harem. Perché lasciarlo dunque? Avremmo potuto continuare a vederci di tanto in tanto, perché questa decisione definitiva? Il mio cantuccio nell’harem era sempre disponibile, anche se certo non me lo disse in maniera così diretta.

    Gli risposi che stavo vivendo l’occasione della mia vita per essere felice. Nulla e nessuno avrebbero potuto intrufolarsi nella mia storia d’amore, che non lasciava spazio per nient’altro.

    Volli poi andar via.

    – Resteremo almeno amici? – fu la sua ultima domanda.

    – Certo che sì – gli risposi – non c’è conflitto tra noi, ci rispettiamo reciprocamente.

    Ci baciammo sulle guance, ci salutammo e corsi via da Roberto. Che m’aspettava con ancora maggior trepidazione rispetto al mio ritorno dal viaggio. Gli raccontai com’era andata, come mi sentissi sollevata dalle mie azioni, e gli espressi tutta la mia gioia di essere lì con lui, di aver risolto il mio passato, di potermi donare a lui senza più riserve. Restava solo da affrontare il discorso con i miei figli, nei tempi e nei modi più giusti per dar loro meno dolore possibile. Festeggiammo insieme, cenammo e brindammo al nostro amore. Ci attendevano giorni festivi, in cui avremmo avuto più tempo a disposizione per stare insieme. Così fu. Incontri, passeggiate, tour fotografici, pranzi e cene a lume di candela, notti insieme, tenerezze, passione, emozioni. Felicità. Passammo deliziosamente attraverso il condiviso fastidio del Natale, divertendoci a preparare cibo gustoso e a scambiarcelo reciprocamente tra un bacio e una carezza.

    Tra Natale e Capodanno, un giorno Giacomo mi telefonò per chiedermi di sistemargli alcuni file sul pc, operazione per lui troppo complicata, mentre per me si trattava di semplice routine. Erano file di lavoro, che in precedenza gli avevo scaricato io. Lo dissi a Roberto:

    – Ti spiace se nel pomeriggio vado da Giacomo per una mezz’ora a sistemargli alcuni file che ha sparsi sul desktop e non riesce a organizzare? Poi vengo direttamente da te.

    – Certo, non c’è problema. Fai questo lavoretto, io ti aspetto a casa.

    Mi sbrigai nel tempo previsto. Giacomo sembrava di buon’umore, bevemmo insieme un caffè, gli creai una cartella che conteneva quei file, gliela sistemai nella posizione desiderata e poi, dandoci gli auguri per il nuovo anno, scappai via da Roberto. Gli raccontai tutto e mi apparve tranquillo. Aggiunsi anche che non m’ero sentita a disagio, perché avvertivo tranquillità nei miei confronti, nessuna polemica né aggancio alla situazione passata. L’episodio non ebbe conseguenze tra noi. Mi sentivo creduta, sapevo di essere sincera e ritenevo che la mia sincerità trasparisse anche a lui. Erano spariti anche i miei sofferti pensieri sulla donna di Avellino, tutto si era dissipato nella luce folgorante del nostro amore.

    Durante le Feste trascorremmo anche molto tempo ciascuno con i nostri figli, trasmettendo istintivamente anche a loro, con i nostri sguardi e la nostra allegria, la palese gioia di cui eravamo pieni. Presto avrei anche conosciuto

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