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La musica riempe i silenzi
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E-book147 pagine1 ora

La musica riempe i silenzi

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Info su questo ebook

Sybil è una ragazza di venticinque anni che vive nella grande mela da quando è nata e non l’ha mai lasciata. Sogna di diventare una cantautrice e mentre continua a scrivere canzoni, si esibisce nei pub con la speranza di essere notata.

La sua vita fu stravolta all’età di nove anni quando i suoi genitori morirono. Quel lutto non l’ha mai abbandonata e si è amplificato quando sua sorella ha deciso di lasciare la città.

Adesso Saphire è tornata e vuole rientrare nella sua vita, ma non sarà facile.

La storia mira a raccontare come sia difficile affrontare il dolore di una perdita subìta, come si tenda a volte ad essere accecati dal dolore stesso, non riuscendo a vedere quello delle altre persone che compongono la nostra vita, e lo fa tramite la protagonista che affronta i propri demoni grazie alla musica, sua amica da sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita10 dic 2019
ISBN9788831652285
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    Anteprima del libro

    La musica riempe i silenzi - Martina Ronzani

    lei.

    1.

    «Com’è an­da­to il pro­vi­no?», sen­tii la vo­ce del­la mia coin­qui­li­na at­tra­ver­so la por­ta. Do­ve­va aver sen­ti­to il mio ar­ri­vo, tro­van­do­la all’in­gres­so quan­do riu­scii ad en­tra­re.

    Cas­san­dra era fat­ta co­sì, era un ur­ga­no di ec­ci­ta­zio­ne e gio­ia, il qua­le ti riu­sci­va a do­na­re en­tu­sia­smo, an­che quan­do nean­che sfor­zan­do­ti riu­sci­vi ad aver­ne.

    Il pro­vi­no si era svol­to in una pic­co­la stan­za di un uf­fi­cio di Ma­n­hat­tan, do­ve da con­sue­tu­di­ne gli ad­det­ti al­le au­di­zio­ni era­no se­du­ti die­tro una scri­va­nia pie­na di fo­gli e tu do­ve­vi sta­re da­van­ti a lo­ro e re­ci­ta­re le tue bat­tu­te, spe­ran­do di non ap­pa­ri­re trop­po im­pe­di­ta.

    La mia per­for­man­ce non era sta­ta idil­lia­ca, me ne ero re­sa con­to da so­la, ma si trat­ta­va del­la par­te più pic­co­la di tut­to lo show ed era l’uni­ca mu­si­ci­sta. Cas­sie era riu­sci­ta a con­vin­cer­mi gra­zie a quel par­ti­co­la­re.

    «Al­lo­ra, co­me è an­da­to?»

    «Lo sa­prò se ri­ce­ve­rò da lo­ro una te­le­fo­na­ta.»

    Non vo­le­vo real­men­te che mi ri­chia­mas­se­ro, pen­san­do che se lo me­ri­tas­se­ro mol­to di più tut­te le al­tre che si era­no pre­sen­ta­te.

    Mi ero do­man­da­ta tut­ta la mat­ti­na, an­che do­po aver­lo fat­to, per­ché mi fos­si re­ca­ta in quel po­sto se non vo­le­vo sta­re lì.

    Cas­san­dra ed io ave­va­mo di­scus­so spes­so del fat­to che non vo­les­si fa­re pro­vi­ni e lei in­ve­ce mi spin­ges­se a far­li. Non vo­le­va cer­to che di­ven­tas­si un’at­tri­ce o mi li­mi­tas­si a scri­ve­re e can­ta­re can­zo­net­te, ma so­ste­ne­va che tut­ti i più gran­di can­tan­ti al mon­do fos­se­ro par­ti­ti da qual­che par­te e che an­che io do­ves­si fa­re al­tret­tan­to.

    In quel mo­do mi ave­va con­vin­ta ad ini­zia­re a fa­re pro­vi­ni per del­le pub­bli­ci­tà bi­so­gno­se di una can­zo­ne che ven­des­se be­ne il lo­ro pro­dot­to. Ogni mar­chio fa­mo­so ave­va il pro­prio slo­gan e co­sì an­che co­lo­ro che fa­mo­si vo­le­va­no di­ven­tar­lo, cer­ca­va­no qual­cu­no che po­tes­se dar­gli una ma­no.

    Suc­ces­si­va­men­te mi ave­va con­vin­ta a fa­re pro­vi­ni per pic­co­le par­ti in al­cu­ne sit-com ed era per quel­lo che ave­vo so­ste­nu­to un’au­di­zio­ne quel gior­no.

    «Quan­ta gen­te era pre­sen­te?»

    «La stes­sa quan­ti­tà che si pre­sen­ta ad ogni pro­vi­no.».

    Non esi­ste­va un to­ta­le pre­ci­so di per­so­ne che quo­ti­dia­na­men­te fa­ce­va­no pro­vi­ni. Non sem­pre ri­ma­ne­vo a guar­da­re quan­ta gen­te fos­se pre­sen­te, es­sen­do trop­po in­ten­ta a ri­pas­sa­re la par­te.

    «Che im­pres­sio­ni hai avu­to?».

    «I pro­vi­na­to­ri sba­di­glia­no già do­po la ter­za per­so­na, i pro­vi­nan­ti si tor­tu­ra­no le ma­ni dall’an­sia e al­la fi­ne di tut­to, me­tà par­te l’hai ri­cor­da­ta al­la per­fe­zio­ne e l’al­tra l’hai to­tal­men­te in­ven­ta­ta.».

    Cas­sie, so­pran­no­me da­to­le da me du­ran­te l’in­fan­zia, il mon­do del­lo spet­ta­co­lo lo co­no­sce­va me­glio. Era fi­glia di un no­to pre­sen­ta­to­re del­la te­le­vi­sio­ne e di un’at­tri­ce di Hol­ly­wood, la qua­le l’ave­va ab­ban­do­na­ta, per in­se­gui­re il so­gno di ap­pa­ri­re sul gran­de scher­mo. Di lei, Cas­san­dra ave­va mol­to, a par­ti­re dal­la pas­sio­ne per la re­ci­ta­zio­ne. Era cre­sciu­ta nell’am­bien­te del­lo show bu­si­ness e sa­pe­va qua­li era­no le re­go­le per di­ven­ta­re qual­cu­no, co­no­sce­va al­la per­fe­zio­ne qua­le pe­so cor­po­reo do­ve­vi ave­re e qua­le ta­glio di ca­pel­li era pre­fe­ri­to dai po­ten­ti.

    Tut­to gi­ra­va sull’im­ma­gi­ne e sul sa­per in­trat­te­ne­re il mag­gior nu­me­ro di per­so­ne pos­si­bi­li.

    Mol­te per­so­ne era­no en­tra­te a far par­te di quel mon­do, ne­gli ul­ti­mi an­ni, gra­zie al nu­me­ro ele­va­to di se­gua­ci che ave­va­no sui so­cial net­work e que­sto di­mo­stra­va che im­por­ta­va sa­per ven­de­re. Non im­por­ta­va il ta­len­to ve­ro e pro­prio del­la per­so­na, ben­sì il sa­per scen­de­re a com­pro­mes­si. La re­go­la nu­me­ro uno era che se riu­sci­vi a muo­ve­re le mas­se, quel­lo era il tuo pun­to di for­za. Il com­pro­mes­so da fa­re era il riu­sci­re a far­si se­gui­re da mol­te per­so­ne, in cam­bio di di­ven­ta­re fi­nal­men­te chi si vo­le­va es­se­re.

    Cas­sie par­te­ci­pa­va spes­so a del­le fe­ste do­ve po­te­vi in­con­tra­re per­so­ne di ogni ti­po e di al­to ran­go, tut­ta­via più la pre­ga­vo di por­tar­mi con lei, più lei por­ta­va qual­cun al­tro.

    A vol­te le ave­vo an­che chie­sto di fa­re il mio no­me, se a qual­che fe­sta fos­se ser­vi­to qual­cu­no che can­tas­se dal vi­vo, ma non ave­vo mai ri­ce­vu­to una pro­po­sta di la­vo­ro di quel ge­ne­re.

    Mi ero li­mi­ta­ta ad an­da­re a scuo­la e mi­glio­ra­re le mie do­ti con la mu­si­ca, sia nel can­to che nel suo­na­re stru­men­ti. Una vol­ta lau­rea­ta ad una scuo­la d’ar­te, ave­vo ini­zia­to a fa­re do­man­da nei pub per can­ta­re, ed ave­vo ot­te­nu­to de­gli in­gag­gi, piut­to­sto scar­si e trop­po po­co pa­ga­ti per co­pri­re le spe­se.

    Que­sto mi fe­ce ri­cor­da­re che quel­la se­ra ave­vo un al­tro la­vo­ro po­co re­tri­bui­to e che mi do­ve­vo sbri­ga­re per­ché il lo­ca­le si tro­va­va dal­la par­te op­po­sta a do­ve abi­ta­vo e ci sa­reb­be vo­lu­ta qua­si un’ora per ar­ri­va­re.

    La­sciai la con­ver­sa­zio­ne a me­tà, sen­za da­re ri­spo­sta, e mi chiu­si nel­la mia stan­za da let­to.

    La ca­sa nel­la qua­le abi­ta­va­mo ave­va quat­tro stan­ze da let­to, tre ba­gni, un sa­lot­to ed una cu­ci­na. L’ap­par­ta­men­to ap­par­te­ne­va al­la mia fa­mi­glia da ge­ne­ra­zio­ni. Era sta­to ac­qui­sta­to dal mio bi­snon­no e vi ave­va abi­ta­to con sua mo­glie fi­no al­la sua di­par­ti­ta. Do­po di lo­ro era toc­ca­to al non­no ere­di­tar­lo, es­sen­do l’uni­co fi­glio. Ora che il non­no era mor­to e co­sì an­che suo fi­glio, ov­ve­ro mio pa­dre, l’ap­par­ta­men­to era di mia pro­prie­tà e la non­na me lo ave­va la­scia­to vo­len­tie­ri quan­do si era tra­sfe­ri­ta fuo­ri cit­tà per tra­scor­re­re lì la sua vec­chia­ia.

    La sua stan­za era inu­ti­liz­za­ta e non l’ave­vo af­fit­ta­ta a nes­su­no, per­ché la te­ne­vo li­be­ra per lei quan­do ve­ni­va a tro­var­mi.

    Ac­can­to a quel­la ca­me­ra, c’era la mia che era la clas­si­ca stan­za più lun­ga che lar­ga e co­sì ci en­tra­va sol­tan­to un let­to sin­go­lo e un pic­co­lo ar­ma­dio.

    For­tu­na­ta­men­te non ero una don­na ap­pas­sio­na­ta di scar­pe e ve­sti­ti, per que­sto ne pos­se­de­vo po­chi e l’ar­ma­dio non fa­ce­va fa­ti­ca a chiu­der­si.

    Il non­no in qual­che mo­do vi­ve­va an­co­ra con noi at­tra­ver­so Am­le­to, il suo gat­to che, es­sen­do an­zia­no d’età, non fa­ce­va al­tro che pol­tri­re tut­to il gior­no.

    Un me­se do­po il tra­sfe­ri­men­to del­la non­na, ac­col­si in ca­sa la mia ami­ca Cas­san­dra, la qua­le ave­va bi­so­gno di un po­sto do­ve sta­re che fos­se vi­ci­no all’uni­ver­si­tà.

    Ci co­no­sce­va­mo da quan­do era­va­mo bam­bi­ne. Il pri­mo gior­no di ele­men­ta­ri mi ven­ne in­con­tro, mi ab­brac­ciò e mi sus­sur­rò all’orec­chio che, da quel gior­no, sa­rem­mo sta­te mi­glio­re ami­che per sem­pre. Co­sì era sta­to.

    Fum­mo se­pa­ra­te due an­ni do­po, quan­do suo pa­dre le cam­biò scuo­la, ma ri­ma­nem­mo in con­tat­to e non ci stac­cam­mo più.

    Lei e il pa­dre di­ven­ne­ro ami­ci di fa­mi­glia e co­me ta­li ci die­de­ro tut­to l’ap­pog­gio di cui ne­ces­si­ta­va­mo do­po la mor­te dei miei ge­ni­to­ri.

    Tor­nam­mo a fre­quen­ta­re la stes­sa scuo­la al li­ceo e fu la mia sal­vez­za.

    Do­ve­vo pre­pa­rar­mi per la se­ra­ta e mi chiu­si in ba­gno per fa­re una lun­ga doc­cia ri­fles­si­va.

    Men­tre l’ac­qua scor­re­va sul­la mia te­sta e lun­go tut­to il mio cor­po, pen­sai a do­ve fos­si ar­ri­va­ta e co­sa stes­si fa­cen­do nel­la e del­la mia vi­ta.

    Do­ve­vo vo­le­vo ar­ri­va­re lo sa­pe­vo, ma per­ché ci im­pie­ga­vo tan­to? Co­sa mi bloc­ca­va? Per­ché ave­vo ini­zia­to a la­vo­ra­re du­ro sol­tan­to nell’ul­ti­mo pe­rio­do?

    Per an­ni non ave­vo fat­to al­tro che di­re di vo­ler can­ta­re, e ave­vo com­po­sto del­le can­zo­ni, stu­dia­to tan­to, ma non ave­vo mai con­cre­ta­men­te fat­to qual­co­sa.

    Ero dav­ve­ro una di quel­le per­so­ne che di­ce­va di ave­re mol­te am­bi­zio­ni, ma poi si ri­ve­la­va es­se­re sol­tan­to una gran­de chiac­chie­ro­na? Era pro­ba­bi­le che lo fos­si sta­ta fi­no a qual­che an­no pri­ma, ma rea­liz­zai co­me fos­si cam­bia­ta e aves­si ca­pi­to co­sa do­ves­si real­men­te fa­re per di­ven­ta­re chi vo­le­vo es­se­re.

    Uscii dal ba­gno e mi pre­pa­rai, uscen­do suc­ces­si­va­men­te di ca­sa sen­za asciu­ga­re i ca­pel­li.

    Ero usci­ta co­sì in fret­ta che Cas­san­dra ave­va avu­to il tem­po di dir­mi sol­tan­to ‘co­sì ti pren­de­rai un raf­fred­do­re’, per il ba­gna­to sul­la te­sta che non por­ta­va a nul­la di buo­no. Mi sem­brò di sen­ti­re la non­na, ri­cor­dan­do in quel mo­do di es­se­re re­ci­di­va e abi­tu­di­na­ria, nel te­ne­re i ca­pel­li sem­pre ba­gna­ti.

    La me­tro era af­fol­la­ta e mi di­ver­ti­va os­ser­va­re le per­so­ne, men­tre ascol­ta­vo del­la mu­si­ca con le cuf­fie al­le orec­chie.

    I pic­co­li ge­sti po­te­va­no di­re mol­to di una per­so­na, più di quan­to po­tes­se­ro dir­lo le pa­ro­le.

    C’era una si­gno­ra con la spe­sa e la di­vi­sa da in­fer­mie­ra, co­sa che mi fe­ce su­bi­to pen­sa­re al fat­to che aves­se stac­ca­to dal la­vo­ro ed es­sen­do una ma­dre di fa­mi­glia, stes­se tor­nan­do da lo­ro per la ce­na.

    La me­tro cor­se ve­lo­ce e in po­co tem­po fui al pub, ar­ri­van­do pri­ma del pre­vi­sto.

    «Sei in an­ti­ci­po», la vo­ce di Eve­lyn era in­con­fon­di­bi­le.

    «E que­sto è ma­le per­ché?», ri­spo­si io sar­ca­sti­ca­men­te.

    «In real­tà non è ma­le, ma stan­no an­co­ra pro­van­do che l’au­dio va­da be­ne, e co­sì spe­ra­vo tu ar­ri­vas­si più tar­di, in mo­do da non do­ver aspet­ta­re che lo­ro fi­ni­sca­no ciò che stan­no fa­cen­do.», dis­se guar­dan­do scoc­cia­ta i tec­ni­ci del suo­no.

    «Non so­no di aiu­to per­ché di suo­no me ne in­ten­do so­lo se si trat­ta di ac­cor­da­re una chi­tar­ra e di non sto­na­re du­ran­te la can­zo­ne, per­ciò re­ste­rò qui al ban­co­ne, or­di­ne­rò un drink e sce­glie­rò dal mio re­per­to­rio qua­li can­zo­ni can­ta­re. Quan­te vuoi che ne fac­cia?». Nel men­tre, mi av­vi­ci­nai al ban­co­ne del bar.

    «C’è una pau­sa di mezz’ora al­le die­ci e poi si ri­co­min­cia fi­no a mez­za­not­te, quin­di es­sen­do in tre ad esi­bir­vi sta­se­ra, fa­te­vi il con­to e de­ci­de­te chi ini­zia, chi fi­ni­sce e quan­te lun­ghe le vo­stre can­zo­ni do­vran­no es­se­re per fa­re in mo­do che tut­ti ab­bia­no le stes­se ore per can­ta­re.»

    «Ab­bia­mo due ore e mez­za co­me fac­cia­mo a di­vi­der­ce­le in tre?»

    «Ma­te­ma­ti­ca, Sy­bil, ma­te­ma­ti­ca».

    In ma­te­ma­ti­ca non ero mai an­da­ta be­ne,

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