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Per non dimenticare - Il Bosco dei Ricordi
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Ebook97 pages1 hour

Per non dimenticare - Il Bosco dei Ricordi

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Per non dimenticare – Il Bosco dei Ricordi è un romanzo breve che racconta in prima persona il ritorno di Marco, biologo da anni trapiantato in Francia, nel paesino laziale dove è cresciuto. Invitato per un convegno, Marco ritrova un paesaggio con panorami dall’immutata bellezza ma soprattutto incontra i suoi vecchi amici e l’amore della sua gioventù, Laura, che lasciò per trasferirsi a lavorare a Montpellier. Viene a sapere che la donna ha una figlia adolescente, Viola, che ama organizzare con gli amici le stesse escursioni nella natura che hanno segnato la sua giovinezza nel borgo. Si cominciano ad aprire, una dopo l’altra, le finestre della memoria. Un percorso a ritroso alla ricerca della propria interiorità oramai assuefatta ad una preorganizzata condotta di vita. Intrecci tra inaspettate verità e consolidate certezze dove il Bosco è il fertile terreno in cui seminare le inconfessate verità per arrivare a raccogliere la consapevolezza del proprio essere.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 9, 2019
ISBN9788831651516
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    Per non dimenticare - Il Bosco dei Ricordi - Marco Sanvito

    es­se­re.

    SENSAZIONI UNICHE

    L’oriz­zon­te si apre a un cie­lo ter­so che fa da sfon­do a im­pal­pa­bi­li nu­vo­le. La leg­ge­ra brez­za le mo­del­la in fan­ta­sio­se im­ma­gi­ni che cat­tu­ra­no il mio sguar­do. Mi tor­na­no in men­te tut­ti quei mo­men­ti di spen­sie­ra­ta gio­vi­nez­za tra­scor­si in que­ste val­la­te ma so­prat­tut­to sul­le ri­ve di que­sto in­con­fon­di­bi­le la­go. Riat­tra­ver­so la di­ga do­po qua­si quin­di­ci an­ni di as­sen­za. Ben po­co è cam­bia­to da al­lo­ra. È la stes­sa di­ga che pri­ma del­la se­con­da gran­de guer­ra ha mo­di­fi­ca­to la vi­ta di tut­ta una co­mu­ni­tà. La sua co­stru­zio­ne, ne­ces­sa­ria per for­ma­re un ba­ci­no ad uso idroe­let­tri­co, mo­di­fi­cò l’aspet­to di tut­ta una val­le.

    Mo­di­fi­cò l’am­bien­te, ma so­prat­tut­to le abi­tu­di­ni di una co­mu­ni­tà che trae­va sus­si­sten­za dal­le ri­sor­se di que­sto ter­ri­to­rio. L’al­tra fac­cia del­la me­da­glia ve­de­va ri­trat­ta la pro­mes­sa di una nuo­va vi­ta eco­no­mi­ca che avreb­be do­vu­to svi­lup­par­si gra­zie a que­sta gran­de ope­ra. Ma per mol­ti non fu co­sì.

    Il mio vol­ta­re le spal­le a que­sti luo­ghi non fu det­ta­to da un me­ro bi­so­gno di co­strui­re una nuo­va fiam­mel­la di spe­ran­za di vi­ta, co­me per tan­ta al­tra gen­te di que­sti luo­ghi. So­no fi­glio del­la ge­ne­ra­zio­ne Era­smus. An­ch’io, co­me tan­ti ra­gaz­zi e ra­gaz­ze, ho par­te­ci­pa­to a quel pro­get­to di scam­bio cul­tu­ra­le. Tal­men­te im­pre­gnan­te che do­po l’uni­ver­si­tà so­no riu­sci­to a tro­va­re il la­vo­ro de­si­de­ra­to, quel­lo do­ve po­ter met­te­re in pra­ti­ca tut­te le co­no­scen­ze ac­qui­si­te in an­ni di stu­di.

    Co­sì la­sciai al­le spal­le i fe­li­ci mo­men­ti del­la gio­vi­nez­za tra­scor­si in que­sti luo­ghi per tra­sfe­rir­mi in Fran­cia e oc­cu­par­mi di bio­di­ver­si­tà e di con­ser­va­zio­ne in am­bi­to am­bien­ta­le.

    Riat­tra­ver­so que­sta di­ga con la ma­tu­ra con­sa­pe­vo­lez­za di un ri­tor­no al­la mia ter­ra di ori­gi­ne: il Ci­co­la­no.

    Ho gi­ra­to il mon­do tra con­fe­ren­ze e con­ve­gni, ma nes­sun luo­go mi ha da­to le emo­zio­ni che sto vi­ven­do in que­sto mo­men­to. Ri­man­go sen­za fia­to nell’am­mi­ra­re lo spet­ta­co­lo che la na­tu­ra mi do­na per­cor­ren­do la stra­da che por­ta al mio pae­se. Ca­sta­gne­ti do­po ca­sta­gne­ti, nel lo­ro mae­sto­so splen­do­re, an­nun­cia­no l’av­vi­ci­nar­si del­la me­ta. De­vo as­so­lu­ta­men­te scen­de­re dal­la mac­chi­na e far­mi cul­la­re dal fru­scio del­le fron­de. Al­lo stes­so tem­po ri­man­go ip­no­tiz­za­to dai gio­chi di lu­ce che il so­le crea in­fil­tran­do­si nel ven­tre di que­sti bo­schi.

    Ave­vo let­to di co­me un pic­co­lo in­set­to im­por­ta­to dal­la Ci­na stes­se di­strug­gen­do que­sto mae­sto­so al­be­ro. In­se­ren­do una lar­va nei suoi ger­mo­gli, for­man­do una gal­la, an­da­va a bloc­ca­re la na­sci­ta del suo frut­to: la ca­sta­gna. Il ca­sta­gno, già in­de­bo­li­to per la lot­ta con­tro tut­te le al­tre ma­lat­tie, an­da­va in de­pe­ri­men­to, fi­no al­la mor­te.

    All’im­prov­vi­so sen­to un ru­mo­re dal sot­to­bo­sco. Un cal­pe­stio sem­pre più vi­ci­no. Mi gi­ro e ve­do una fa­mi­glio­la di cin­ghia­li, scor­ta­ti dal­la fem­mi­na, che pas­sa a non più di ven­ti me­tri. Un pic­co­lo spa­zio ra­so mo­stra tut­ta la pre­stan­za del­la ma­dre con die­tro fur­ti­vi i pic­co­li al­li­nea­ti. So­no quat­tro. No, ec­co­ne un quin­to a pic­co­la di­stan­za. Stria­ti, l’ul­ti­ma fi­glio­la­ta. Si al­lon­ta­na­no co­sì ve­lo­ce­men­te co­me so­no com­par­si. Ri­tor­na pa­dro­ne il fru­scio del ven­to.

    Mi gi­ro per tor­na­re sul­la stra­da e ri­sa­li­re in mac­chi­na. Fac­cio po­chi pas­si quan­do dal fon­do­val­le ven­go at­trat­to da un al­tro ba­glio­re. Ri­man­go at­to­ni­to.

    Nes­sun ar­ti­sta sa­reb­be po­tu­to ar­ri­va­re a tan­to: lo spet­ta­co­lo del la­go che tro­va spa­zio nel­la bo­sca­glia. Vi è ri­fles­so l’az­zur­ro del cie­lo e la sa­go­ma del­la vi­ci­na mon­ta­gna. I ri­fles­si del so­le me­scia­ti dal­le in­cre­spa­tu­re for­ma­te­si dal­la leg­ge­ra brez­za. Re­sto sen­za fia­to. E sen­za fia­to ri­man­go ad am­mi­ra­re lo splen­do­re che so­lo la na­tu­ra sa da­re.

    Quan­te vol­te, pri­ma di par­ti­re, avrò as­si­sti­to a que­sti mo­men­ti. Quan­te vol­te mi sa­rò get­ta­to in­sie­me al­la com­pa­gnia del pae­se in que­ste ac­que. Do­po una lun­ga as­sen­za ri­tor­no ad ap­prez­za­re to­tal­men­te la bel­lez­za di un pae­sag­gio uni­co.

    Ed è co­sì che la mia men­te co­min­cia a viag­gia­re a ri­tro­so, sca­van­do nel pas­sa­to del­la me­mo­ria. Quel­la leg­ge­ra brez­za, che ac­ca­rez­za i ger­mo­gli che ti­mi­di spun­ta­no tra i ra­mi di que­sti ca­sta­gni, aiu­ta il com­pi­to dei miei ri­cor­di.

    La pa­gi­na che si apre è quel­la di quan­do, al­lo­ra ado­le­scen­te, an­da­vo ad aiu­ta­re al­la rac­col­ta del­le ca­sta­gne. Dal si­len­zio rie­mer­go­no tut­te quel­le vo­ci: quel­le dei miei ge­ni­to­ri che ci chia­ma­va­no al la­vo­ro, quel­le dei miei non­ni che, tem­pra­ti da an­ni di ope­ro­se gior­na­te, ci mo­stra­va­no il da far­si. Par­si­mo­nio­si nel­le pa­ro­le ma non nei ge­sti e nel­le azio­ni da com­pie­re. Ri­spet­to­si di ciò che la na­tu­ra do­na­va e di quel­lo che si­gni­fi­ca­va aver cu­ra del ca­sta­gne­to.

    Era­no gior­na­te di fe­sta che ma­sche­ra­va­no il su­do­re del­le fron­ti che for­ti ma­ni an­da­va­no ad asciu­ga­re. Una bat­tu­ta, un rim­pro­ve­ro, un con­si­glio, una ri­sa­ta si me­sco­la­va­no in quel ru­mo­ro­so chiac­chie­ric­cio che in­va­de­va l’in­te­ra mon­ta­gna.

    Non è che noi ra­gaz­zi la­vo­ras­si­mo poi co­sì tan­to, ma tut­ti quei ge­sti, quel­le azio­ni che gli an­zia­ni svol­ge­va­no qua­si mec­ca­ni­ca­men­te, at­ti­ra­va­no la mia at­ten­zio­ne. Co­sì li co­pia­vo e qua­si sen­za ac­cor­ger­me­ne en­tra­va­no a far par­te del­la mia co­no­scen­za.

    Per quan­ti an­ni li ho ri­pe­tu­ti.

    La rac­col­ta del­le ca­sta­gne era un la­vo­ro pret­ta­men­te fem­mi­ni­le, co­sì co­me tan­ti al­tri che si ri­pe­te­va­no nel­la quo­ti­dia­ni­tà di ge­sti e azio­ni, di pa­ro­le e rac­con­ti, di rim­pro­ve­ri e di af­fet­ti.

    I SENTIERI DELLA NATURA

    Ri­cor­da­vo tan­te cur­ve, ma mai co­sì tan­te. La stra­da per ar­ri­va­re al pae­se è co­stel­la­ta da smot­ta­men­ti e re­strin­gi­men­ti. Sui gior­na­li e nei talk te­le­vi­si­vi non si fa al­tro che par­la­re di dis­se­sto idro­geo­lo­gi­co, di pia­ni­fi­ca­zio­ne ter­ri­to­ria­le, di im­po­ve­ri­men­to del­la di­ver­si­tà bio­lo­gi­ca. Po­li­ti­ci che sban­die­ra­no la ne­ces­si­tà di in­ter­ven­ti ur­gen­ti sul ter­ri­to­rio per ri­sa­na­re dan­ni am­bien­ta­li che an­ni e an­ni di in­cu­ria han­no pro­cu­ra­to. Fe­ri­te det­ta­te da un ge­ne­ra­le ab­ban­do­no di que­ste aree mon­ta­ne per la ne­ces­si­tà di tro­va­re la­vo­ro nel­le gran­di cit­tà. Ab­ban­do­no di quel­le cu­re col­tu­ra­li che ne­gli an­ni pas­sa­ti ave­va­no re­so fer­ti­le e pro­dut­ti­vo que­sto ter­ri­to­rio gra­zie al su­do­re di ge­ne­ra­zio­ni che trae­va­no sus­si­sten­za dai frut­ti del­la na­tu­ra. Ab­ban­do­no da par­te del­le au­to­ri­tà com­pe­ten­ti che ve­de­va­no nel­la na­tu­ra e nell’am­bien­te in ge­ne­ra­le un ele­men­to se­con­da­rio e di­stac­ca­to dal­le po­li­ti­che che si so­no ef­fet­tua­te sul

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