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Il segreto di Oli: Saga di Oli, #1
Il segreto di Oli: Saga di Oli, #1
Il segreto di Oli: Saga di Oli, #1
Ebook328 pages4 hours

Il segreto di Oli: Saga di Oli, #1

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About this ebook

“Vi racconterò la storia di come sono stato completamente raggirato dalla persona che più amavo”.
Così Alfonso Morales inizia a narrare come, 23 anni prima, si è visto immerso in un’atipica storia con una giovane di Ámbar che gli ha cambiato la vita.
Nell’attualità, Oli, un bambino impiccione di dieci anni, scopre che una malattia mortale minaccia la vita di sua madre. Con la sua peculiare immaginazione, elabora immediatamente un piano per salvare la sua famiglia. Per riuscirci conta sull’aiuto dei suoi due migliori amici: Aquiles, un pastore tedesco nonché suo inseparabile compagno, e “il Nonnino” un eminente e sarcastico chirurgo in pensione, noto per le maniere immorali utilizzate con i suoi discepoli e che ha dei buoni motivi per non preoccuparsi delle conseguenze del domani. I tre si addentreranno negli oscuri segreti della famiglia, in una trama che porterà alla luce i turbolenti avvenimenti accaduti nel paesino di pescatori di Ámbar: vendette, corruzione, tradimenti… e un segreto che cambierà il destino di tutti, per sempre.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateJan 11, 2020
ISBN9781071524527
Il segreto di Oli: Saga di Oli, #1

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    Book preview

    Il segreto di Oli - Luis A. Santamaría

    Prefazione

    «La differenza tra l’impossibile e il possibile, Morgan, risiede nella determinazione.»

    «Chi ha detto una scemenza del genere?»

    «Non so, mi pare qualche allenatore del campionato americano di baseball.»

    «Beh, si sbaglia.»

    «Lei crede? Sarà perché non ha visto quello che ho visto io.»

    «Non sarebbe male che un giorno mi raccontasse qualcosa di tutta quella storia, Salas. Lei è un vecchio affascinante, il migliore amico che ho qua dentro, ma non conosco una virgola della sua vita fuori da qui.»

    «Non c’è granché da raccontare. Morgan, lei cosa sa dell’amore?»

    «Quel fastidioso sfarfallio che si crea nello stomaco e ruba l’appetito... Una vera seccatura.»

    «Il problema non è tanto sentire le farfalle nello stomaco, quanto saperle disporre in formazione da combattimento.»

    «E lei è riuscito a governare il suo esercito di farfalle, dottore?»

    «Neanche per sogno! La mia vita sentimentale si è rivelata un disastro. Invece  ho avuto la fortuna di assistere alla storia d’amore più incredibile che possa esistere nella vita reale. E che questo esca dalle labbra di un vecchio maiale come me vuol dire tanto.»

    «Una storia d’amore? Pensavo che fossimo due uomini temprati che non pensano a quelle cose. Nel suo caso sembra che mi sbagliassi.»

    «Non faccia il bulletto, Morgan. Forse un giorno gliela racconterò e allora piangerà per l’emozione come una bambinetta con le treccine.»

    «È per questo che si è rinchiuso qua dentro?»

    Non ci fu risposta: la mente dell’anziano aveva cambiato obiettivo nel momento in cui questi aveva calpestato una massa di escrementi. Non una massa defecata da qualche animale domestico o di fattoria, dato che in quel complesso era impossibile trovarne. Qualcuno aveva deciso di fare i propri bisogni proprio lì, sull’erba del cortile, con tale sfortuna che fu proprio il piede del dottore a posarsi esattamente su quella melma.

    Salas si pulì come poté, sfregando la suola della scarpa sul prato, e i due ripresero la passeggiata con parsimonia; non c’era alcuna fretta di arrivare da nessuna parte. Di fronte a loro si estendeva una verde e vasta spianata che sembrava non aver fine. Ma era solo un’esagerazione, poiché in lontananza, quasi impercettibili alla vista dal punto in cui si trovavano, c’erano delle transenne. Intorno a loro non si vedeva altra vita che quella dei passerotti che viaggiavano da un albero all’altro, anche se era da un po’ che un adolescente si era fermato proprio di fronte a Morgan e poi, dopo avergli strattonato il bavero con violenza, gli aveva rifilato una gran bella sputata in faccia. Ora tutto ciò che si udiva era qualche strillo, di tanto in tanto. Le urla provenivano dall’interno dell’edificio principale e a forza di udirle i due ci si erano quasi abituati.

    «Di cosa stavamo parlando prima che mi riempissi i piedi di merda?»

    «Le chiedevo perché è qui. È per quella storia d’amore così incredibile? Ha fatto qualche pazzia?»

    L’anziano sputò una risata sorniona.

    «Se le dicessi che è proprio così, la storia le interesserebbe o continuerebbe a sostenere di essere un pezzo d’uomo temprato?»

    «Sono solo curioso di sapere cos’ha fatto per farsi mettere qua dentro.»

    «Sono qui per colpa di una birichinata di Oli.»

    Morgan corrugò le sopracciglia.

    «E chi è questo Oli?»

    «Mio nipote. È tutta colpa sua.»

    «Cavoli! Suo nipote non sembra un dolce piccino.»

    «È qui che si sbaglia, Morgan. Lo è fin troppo. L’essere umano più straordinario che esiste, direi. Oli ha reso possibile l’impossibile.»

    Capitolo 1

    «Vi racconterò la storia di come sono stato completamente raggirato dalla persona che più amavo.»

    Le parole risuonano maestose. La sua sagoma solitaria spicca sul palcoscenico nel controluce creato dai riflettori. Il pubblico del teatro, di una magnitudine impossibile da calcolare da dove si trova, lo ascolta attento, nascosto nella penombra. Indossa un paio di jeans consunti e una giacca di cuoio marrone. Dietro l’asta del microfono, dà inizio alla sua storia con voce vigorosa:

    «Affinché possiate capirla bene, dovrò retrocedere di un bel po’ di anni. Più precisamente fino all’inizio degli anni Ottanta. Sì, credo che basterà».

    7 febbraio 1983

    Avevo trascorso gli ultimi nove mesi finendo il servizio militare obbligatorio a Saragozza, ben lontano dal mio bel paesino di pescatori. Finalmente era giunto il momento di tornare a casa. Dopo molte ore di viaggio in autobus, alla stazione ebbi la prima delle tante sorprese che mi aspettavano quella settimana: la mia cuginetta più piccola, che mi cercava con lo sguardo dal marciapiede. Non aveva molto senso: lei non aveva la patente e la stazione degli autobus si trovava a quasi venti minuti a piedi dalla casa in cui abitavano i miei genitori. Fatto sta che la mia cuginetta era lì che agitava le mani con insistenza affinché potessi vederla dal mio posto a sedere e, una volta sceso a terra, ecco che mi stringeva tra le braccia come se fossi sopravvissuto a qualche guerra orribile. Immagino che ci credesse davvero.

    Non le ero mai stato simpatico e, nonostante il sentimento fosse reciproco, ammetto che mi fu di conforto rivedere un volto familiare dopo mesi passati a dormire con uomini generatori di ogni sorta di grugniti, flatulenze e russamenti. Recuperai i bagagli e ci incamminammo attraverso le stradine pietrose del centro. Strada facendo ci raccontavamo le novità con grande entusiasmo.

    «Non essere pesante, Berta, sei insopportabile. Quando arriviamo a casa ti racconto tutto.»

    «Stai scherzando? Raccontami qualcosa già adesso!»

    Non smetteva di saltellarmi intorno in modo irritante, rovinandomi il ritorno a casa. Mi dava sui nervi.

    «Hai portato qualche arma?» volle sapere.

    «Magari » pensai mordace.

    «Hai ammazzato tanta gente?»

    «No, almeno non fino a stasera.»

    «Ma... dove vai?» mi chiese.

    Avevo cambiato strada. Non che non ricordassi la strada che portava a casa mia. Volevo solo fare una deviazione per rivedere la spiaggia; volevo sentire la sensazione della sabbia nera, così genuina, sulla pianta dei miei piedi nudi; ascoltare l’infrangersi delle onde; forse anche affogare la mia fastidiosa cugina.

    «Sarà solo un attimo, Berta. Ti prometto che andiamo subito a cas... Cazzo, com’è fredda l’acqua!»

    «Magari perché è inverno, furbo» spiegò lei, facendo sfoggio di una saggezza inaudita. «E poi sta per mettersi a piovere, quindi tira fuori i piedi da lì e andiamocene subito.»

    Le prime gocce di quello che sarebbe divenuto un notevole temporale erano già iniziate a cadere e lo facevano come preludio del semplice avvenimento che avrebbe cambiato la mia vita per sempre. Quando mi voltai per tornare verso la zona in cui la sabbia rimaneva asciutta, scorsi qualcosa che si muoveva violentemente in lontananza, sotto un asciugamano. Mettendo bene a fuoco, vidi che si trattava di una ragazzina che cercava di andarsene dalla spiaggia senza bagnarsi. E in modo alquanto buffo, a dire il vero.

    «Ehi!» urlai a squarciagola. «Abbiamo un ombrello!»

    «Ho un ombrello» puntualizzò Berta, accompagnando il commento ironico con una gomitata lancinante.

    La giovane, che a giudicare dal generoso davanzale non era poi così bambina come mi era parso all’inizio, si voltò verso di noi, colta piuttosto di sorpresa.

    «Eh? Ah!» furono le sue parole sincere.

    Il temporale si era inasprito nel giro di pochi secondi e a quella festa della natura si era unito anche il vento, così la ragazza dell’asciugamano, disperata, si avvicinò saltellando in modo buffo al punto dove ci trovavamo. Nel frattempo Berta aprì l’ombrello controvoglia e io mi rimisi le scarpe.

    «Tieni, copriti» le offrii l’ombrello con fare galante, lasciando Berta completamente allo scoperto. Tanto i suoi capelli già di per sé sembravano peli di topo. «Mi chiamo Alfonso. E questa qua è mia cugina Berta.»

    «Oh, grazie mille. Credevo che sarei tornata a casa inzuppata, come al solito. Cavoli, guardate che capelli che ho!» si lamentò la sconosciuta.

    Mi guardò negli occhi con fare sottomesso e giuro sulla mia famiglia che quella combinazione di iridi azzurre e turbinii di lentiggini mi scosse più della prima volta che avevo sentito il mio comandante cantare sotto la doccia.

    «Ehm... io sono Veronica» si presentò.

    Rimasi impietrito dinanzi a tale bellezza innocente.

    Veronica abitava sulla strada che portava a casa dei miei, per cui accompagnarla a casa non fu nessun disturbo. Più per me che per mia cugina, si capisce. Mentre camminavamo, parlammo per conoscerci meglio. Mia cugina restò in silenzio per gran parte del tragitto, al massimo sbuffando perché non la coprivo col suo ombrello e perché mi preoccupavo solo della bambina lentigginosa. Sebbene il temporale sferzasse con vigore, conserverò per sempre un ricordo stupendo di quei miei primi minuti con Veronica.

    «Cosa facevi da sola in spiaggia senza ombrello?» volli sapere.

    «Faccio collezione di conchiglie» rispose con entusiasmo contagioso, mentre si rifugiava contro il mio braccio. «E ogni volta che prendo l’ombrello lo perdo o lo rompo. Ormai ci ho rinunciato.»

    «Per fortuna che hai trovato me.»

    Che razza di frase da figo dei film degli anni Ottanta era mai quella? Era chiaro che aver passato tutto quel tempo in mezzo a soli uomini aveva lasciato il segno. Ma chi voglio prendere in giro? In realtà non me la sono mai cavata bene con le ragazze. Provocano dentro di me uno strano fenomeno che mi fa scendere le corde vocali fino all’inguine, dilatando tutto ciò che trovano per strada e impedendomi di esprimermi con lucidità. Ero un vero e proprio disastro in materia. Ciò nonostante, contrariamente a quanto succedeva di solito in quei casi, lei mi guardò di traverso, sotto la sua frangetta rossastra, e sorrise con malizia.

    «E, a quanto pare, è stato un caso» disse. «Da dove vieni con la valigia?». Fin dall’inizio mi fu chiaro che Veronica, nonostante i modi dolci e il fisico coccoloso, non era una che menasse il can per l’aia.

    «Vengo da Saragozza. Ci ho fatto la naia.»

    I suoi occhi si spalancarono.

    «Ma dai! Allora i vestiti che indossi non sono un costume?»

    «No, non sono un costume» balbettai, alquanto confuso. Non capivo se mi stava prendendo in giro o se era davvero così ingenua. Ad oggi continuo a non esserne del tutto sicuro.

    «Fico! Beh, io abito qui» disse indicando col mento un vecchio portone di legno, di quelli con un enorme battente di ferro a forma di testa di leone che a guardarlo sembrava di essere trasportati nel Medioevo.

    «Era ora» aggiunse Berta sottovoce.

    Dopo aver dato un calcio alla caviglia a mia cugina, mi concentrai nel salutare da Veronica. Non sapevo bene cosa dovessi dire. Per fortuna fu lei a parlare, cosa che stava già diventando un’abitudine.

    «È stato un vero piacere, Alfonso.»

    «Anche per me» riuscii ad articolare.

    Le diedi due baci sulle guance e, stordito, mi disposi a continuare a salire la strada sassosa con la grama compagnia della mia parente. Quando avevo già percorso qualche metro, udii di nuovo la sua voce alle mie spalle:

    «Alfonso!».

    Mi girai verso il portone, dove c’era ancora lei. Desideravo che corresse verso di me e che mi dicesse che mi amava alla follia e che non poteva vivere senza di me. Poi ci saremmo divorati di baci, come succedeva in quei film romantici che tanto mi piacciono nella mia intimità più segreta. Ovviamente non fu questo che successe.

    «Dimentichi l’ombrello!». Sì, è vero, giuro che disse proprio così, parola per parola.

    «Tienitelo. Così ne avrai uno da perdere o da rompere domani quando andrai a cercare conchiglie.»

    Per un qualche motivo che sfugge alla mia comprensione del romanticismo, quel commento dovette compiacerla più di quanto mi fossi aspettato, perché Veronica sorrise in modo incantevole e rimase a guardarmi in silenzio per qualche secondo.

    «Ehi, l’ombrello è mio!» protestò Berta, prima che la zittissi tappandole la bocca con una mano.

    «Senti, domani ho in programma di uscire un po’ alla taverna» disse la dolce rossa dal pianerottolo. «Se ti va di venire, magari ti ricompenso il favore di oggi.»

    Quelle frasi spontanee penetrarono nel mio petto, e nei miei testicoli, come frecce avvelenate.

    «Come?» domandai, come un imbecille da manuale. Era la mia classica risposta per prendere tempo quando in realtà non sapevo cos’altro dire.

    «Che se vuoi domani sera ci vediamo alla taverna, soldato.»

    Soldato. Cos’aveva quella ragazzina? In un attimo si era trasformata dalla bambina goffa e innocente che corre sotto un asciugamano in una Sharon Stone in potenza.

    «Certo, ehm... ci sarò» fu l’unica cosa che riuscii a dire.

    E così, proprio com’era comparsa, si addentrò nel palazzo e io rimasi da solo con la mia amata cuginetta, camminando, stavolta sì, verso casa.

    «Che puttanella, no?» tirò fuori Berta all’improvviso, con una sfrontatezza assoluta.

    In un primo momento rimasi sorpreso da quella strana confessione. Mi sentivo troppo felice per essere lucido.

    «Dai, non essere così dura con te stessa. Ti sei solo bagnata un po’, tutto qui» spiegai in breve, facendo poi una smorfia.

    «Mi riferivo a lei, imbecille!»

    «Lei?» la guardai perplesso. «A me è sembrata una ragazza simpaticissima» risposi con l’ingenuità di un bambino delle elementari cui hanno appena dato il primo bacio sulla guancia.

    «Insomma, ti piace» affermò Berta, arricciando il naso.

    «Chiudi il becco e vediamo di arrivare a casa una buona volta.»

    Il sorriso inebetito che si era delineato sul mio volto mi tradiva a tal punto che se n’era accorta perfino la mia decerebrata cugina. Dopo pochi minuti eravamo a casa: un umile piano terra situato accanto alla chiesa, nel centro storico, con i telai delle porte consunti e le pareti ingiallite. Non appena vi giungemmo, ricevetti il caloroso benvenuto di mia madre. Mi godetti una meritata doccia calda nel mio bagno di sempre e non pensai più alla bambina lentigginosa fino a quando non andai a dormire, pochi secondi prima di spegnere la luce del comodino e immergermi nel subcosciente.

    Capitolo 2

    12 ottobre 2006

    E adesso cosa? Cosa si presumeva dovesse fare un bambino di dieci anni in un momento del genere?

    Oli guardava verso quella linea lontana che, a quanto gli avevano detto, separava il cielo dal mare. Le lacrime gli inzuppavano il viso. Pensava a quant’era difficile a volte capire certe cose, in particolare quelle che solo un adulto dovrebbe sperimentare. Non riusciva a comprendere che la persona che più amava se ne fosse appena andata in cielo per sempre. Eppure la vita sembrava continuare a fare il suo corso, come se non importasse niente. Apparentemente nulla era cambiato: i pescherecci continuavano a uscire dal porto di Ámbar facendo suonare le loro sirene e nei bar sulla costa si continuavano a servire bibite, caffè e bevande alcooliche che lui non aveva mai provato, o quasi mai. Perfino un gabbiano corallino solitario, che si era appena posato sullo scoglio su cui sedeva il bambino, lo guardava come se in realtà non volesse avere niente a che fare con le sue lacrime.

    Per Oli la vita non sarebbe mai più stata la stessa. La persona che gli aveva insegnato a leggere, ad allacciarsi le scarpe e a distinguere la buona musica dalla musica attuale, che si suona senza strumenti, non l’avrebbe mai più guardato in faccia; e non gli avrebbe neanche sorriso, né, naturalmente, gli avrebbe mai più dato una lezione. Un bambino non dovrebbe mai vivere una cosa del genere, men che meno dopo... beh, dopo quello che aveva fatto.

    «Accipicchia!» esclamò.

    Un’onda di quelle grandi si era scontrata con forza contro il suo scoglio, inzuppandogli i piedi nudi. Oli adorava la spiaggia nera di Ámbar, ma odiava bagnarsi le gambe perché significava poi doversi sporcare di sabbia bagnata per tornare a casa. E la sabbia bagnata gli faceva accapponare la pelle.

    Dopo essersi asciugato a stento con le mani ed essersi assicurato di sedere sul punto più alto dello scoglio, nell’eventualità che un’altra onda traditrice decidesse di avvicinarsi, tornò alla sua tragedia personale. Gli ultimi mesi non erano stati facili. Non sapeva ancora perché aveva deciso di farlo, ma lo aveva fatto, con tutte le dovute conseguenze.

    E in realtà lo aveva fatto bene.

    Perché mai lo aveva fatto? Che razza di spiritello maligno gli era entrato in testa per obbligarlo a fare una cosa del genere?

    Guardò a sinistra e constatò come gli ultimi nuvoloni neri, che avevano tenuto il paese coperto per tantissimi giorni, si allontanavano. Sotto il cielo, i primi raggi di sole accarezzavano la sabbia color grigio cenere che copriva la spiaggia. Spiaggia che non era molto larga, ma estesa, coprendo tutta la lunghezza di Ámbar da est a ovest. Sul fronte del lungomare si raggruppavano dei duplex di mattoni a vista. Alcuni di questi, stando a quanto assicuravano i più vecchi del posto, erano antiche palazzine estive della borghesia degli anni Cinquanta. Molti altri costituivano moderne opere di restauro che erano l’invidia della città. In lontananza, sulla scogliera a precipizio, verso ovest, si innalzava il faro di Ámbar. Come un imponente guardiano che custodiva l’entrata e l’uscita dal porto, fungeva da guida ai pescherecci della zona.

    Il bambino fissò gli occhi azzurri in un punto lontano: un anziano si allontanava con esagerata lentezza. Camminava con lo sguardo inchiodato a terra, costeggiando la riva in direzione del faro. Il suo passo era così pesante che ad Oli parve che non sarebbe giunto alla fine della spiaggia fino alla mattina seguente. Vedendolo partire, sentì che si concludeva una fase della sua vita che non avrebbe mai dimenticato.

    Il monotono mormorio prodotto dall’infrangersi delle onde sulla riva lo irritava, poiché gli impediva di ricordare con chiarezza tutto ciò che era successo in quelle tetre settimane. L’unica cosa chiara era che non era stato niente male per un moccioso che non sapeva neanche sbucciare una mela. Tutto aveva avuto inizio pochi mesi prima, il 23 giugno 2006, denominato dallo stesso Oli il Giorno importante.

    23 giugno 2006

    Sdraiato sul letto con addosso il suo pigiama con i razzi spaziali, Oli contemplava il soffitto della camera con gli occhi aperti a forma di pallone da calcio. Erano le sei e mezza di sera e nella camera, intorno alla figura immobile del bambino, predominava la penombra.

    La paura lo impietriva. Nel muro accanto al letto, la finestra era ancora aperta. Oli restava affascinato quando si affacciava per osservare la spiaggia. Aveva l’abitudine di salire sul materasso, benché mamma mettesse bene in chiaro quanto fosse proibito calpestarlo, e di osservare come i gabbiani corallini, capaci di inghiottire qualsiasi cosa, volavano e atterravano sulla sabbia per spartirsi il succulento bottino sparpagliato sulla spiaggia.

    Ma quella sera Oli non salì sul letto per vedere i gabbiani che volavano, atterravano sulla sabbia e si spartivano i resti di cibo. In realtà non riusciva a muoversi.

    «Magari fossi uno di loro» ruminava in preda alla tristezza.

    Cos’avrebbe fatto a partire da allora? Sarebbe morto proprio lì, sul suo letto? La verità era che non si sentiva affatto bene.

    Rattrappito in un angolo e usando il cuscino come scudo, attese in silenzio che la paura svanisse. Un sudore freddo gli percorreva la schiena, dal collo al popò, e non riusciva a smettere di tremare. L’oscurità, nel suo senso più ampio e universale, era venuta con l’intenzione di fermarsi, impregnando la camera di un’atmosfera opprimente. Oli aveva sentito parlare qualche anziano di rimorsi di coscienza, ma se era proprio quello che gli stava succedendo, non lo avevano avvisato di quanto facesse male.

    C’era qualcosa, tuttavia, che gli faceva ancora più male che quel benedetto rimorso di cui sapeva così poco. Nella camera adiacente, un pianto sconsolato spiccava su tutto il resto. Oli appiccicò un orecchio alla parete che divideva le due camere. Il dolore lo invase in tutto il suo essere. A quanto sembrava, papà avrebbe tenuto nascosta la disgrazia.

    Ma Oli sapeva tutto.

    Gli adulti erano soliti dire che Oli, rispetto a Javier, Telmo, Omar e gli altri bambini della sua età, era premuroso, educato e tanto astuto quanto poco intelligente. Aveva imparato a leggere tardi, faceva fatica a capire i problemi di matematica più semplici e, fino a pochissimo tempo prima, di notte faceva ancora la pipì tra le lenzuola. Oli detestava accettare tutto ciò, ma si considerava innanzitutto un bambino sincero con se stesso e non poteva fare altro che accettare le critiche. Tuttavia, in quell’occasione il bambino sapeva qualcosa che papà ignorava e che non avrebbe mai dovuto sapere.

    Aveva fatto qualcosa di straordinario. O qualcosa di straordinariamente perverso, non ne era del tutto sicuro. E se lo scoprivano? Che castigo avrebbe meritato? Dal suo punto di vista, aveva agito nel modo più eroico e nobile possibile, degno dei cavalieri che comparivano nelle storie che mamma era solita leggergli da piccolo (non come allora, che era già un vero e proprio giovanotto). Quelli che montavano cavalli dal mantello bianco e lottavano contro orchi e draghi. Ma il pianto di papà faceva scomparire i cavalieri delle storie, e allora non poteva evitare di sentirsi il bambino più cattivo dell’universo, quasi quanto gli orchi e i draghi.

    «Aquiles, perché l’ho fatto?» sussurrò rivolgendosi al suo amico del cuore, che non si era allontanato da lui in tutto il pomeriggio.

    Erano semplicemente inseparabili. Il quadrupede era arrivato in quella casa più o meno quand’era nato Óliver. A quei tempi era una minuscola palla di pelo divoratrice di qualsiasi elemento ritenesse commestibile. Ormai pesava quarantacinque chili, il che, secondo il bambino, ne faceva il cane più grande del mondo. Un giorno aveva provato addirittura a montargli sulla schiena per cavalcare sulla spiaggia, con risultati catastrofici per entrambi. Aquiles dormiva con Oli, mangiava con Oli e lo accompagnava sempre, ogni pomeriggio, nelle sue lunghe passeggiate. Alcuni bambini giocavano a pallone con gli amici, altri passavano l’estate con i cugini; lui aveva Aquiles.

    Il pastore tedesco appoggiò la testa colossale sulla trapunta e strofinò il muso sulla spalla di Oli, che interpretò il gesto come un "non preoccuparti, amico mio: io sto con te". Aquiles in realtà era già stato presente quel giorno, durante tutto il processo di gestazione ed elaborazione di quel piano perverso, per cui in un certo modo, sì, faceva parte della squadra, e condivideva il segreto di Oli. D’altro canto, era il miglior confidente che si potesse avere, Oli infatti era convinto che ad Aquiles non sarebbe scappato un latrato più del dovuto.

    Una volta recuperata un po’ di serenità e quando i suoi occhi smisero di assumere la forma di un pallone da calcio, si mise a riflettere. Quel giorno, che da allora sarebbe stato ricordato come il Giorno importante, era stato, senza sorta di dubbio, il peggiore della sua vita.

    Il Giorno importante era iniziato come un giovedì qualsiasi nella vita di Óliver, Aquiles, papà e mamma, nella casa più carina di tutto il fronte sul lungomare. Situato sulla costa cantabrica, Ámbar era un tradizionale paesino di pescatori che, a quanto diceva il cartello di benvenuto posto sulla strada di accesso, accoglieva 3.601 abitanti censiti. Fiancheggiato da una formazione di colline di mezz’altezza e stretto dal mar Cantabrico, faceva del suo lunghissimo lungomare la sua attrazione principale. Gli ambarini erano soliti scherzare sulla configurazione dedalica delle strade del centro, assicurando che chiunque vi si addentrasse per la prima volta avrebbe fatto meglio a portarsi appresso una buona cartina. I proverbi del posto dicevano che Ámbar era paradisiaco tanto quanto misterioso, a seconda del periodo dell’anno e dello stato della marea.

    Essendo già in vacanza, Oli si era svegliato tardissimo, il che spiegava come mai in casa non si sentisse anima viva quando aveva aperto il primo occhio. Si pulì la cispa con le dita e scese le scale fino al piano di sotto con l’intenzione di fare colazione. Aquiles dormiva placidamente nel suo angolo della cucina. Vedendolo scendere, si alzò con un balzo e corse verso di lui per leccargli un ginocchio. Dopo quel consueto gesto di buongiorno, il pastore tedesco si girò e tornò a sdraiarsi al suo angolo, da cui non si lasciò sfuggire nessun dettaglio di tutti i movimenti fatti dal bambino.

    Oli si era già preparato la sua enorme scodella di cereali al cioccolato al latte, quando sua madre entrò in casa sbattendo sonoramente la porta.

    «Tesoro!» esclamò. «Ti sei appena alzato?»

    «Sì» rispose Oli, che si sentiva in colpa per la sua pigrizia.

    Mamma si spostava da un lato all’altro della cucina, frettolosa.

    «Tranquillo, ghiro. Le vacanze servono a questo, no?» disse senza dimostrare un eccessivo interesse, mentre cercava qualcosa nei cassetti. Poi lasciò cadere sul tavolo una grande busta. «Ricordati che devi portare fuori Aquiles prima dell’ora di pranzo.»

    Il

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