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Il cavaliere del Leone
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Il cavaliere del Leone
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Il cavaliere del Leone

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About this ebook

Un romanzo epico nel mondo della cavalleria.
Una straordinaria avventura di coraggio, amicizia, guerra e amore.

Francia settentrionale. XI secolo.
Ademar, detto il Leone, è il miglior cavaliere al servizio di Helia di Beaugency, conte del Maine, impegnato nella lotta contro il duca dei Normanni Robert, figlio di Guglielmo il Conquistatore. Ademar ha già ottenuto molto per il suo valore: terre, seguaci e un matrimonio che gli ha donato figli e prestigio. Non manca che la vittoria finale per coronare la sua strabiliante ascesa.
Il destino, però, ha altri piani, e mette sulla sua strada Rohese, l’unica donna in grado di dargli ciò che non ha mai avuto: un amore immenso e puro come quello cantato dai bardi nelle corti. Incapace di rinunciare a lei, Ademar dovrà combattere contro vecchi e nuovi avversari, e per non perdere l’amicizia del suo signore intraprenderà una ricerca che lo condurrà tra guitti, faide familiari e sanguinose battaglie, in una moderna chanson de geste raccontata nel rispetto assoluto per la ricostruzione storica.

Il romanzo è uno spin-off dell’acclamata saga “Il Giglio e il Grifone”, e può essere letto in maniera indipendente.
LanguageItaliano
Release dateDec 2, 2019
ISBN9788835339045
Il cavaliere del Leone

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    Il cavaliere del Leone - Giovanni Melappioni

    Giovanni Melappioni

    Il cavaliere del Leone

    Il cavaliere del Leone © Giovanni Melappioni, 2019

    su licenza Scriptorama Agenzia Letteraria

    Grafica di copertina: Marilena Imbrescia

    UUID: 1ab326ac-d7bf-4926-b199-7c639ff69b31

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    PROLOGO

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    Quête I

    Quête II

    Quête III

    CAPITOLO 3

    ROHESE

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    EPILOGO

    Altri titoli dello stesso autore

    A Nicole e Sibilla Iulia

    Il cavaliere del Leone

    Nessuno può sfuggire alla morte o all'amore.

    Publilio Siro

    PROLOGO

    Ti ringrazio per essere venuto. Ci sono delle pellicce, se ne avrai bisogno; l’inverno nei pressi dell’Oceano può essere terribile, e quel piccolo focolare non riesce mai a scaldare a sufficienza queste stanze. C’è anche del sidro, mi è stato detto che lo preferisci al vino. No, non ringraziarmi. Sono io che ringrazio te: sei la mia unica speranza prima che l’oblio mi colga e renda vana la lunga, penosa attesa che è stata la mia vita.

    Sono la primogenita del conte d’Arques, ma fu mio nonno a scegliere il nome Rohese: apparteneva alla donna che aveva amato, non sua moglie, e il destino di quella coppia mai unita si tramandò a me come una maledizione. Il padre di mio padre fu fiero oppositore alla successione di Robert Magnificus. Il suo bastardo di otto anni, Guillaume, scelto dai nobili della corte, non poteva detenere un simile potere. Per questo combatté contro di lui fino a quando ebbe forza nelle vene. Fu sconfitto una prima volta e costretto a rendergli omaggio. L’odio nei confronti del duca, però, non cessò mai di scaldare i cuori della mia famiglia. Nelle cupe serate invernali, i parchi banchetti della nostra stirpe allontanata dalla corte erano occasione di complotto e di sogni di rivalsa. Quando pensarono di essere pronti ripresero le ostilità insieme agli alleati del Cotentin e ai franchi d’Anjou. Furono fatti a pezzi senza pietà nella piana di Val ès Dunes e spogliati dei loro possedimenti, costretti all’esilio o a un’umiliante sottomissione. Erano passati mille e quarantasette anni dopo la nascita del Cristo e mio nonno morì di crepacuore, al gelo del suo padiglione nell’accampamento distrutto, quando gli elencarono il nome dei caduti. Aveva perso figli, nipoti, congiunti, amici e figli di amici, nella battaglia. Mio padre era al suo fianco, seppur giovanissimo, e giurò che avrebbe vendicato la sua morte. Accettò il perdono del duca e si ritirò nel castello di famiglia, l’unica tenuta di cui rimase possessore, a curare le sue ferite. Alcuni anni dopo giunse la richiesta di adunarsi con il resto delle forze del ducato ma egli si rifiutò di seguire il duca nella terra degli Angli, nella sua campagna contro Harold, l’ultimo loro re. Già questo sarebbe stato sufficiente per attizzare un mai sopito odio nei confronti della nostra famiglia, ma mio padre fece di peggio: dichiarò il suo appoggio ai Sassoni non domati dall’incoronazione di Guillaume e li rifornì di armi e argento. Quando quei ribelli, asserragliati nelle piane marcescenti della Britannia orientale, vennero comunque annientati il Conquistatore tornò e la sua ira nei confronti di chi non aveva voluto aiutarlo fu tale che le torri incendiate illuminarono a giorno la Normandia per mesi. Mio padre ci portò in salvo abbandonando le terre avite e si rifugiò nell’Anjou, fra i franchi che si erano opposti insieme a mio nonno all’ascesa di Guillaume. Vissi come un’esule la mia infanzia; mia madre, che era stata una gran dama, era costretta a pettinare capelli di infimo rango e preparare letti per la prole dei feudatari del conte d’Anjou che ci ospitava. Erano cortesi ma distanti, ci guardavano con un misto di pietà e disprezzo per la nostra condizione. Mio padre non poteva sopportarlo. Ben presto decise di risollevarsi, combattendo la guerra degli Anjou contro Hugh del Maine. Impegnò l’ultimo argento che aveva per assoldare una manciata di combattenti e prese possesso, con la sola forza della sua spada, di una torre al confine con il Maine. Io e mia madre, che lo avevamo seguito negli accampamenti, vedemmo il significato dietro le parole delle Chansons: prendere le mura, bruciare la torre, spazzare via i nemici significano sangue, budella, arti sparsi sul terreno. Gemiti infiniti per ferite incurabili. L’orrore della morte negli occhi vitrei dei caduti e in quelli di chi, pur sopravvissuto, sapeva di non poter resistere al prossimo inverno. Vidi orrori indicibili e odiai mio padre, Dio mi perdoni, perché lo stava facendo per me. Quanti figli di contadini potevano valere il mio rango? Quanta virtù femminile doveva essere strappata a forza perché io potessi tornare a vestire seta e broccati, ad avere una dote con cui propormi ai grandi del regno dei Franchi?

    Infine, il fortilizio cadde. Ci vollero settimane per far svanire il fetore della battaglia dai camminamenti e dalle sale. Sembrava impossibile lavare via il sangue che rimase come macchie dopo una lunga malsania. Poi giunsero i regali del conte. Un falcone, due cavalli. Alcuni domestici scelsero di prendere servizio presso di noi, così che i giovani scudieri che mio padre aveva assegnato alle cucine e alle riparazioni potessero tornare a prepararsi alla prossima battaglia. Vennero alcuni cavalieri con i loro seguiti. Mio padre smise di camminare sugli spalti di notte, per fare la ronda come una comune sentinella per la penuria di uomini. La palizzata fu rinforzata e quando Helia, il nuovo conte del Maine eletto dai nobili, si presentò sotto le mura, fu costretto a rinunciare a qualsiasi tentativo. Eravamo troppo forti, in quel momento. Una nuova vita e nuove speranze presero il posto dell’angoscia, smettemmo di essere esuli senza patria. Non riuscivo a perdonare del tutto mio padre, non potevo dimenticare l’orrore della guerra, ma fui sempre educata e amorevole nei suoi confronti perché credevo che qualunque atto avesse compiuto, anche il più terribile, era volto al bene della sua famiglia. Invece non c’era che freddo calcolo in ogni sua azione. Il duca di Normandia era sul punto di schiacciare la resistenza di Helia. I normanni avrebbe conquistato il Maine e l’Anjou sarebbe seguito poco dopo. Perché continuare a tradire la nostra stirpe, pensò mio padre, calcolando che in pochi mesi il suo nuovo castello si sarebbe trovato pericolosamente in prima linea fra i franchi e i normanni, nostri consanguinei. Invitò il più fido consigliere del duca, Rudger de l’Azur detto il Maleagant a trattare, ponendo sul piatto il castello che possedeva e me. Avrei sposato quell’uomo viscido e ripugnante. L’odio che mio nonno ci aveva trasmesso per quella casata che seguiva Guillaume il Conquistatore era per me qualcosa che non poteva essere ritrattato, troppo sangue era stato versato in quella lotta. Invece mio padre, che pure aveva giurato, per mero calcolo rinnegò tutto. Si prostrò ai nostri nemici e mi vendette pur di sedere al banchetto dei vincitori.

    Festeggiavano la nuova amicizia e brindavano, ma Helia non era stato sconfitto definitivamente. La sua caparbietà è nota a tutti e sappiamo come riuscì a prevalere su ogni suo nemico, in seguito. Quella fu la sua ora più buia. Braccato, lo davano per morto, ma lui si stava solo fortificando. Perdeva una scaramuccia da una parte e prendeva una torre da un’altra. Lo sottovalutavano e lui diventava più potente. Fu un grande uomo che seppe circondarsi di altrettanto validi vassalli. Il più valoroso di tutti fu Ademar, che molti chiamavano Leone e io sola, Rohese figlia di Fulc d’Arques, chiamai Amore.

    CAPITOLO 1

    Al nervoso gesto di congedo del conte, gli uomini voltarono i cavalli e si allontanarono con le spalle curve e gli sguardi sfuggenti. Ventidue cavalieri e un numero doppio di sergenti. Un silenzio glaciale fu il saluto di chi scelse di rimanere. Per chi non aveva abbandonato Helia di Beagency, signore del Maine, magra consolazione poteva essere la maledizione che avrebbe accompagnato per sempre i codardi. Il conte gettò un ultimo, fugace sguardo alle schiene di chi l’aveva abbandonato e tornò alla moltitudine dei nemici che non aveva ancora terminato di disporsi sul campo di battaglia. La foresta dalla quale stavano uscendo i normanni sembrava contenerne centinaia. Erano molto più numerosi di tutti gli uomini che lui avesse mai comandato. Laggiù, oltre la brulla spianata che li divideva, c’erano mercenari fiamminghi con le corte cotte di maglia e le maledette balestre che sembravano estensioni delle braccia per quella gente. Intorno a loro i lancieri di Pais, capaci di formare in pochi istanti una barriera impenetrabile, pagati sul peso delle loro robuste aste. Ai loro fianchi attendevano irrequieti i cavalieri del Berry, tizzoni d’inferno che preferivano muoversi agilmente anziché chiudersi dentro pesanti usberghi. Indomiti e spietati, erano famosi per non concedere quartiere agli avversari. Davanti a tutti questi combattenti, disposti in una fitta fila che serrava e distingueva ranghi e obblighi feudali, si mostravano senza alcun timore i cavalieri della masnada del duca di Normandia. Fissavano come spettri l’esiguità delle sue forze, pregustando gli istanti prima dell’unica carica con la quale le avrebbero cancellate dal campo di battaglia.

    «Il mio vessillo» ordinò Helia con voce ferma. Il suo alfiere si avvicinò e insieme mostrarono la volontà di contendere il campo. Lo stendardo di Robert Courteheuse, figlio di Guillaume il conquistatore d’Inghilterra, garrì in quel momento, ravvivato da quel vento misterioso che sembra levarsi spontaneo dal suolo quando gli uomini si apprestano a combattere. Passò un’ora, infine tutta l’armata normanna era schierata e pronta.

    «Mio signore, i codardi sono ormai lontani, non restano che i coraggiosi» disse l’araldo, un uomo anziano la cui voce non era rotta dall’angoscia. Evidentemente era pronto a morire.

    «Potrei arrendermi, non credi? I numeri sono contro di noi» suggerì, senza convinzione.

    «Non punire il coraggio di chi ti è restato al fianco.»

    Helia sorrise, con metà della sua bella bocca. Era il signore senza erede di una terra senza speranza. Infilò l’elmo augurandosi che vi fossero dei bravi cantori, nella schiera normanna. Un trambusto di cavalli al gran passo spezzò il silenzio funebre della schiera del Maine. Una nube di polvere annunciò l’arrivo di una compagnia in armi alle loro spalle. L’astuzia dei normanni aveva nuovamente prevalso sugli accorgimenti dei loro oppositori, si disse Helia sconfortato. Essere attaccati alle spalle era la fine, senza che fosse loro concessa l’occasione di una sfolgorante carica. Invece, con stupore, si rese conto che gli uomini in rapido avvicinamento mostravano stendardi e scudi a lui noti. Li aveva mandati a memoria per maledirli dall’inferno che avrebbe a breve raggiunto: i codardi che avevano accettato il suo perentorio invito a lasciarlo, stavano ritornando. Li guidava un cavaliere il cui usbergo emanava riflessi d’oro e rubino colpito dai raggi del sole. Non faceva parte del novero di quelli che fino a poco prima erano con lui. Eppure, ne riconobbe i colori e si meravigliò per la sua comparsa.

    Il gruppo si fermò davanti a Helia. Visibilmente a disagio, gli uomini che avevano lasciato il proprio signore e i compagni in balia del destino non osavano guardare in faccia nessuno dei presenti. Chi li aveva condotti si tolse l’elmo e il cappuccio di ferro.

    «Ademar» lo salutò Helia, alzando la mano destra.

    «Mio signore.»

    «Avevo scacciato quei ventidue codardi.»

    «Al loro posto ho condotto venti leoni.»

    «Due sono sfuggiti anche a te, a quanto pare.»

    «No: hanno provato a difendere la loro infamia con le armi. Ti ho riportato il loro sangue, è nel fodero della mia spada» Sfilò la guaina dalla cintura e ne estrasse platealmente l’arma. La lama era lorda di scuro icore. Lanciò il fodero ai piedi di Helia.

    «Perché?»

    «Mi hai allontanato ma io non ho mai smesso di amarti. Sono di nuovo al tuo cospetto e Iddio mi ha concesso degna masnada per accompagnarmi. Combatterò per te, che tu lo voglia o no.»

    «Sei quindi disposto a rinunciare a lei, per far sì che vecchi alleati ritrovino la pace, in questo momento di grande pericolo?» Le parole del conte suonarono come una formula per un nuovo giuramento fra lui e il giovane vassallo. «No. Combatterò per te, ma morirò per lei.»

    «Helia serrò la mano sull’arcione. Tu stai combattendo contro il Maleagant, non contro i miei nemici. Vai, è laggiù, vicino al Courteheuse.»

    «Io combatto contro i tuoi nemici perché essi lo sono anche per me, contro di essi hai il mio aiuto e consiglio. Vincerò per te o morirò per Rohese, e questo è quanto!»

    Prima che Helia potesse rispondere, Ademar afferrò la spada con la mano dello scudo e alzò la lancia al cielo, gridando: «Dritto alle bandiere!»

    Gli uomini che l'avevano seguito esplosero in un unico boato e si gettarono dietro il ragazzo, dritti contro il cuore pulsante dello schieramento normanno in avvicinamento. Helia afferrò lo scudo dalle mani di un suo attendente, controllò i legacci dell'elmo e della manica di anelli di ferro al braccio destro. Afferrò l'asta con il suo stendardo e guidò i suoi in battaglia, dietro il cuneo di feditori guidati da Ademar. Quando l'avanguardia impattò come un maglio contro la linea normanna si sarebbe detto che perfino il vento si fosse fermato a guardare. Grida e stridio d’acciaio si levarono al cielo, poi tutto divenne frammentato, ombre e lampi di luce in rapida successione presero il posto della razionale percezione delle cose. Non c'era modo di prendere prigionieri, di accettare guanti o cedere i propri. Nel terribile incontro fra chi cercava morte o redenzione non vi era spazio per la pietà. Lo comprese il normanno a cui Ademar tagliò un braccio? Se ne rese conto quello a cui infisse nella pancia metà della lunga lancia? Lo capirono gli altri che colpirono e mutilarono in un turbinio di sangue? Morto il cavallo, Ademar accompagnò a terra la bestia agonizzante, agile evitò di finirne schiacciato. Mulinò la spada afferrando il pomo con la sinistra. Tagliò, squarciò, ferì chiunque osasse avvicinarsi. Fu il vuoto intorno a lui, figlio del terrore per il demone d'argento e di rosso vestito che combatteva come se non volesse avere un domani da celebrare. «Ademar!» gridò qualcuno fra il vorticare che lo circondava. «Ademar, per Helia, lasciami avvicinare.»

    Un guerriero con il camaglio squarciato si fece avanti. Dall'apertura nel cappuccio sgorgava abbondante sangue. Recava un cavallo possente, trattenuto per le redini. «Prendi» gli disse.

    Ademar si guardò intorno, lo stendardo del comandante normanno era distante, fuori dalla sua portata se fosse rimasto appiedato.

    «Di chi è?» domandò afferrando le briglie. Guardò attentamente il guerriero, capendo che non si trattava di un cavaliere. «Il mio!»

    «E qual è il tuo nome?»

    «Mi chiamo Benet, e combatto senza il dono delle armi, né un signore al quale domandare vino e pane.»

    «Rimani in vita, Benet. Rimani in vita e li avrai!»

    Salì con un balzo in sella, con negli occhi la promessa di non dimenticare quel gesto. Spronò il cavallo e spavaldamente sfiorò l'alfiere dei normanni. Una guardia di ferro proteggeva la bandiera, quattro cavalieri in armatura completa che alzarono lo scudo, preparandosi allo scontro. Quel giorno Ademar aveva invocato la morte ma essa non era venuta per lui. Era discesa sulla terra e combatteva alla destra del cavaliere. Con un grido che avrebbe spezzato il midollo di un eroe dell'antichità, Ademar si gettò contro gli alfieri e ne frantumò la coesione. Ricevette colpi che avrebbero ucciso un toro e replicò sfasciando carni e armi. Le urla dei feriti raggiunsero il cielo, anticipando le anime sofferenti. Strappò di mano l'asta al cavaliere che l'aveva sorretta tronfio della sicura vittoria. Fuggirono i guardiani ancora in vita. Una lancia inattesa lo colpì alle reni. Le cinghie dello scudo si spezzarono. Il vessillo normanno volò lontano. All’ultimo ritrovò l'equilibrio, giusto in tempo per evitare di finire infilzato dal colpo che seguì. Deviò la lama senza guardare chi avesse di fronte. Parò un colpo d'ascia, affondò la spada, infine si sporse fino a sfiorare il terreno per afferrare lo scudo e poi di nuovo ritto in sella parò e colpì, fendette l'aria, poi la carne. I villani che lo attorniavano fuggirono via quando uno di loro gridò trionfale. Avevano recuperato l'asta con il vessillo

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