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Il Codice Byron
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Il Codice Byron

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Thriller - romanzo (286 pagine) - Un cadavere senza testa e una serie di indizi misteriosi sono il segno inequivocabile della matrice esoterica di un omicidio, ma soltanto una mente allenata a riconoscerli potrà comprendere il messaggio segreto che celano. In questi casi, si sa: se cerchi i guai, alla fine i guai ti trovano.


Roma: un cadavere senza testa viene ritrovato in un appartamento. Il caso è affidato a Patrizia Goretti, una giovane ispettrice di polizia, meticolosa e intelligente.

Una serie di sfortunati eventi invece coinvolgono Giulio Pompei, un biker semi-professionista che viene convocato in commissariato.

Per puro caso Giulio e Patrizia si incontrano e si riconoscono: tanti anni prima avevano frequentato l’istituto d’arte insieme, si erano innamorati e poi persi di vista; qualcosa di sopito si risveglia in loro e cominceranno a frequentarsi di nuovo.

Un indizio misterioso sta però mettendo in difficoltà la polizia: si tratta di un teschio ritrovato sulla scena del crimine. Inizialmente attribuito alla vittima, risale in realtà a epoca romana, probabilmente sottratto da una catacomba.

Patrizia si confida con Giulio che, incuriosito dagli eventi e ferrato in materia, la aiuta a ricostruire uno scenario plausibile. Una pista inquietante comincia a prendere forma tra uomini di Chiesa corrotti, nuovi cadaveri e segreti sconvolgenti.

Patrizia per fare chiarezza sul caso avrà più volte bisogno dei consigli di Giulio, esperto di storia dell’arte sì, ma anche grande appassionato di esoterismo. Le sue intuizioni faranno luce sulla matrice misteriosa ed enigmatica degli omicidi.

Sebbene qualcuno non voglia accettare questa teoria, è solo seguendo questa pista che Patrizia e Giulio cominceranno a capire qualcosa.

Mettendo in fila, tassello dopo tassello, tutte le informazioni disponibili, si renderanno conto che le loro scoperte sono soltanto parte di un disegno più ampio che li vede coinvolti in prima persona e che il loro incontro, come la loro separazione, non sono stati per niente casuali.


Fabrizio Cennamo, nato e cresciuto a Roma, ha maturato le sue esperienze attraverso lo studio, la curiosità e il confronto con la realtà sociale dei quartieri della sua città.

Ha svolto molteplici lavori: impiegato, addetto alle vendite, fattorino e magazziniere. Oggi è libraio, sposato e felicemente papà.

Negli anni ha scritto numerosi racconti e romanzi, soprattutto di genere horror e thriller.

Lo sport, la musica rock e il cinema sono altre sue grandi passioni.

Diverse sue opere sono state pubblicate in antologie per scrittori emergenti tra cui si ricordano: Tangenziale Est ne I Porti Sepolti vol. III (Aletti Editore); Non definitiva ma dolce in Vaults 2009 (Ferrara Edizioni); Mantenere la parola e L'ultimo volo del Nibbio per Italian Noir e Italian Noir 2 (I Sogni di Carmilla).

Dal 2014 è in fase d pubblicazione la saga horror post-apocalittica Cronache dei Sopravvissuti. La Spiaggia e La Strada sono i volumi usciti nella collana e-book di Aletti Editore.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateDec 3, 2019
ISBN9788825410730
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    Il Codice Byron - Fabrizio Cennamo

    Editore.

    Capitolo primo

    La città dei morti

    Quello dei piromani era un caso rognoso rimasto aperto. Le indagini andavano avanti dall’estate precedente e quindi faceva più di un anno; più di un anno senza aver cavato un ragno dal buco.

    Per chi se ne doveva occupare era una grossa gatta da pelare perché sia i luoghi che gli indiziati erano molteplici e c’erano una moltitudine di scene del crimine da seguire, studiare e mettere in relazione. Per non parlare delle persone coinvolte e dei danni alle cose; tra parti lese, richieste di rimborsi, assicurazioni, periti e avvocati c’era da uscirne pazzi.

    L’incendio della pineta di Castel Fusano era il caso più famoso e impegnativo poiché erano state coinvolte più parti e c’erano un sacco di teste a parlare: il sindaco, la forestale, gli ambientalisti, i residenti, i giornalisti. Venti ettari di macchia mediterranea e pini secolari andati in fumo in una tempesta di fuoco durata per due terribili giorni. C’era del dolo e questo era sicuro, poiché erano state ritrovate delle taniche di benzina usate come inneschi dagli incendiari che sì, erano usi a colpire in quella zona, ma mai avevano recato un danno così grande, tanto da essere definito un disastro ambientale. Questo episodio di per se, era già tanta roba.

    Poi c’erano le automobili date alle fiamme nei parcheggi del centro storico e i motorini incendiati in periferia. Senza dimenticare i numerosi cassonetti della spazzatura distrutti con esplosivi pirotecnici. All’inizio si era pensato di archiviare le vicende come goliardie di ragazzotti troppo annoiati, ma in realtà si era trattato di azioni recidive e reiterate nel tempo e l’autorità giudiziaria aveva deciso di dare una definizione a questo fenomeno e possibilmente, anche una fine.

    In mezzo alle tante segnalazioni ci erano finite anche scaramucce più o meno gravi, come alcuni atti di razzismo o intolleranza, tra cui erano degni di nota un’angheria contro un extracomunitario, ferito con scottature di sigaretta da ignoti estremisti di destra e l’aggressione a un barbone che dormiva nei capannoni abbandonati della vecchia Fiera di Roma. Questi erano i due fatti più gravi che erano saltati sulla cronaca cittadina e che per motivi ben poco logici erano stati aggregati agli altri.

    Si trattava quindi di una marea di fascicoli per le prove, gli indizi, le foto e le testimonianze, che si traducevano, diciamoci la verità, in una gran rottura di scatole per il maresciallo Della Rovere, giovane sottufficiale dell’Arma incaricato delle indagini, che era ormai stufo da tempo di occuparsene per via dell’inconcludenza delle sue analisi.

    E comunque non era andata sempre così, non all’inizio almeno. Aveva seguito, infatti, alcune piste interessanti che al principio sembravano scottare parecchio poi, con il passare dei giorni, erano andate raffreddandosi velocemente, fino a piantarsi in un punto fermo e diventare inutili.

    Per esempio, alla fine dell’inverno erano stati fermati alcuni ragazzini, ma il loro arresto non aveva dato esito. Avevano sparato solo qualche botto di capodanno fuori stagione e incendiato la serranda di un negozio, tutto qua. Una lavata di capo ed erano di nuovo in giro a far danni.

    Più interessante invece era stata la traccia che portava a una truffa perpetrata dei vigili del fuoco ausiliari, i volontari, che avevano causato degli inconvenienti per procurarsi più lavoro. Sembrava che questi tipi avessero appiccato incendi a boschi e campi abbandonati durante l’estate, per creare una situazione d’emergenza nel normale servizio dei pompieri che, di conseguenza, si erano trovati obbligati a doverli chiamare per più interventi; in conclusione queste persone avevano ricevuto un numero maggiore di compensi, cioè più soldi di quanti ne avrebbero presi in una normale amministrazione.

    Sarebbe stato un bel colpo far emergere queste responsabilità, ma dopo aver trovato molta resistenza nell’ambiente stesso dei vigili del fuoco, non era riuscito a trovare prove sufficienti ad avvalorare la tesi, riportando solo un buco nell’acqua.

    Proseguendo nelle analisi, aveva provato ad appioppare le aggressioni protocollate nel suo schedario al nucleo investigativo, cercando di farli classificare come tentato omicidio, cosa piuttosto palese, ma quelli non avevano voluto sentire ragioni. Il risultato fu che lui, non considerandole pertinenti, le aveva lasciate in sospeso, abbandonandole a un destino anonimo e concentrandosi su casi più impellenti.

    Aveva preferito approfondire l’aspetto legato alla riconversione d’uso dei terreni agricoli e alla conseguente speculazione edilizia, che era riconducibile anche agli ambienti della malavita organizzata, ma, a parte Castel Fusano, collimava poco con i casi che aveva sotto mano e comunque quello della pineta era terreno demaniale sotto la custodia dello Stato e c’era poco da approfittarsene.

    Aveva valutato tutte ipotesi verosimili, però scarsamente concernenti a quei maledetti fascicoli e si era trovato, era proprio il caso di dirlo, con il cerino in mano.

    Si era buttato allora sull’aspetto scientifico dell’indagine, consigliato da alcuni suoi superiori che ipotizzarono la possibilità di individuare i responsabili analizzandone l’aspetto mentale e il movente psicologico. Aveva preso contatto con una dottoressa, una strizzacervelli, e si era sorbito di mala voglia tutte le sue lezioni.

    La sapientona occhialuta gli aveva illustrato la genesi di una patologia che secondo teorie molto noiose, facevano risalire l’atteggiamento del potenziale piromane a una serie di complessi infantili e a varie psicopatologie più o meno gravi. Chissà perché di tante tesi gli era rimasta impressa la teoria secondo cui potevi riconoscere un soggetto potenzialmente pericoloso se questo da bambino, si divertiva a cacciare e torturare lucertole. Forse perché l’aveva fatto anche lui, in quelle lontane, assolate e solitarie estati che aveva trascorso nel paese di campagna dei nonni, quando faceva le elementari. Tormentare quegli inutili e antipatici animaletti, era uno dei suoi passatempi preferiti.

    Il loro lavoro congiunto aveva dato però i suoi frutti; insieme alla dottoressa avevano stilato diversi profili psicologici di potenziali piromani che avrebbero potuto agire in città, arrivando a ipotizzare che a mettere in pratica queste pericolose azioni, potesse essere anche una sola persona che agiva liberamente sull’intero territorio comunale. Presentando il rapporto ai suoi superiori, avrebbe fatto anche una bella figura e in fondo era stato quasi divertente, anche e sopratutto perché avevano approfondito la loro conoscenza fuori dal lavoro.

    La psicologa, infatti, era sì un’occhialuta sapientona, ma allo stesso tempo una donna intrigante con i suoi collant ricamati da volute concentriche che avvolgevano non solo le sue cosce, ma anche i suoi conturbanti silenzi. Della Rovere conoscendola più approfonditamente ne era rimasto affascinato, soprattutto dalla sua visione analitica delle persone, che la portava a selezionare le amicizie e ad avere un rapporto complesso con quelli dell’altro sesso e più in generale con tutte le relazioni sentimentali. Così aveva fatto valere il fascino della divisa per strapparle un appuntamento.

    Erano andati a cena insieme diverse volte. E poi al cinema e in gelateria. Una domenica erano andati fino a Fiumicino, a fare una passeggiata, ma si erano fermati lì; avevano scoperto che a dividerli c’era una profonda incompatibilità di carattere. L’allontanamento significò la sospensione dei loro studi che rimasero incompleti, ma soprattutto generò una profonda delusione nel maresciallo che rimase a bocca asciutta, non avendo portato a termine la sua strategia di seduzione.

    Il tempo era passato senza che le sue indagini trovassero una svolta, almeno fino alla fatidica telefonata.

    Una di quelle mattine il comandante l’aveva chiamato e aveva detto: – Stavolta è diverso.

    Perché mai sarebbe dovuto essere diverso? C’era un’auto bruciata abbandonata in un parcheggio in periferia. E allora?

    – Pare che ci sia scappato il morto – disse.

    Questa proprio non ci voleva.

    * * *

    Se scegli di lavorare nelle forze dell’ordine sai che prima o dopo dovrai fare i conti con delle responsabilità, anche se questo significherà stringere i denti, fare sacrifici, rinunciare a parte della tua vita privata.

    Serve disciplina e determinazione, applicazione, coraggio, autocontrollo e un pizzico di fortuna. Allora potrai portare a casa dei risultati.

    Per fare questo devi rendere conto ai tuoi superiori e in coscienza, a te stesso; ma soprattutto dovrai rispondere delle tue azioni ai cittadini e all’opinione pubblica, perchè rappresentante di uno stato democratico e di una repubblica.

    E di fronte al tuo dovere, sia pure esso deprecabile, angosciante o spaventoso, non puoi certo tirarti indietro.

    Il tuo lavoro metterà a dura prova le tue capacità fisiche e psicologiche, nei momenti in cui dovrai affrontare la realtà violenta della criminalità, la mente distorta dei delinquenti e l’ambiguo, morboso, inquietante lato oscuro della società moderna.

    La giovane ispettrice Patrizia Goretti conosceva i risvolti della professione che aveva scelto e aveva affrontato il suo percorso con la determinazione di un’idealista che si era laureata rapidamente e a pieni voti alla facoltà di giurisprudenza. Con la stessa facilità aveva vinto il concorso in polizia e si era guadagnata agevolmente la simpatia dei colleghi e la stima dei superiori, grazie alla sua gentilezza e intelligenza, doti che esaltavano il suo modo discreto di essere d’aiuto anche nelle situazioni più complesse.

    Dopo aver fatto diversi anni in provincia, prima a Modena, poi a Orvieto, era rientrata a Roma, sua città di nascita ed era una delle giovani promesse del commissariato Tor Carbone, in aria di promozione.

    Ma come avviene spesso, in ogni percorso della vita, l’ambizione di migliorare la propria situazione che sia essa sociale, familiare o lavorativa, passa attraverso delle prove molto complicate, spesso di estrema difficoltà.

    Ma un caso di omicidio è sempre un caso di omicidio.

    E va preso con la massima serietà, anche se è la prima volta che si è titolari dell’indagine.

    L’appartamento si trovava in una palazzina in cortina a via del Serafico a pochi minuti dal commissariato e Patrizia era arrivata molto rapidamente. I ragazzi della mobile erano stati i primi a giungere sul posto insieme ai pompieri. Le forze dell’ordine erano state allarmate dalla chiamata di una donna che lavorava nell’impresa di servizi che si occupava delle pulizie del condominio ed era stato necessario sfondare la porta d’ingresso per entrare, ma solo per fare il macabro ritrovamento.

    C’era un corpo decapitato sdraiato sul letto matrimoniale nella camera padronale.

    Indossava lunghi calzini di cotone nero e un paio di boxer classici a quadri in tonalità di verde. Il dorso nudo mostrava una costituzione piuttosto flaccida e una peluria pettorale che andava ingrigendosi. Ciò ne faceva collocare rapidamente l’età sopra i quaranta anni.

    Le lenzuola di cotone bianco erano intrise di sangue così come le federe dei cuscini, ma apparentemente non c’erano segni di lotta e la stanza sembrava in ordine.

    Sarebbe stato necessario ricostruire il crimine nella maniera più dettagliata elaborando deduzioni e cercando i riscontri adeguati; per esempio, l’omicidio era avvenuto in quella camera? Era difficile da dire con certezza in quel momento. Apparentemente sì, ma osservando le pareti immacolate, le tende linde e i mobili puliti tutto intorno, si poteva azzardare l’ipotesi opposta.

    Serviva poi conoscere l’ora del decesso e le cause reali. C’era premeditazione? O si era trattato di un raptus? La copiosa presenza di sangue lasciava intuire che la testa fosse stata staccata dal corpo in quel luogo, ma prima o dopo che il cuore si era fermato? Intorno, come detto, non vi erano tracce ematiche di pressione arteriosa. La morte allora forse non era avvenuta a causa della decapitazione. Forse in precedenza, per altre cause? L’uomo era vigile? Oppure narcotizzato?

    Molte ipotesi si potevano escludere già a una prima occhiata, ma l’esperienza maturata sul campo e gli studi riportati nella letteratura di criminologia, insegnavano di non lasciare nulla al caso.

    Sarebbe stata effettuata un’autopsia. Prima però toccava alla scientifica. Ora, in attesa che loro effettuassero i rilievi utili allo scopo, bisognava raccogliere più informazioni possibile.

    Innanzi tutto occorreva capire a chi apparteneva il cadavere: nessuna testa, nessun riconoscimento facciale.

    Cominciò a vagliare le due opzioni principali, forse era il proprietario dell’appartamento oppure era un inquilino.

    Diede ordine di perquisire l’appartamento in cerca dei suoi documenti e si mise all’opera in prima persona. Scese a controllare il citofono, ma sopra non era specificato nessun nome, solo l’interno, e poi sul campanello c’era una targhetta bianca. Le sembrò molto strano.

    Sebbene avessero rovesciato cassetti, armadi e comodini, non trovarono nessun tipo di documento.

    L’identità del cadavere era solo presunta.

    Fece una chiamata alla centrale e chiese una verifica sui dati catastali dell’immobile e l’operatore disse che avrebbe richiamato al più presto.

    Il passo successivo era quello di interrogare la donna delle pulizie. Chiederle i motivi delle sue preoccupazioni, se aveva notato qualcosa di strano anche nei giorni precedenti, se aveva dubbi, sospetti. Mandò un agente da lei e cominciò a raccogliere la sua testimonianza.

    La questione prioritaria dell’identità del cadavere la stava consumando.

    Sperò che un’ispezione accurata del corpo ne rilevasse dei segni particolari, come una cicatrice o un tatuaggio. La diffusione di questa forma di body art sempre più particolareggiata era stata di grande aiuto in molti casi di questo genere.

    In attesa della telefonata buttò un occhio nella zona dove operavano i colleghi con la tuta bianca, ma per il momento la camera da letto era interdetta per non compromettere ulteriormente la scena del crimine. Così fece un’ispezione visiva dell’appartamento; girò per le stanze con la curiosità del detective e notò mobili di pregio in legno smaltato e cesellato, tappeti persiani sul pavimento e quadri antichi alle pareti.

    Ma la sorpresa non arrivò dal suo smartphone, se la trovò davanti proprio nell’appartamento.

    Un agente chiamò allarmato e tutti corsero in cucina. Aveva ritrovato la testa mozzata: stava dentro al forno.

    Osservandola bene però capirono che il riconoscimento sarebbe stato comunque improbabile. Nel caso di comparazione con un presunto soggetto, sarebbe servito almeno un calco della mascella. Del volto, infatti, non c’era più nulla. Di quella faccia restava solo un teschio annerito.

    Tutti si domandarono se era stato sottoposto a un’orrenda cottura.

    Ma per il momento era soltanto altro lavoro per i ragazzi della scientifica e per il medico legale.

    Mentre il fotografo scattava le istantanee del cranio, arrivò la chiamata.

    L’appartamento risultava intestato a una comunità religiosa che non era a conoscenza del fatto che qualcuno vi abitasse dentro. Ragionarono al telefono per qualche istante e l’unica idea che venne loro in mente era che qualcuno legato in qualche modo alla congregazione, che aveva la possibilità di gestire gli immobili, avesse affittato l’appartamento a loro insaputa.

    La situazione si complicava.

    Chi era quest’uomo, forse uno straniero? E cosa c’entrava questa congregazione con l’omicidio?

    Patrizia sbuffò.

    Per ora aveva un corpo decapitato e senza identità, un appartamento subaffittato in maniera clandestina e una testa arrostita. Proprio una bella gatta da pelare.

    Bisognava andare alla comunità religiosa e parlare con chi gestiva il loro patrimonio. Qualcuno doveva pur conoscere chi aveva la possibilità di duplicare le chiavi dell’appartamento.

    Non tutto era perduto quindi, anche se il suo istinto le suggeriva cautela.

    Ci vollero diverse ore per finire gli accertamenti, fare l’inventario delle prove e rimuovere il cadavere e quando la polizia mortuaria portò via la bara di metallo era pomeriggio inoltrato.

    Ripararono alla meglio la porta d’ingresso e posero i sigilli all’appartamento.

    Tutti sapevano che per avere i risultati delle analisi sarebbero serviti diversi giorni di attesa e l’ispettrice Goretti si impegnò col commissario per fargli avere entro la mattina successiva un rapporto dettagliato sul caso assegnatole. Si preparò quindi a un fugace pasto e a un lungo dopocena in ufficio a scrivere sul portatile pagine di riscontri, dati e supposizioni.

    Rinunciare a parte della vita privata, proprio come aveva previsto.

    Mangiò un supplì e un trancio di pizza margherita buttando giù un’aranciata ghiacciata alla rosticceria del centro commerciale i Granai, poi rientrò in commissariato e si dedicò alla sua relazione. Voleva fare una bella figura e non venire meno alla fiducia che le avevano dimostrato, senza ovviamente tradire la reputazione che si era guadagnata.

    Sulla scrivania trovò un appunto dove era riportato l’indirizzo della comunità religiosa e un numero di telefono. Padre Castaldi – ore 8:30, c’era scritto. Già, si sa che i preti si alzano presto.

    Non sapeva a che ora avrebbe staccato. Forse dopo mezzanotte. La mattina successiva sarebbe dovuta essere operativa per le sette e fece un rapido conto. Tra gli spostamenti, il traffico, l’igiene personale e il cambio d’abiti, aveva di fronte a se poco più di quattro ore di sonno.

    Doveva farsele bastare.

    * * *

    L’appartamento di Giulio era minuto. Quarantacinque metri quadri bagno compreso, al quarto piano di via della Villa di Lucina, all’angolo di via Giustiniano Imperatore, nel cuore del quartiere San Paolo. L’aveva ereditato da sua nonna, che se ne era andata tanti anni prima. La sua mountain bike occupava gran parte del piccolo soggiorno. Era un modello custom blu elettrico che aveva modificato e personalizzato a seconda dei suoi gusti e delle sue esigenze. Se ne stava infilata di traverso tra il divano e il mobile tv, con quelle sue enormi ruote dentellate, come fosse un componente dell’arredo. E ci stava bene.

    Giulio la stava osservando dal cucinotto mentre sorseggiava il caffé. Doveva darle una ripassata con il lubrificante prima di uscire, sul deragliatore, sul cambio posteriore e sulla catena, per essere al massimo dell’efficienza durante il tragitto di quella mattina.

    Preparò la bottiglia con l’integratore e la piazzò sul portaborracce. Poi indossò la sua tenuta da gara, prese il casco e fu pronto a uscire.

    Il gruppo lo aspettava all’imbocco della via Appia Antica all’altezza di via di Fioranello, vicino alla rotatoria che dava l’accesso dell’aeroporto di Ciampino. Erano dodici ciclisti più o meno ben attrezzati che avevano aderito all’iniziativa Appia on Bike. Si trattava di un itinerario turistico e sportivo che si sviluppava lungo il tracciato dell’Appia Antica dalla periferia fino al centro città, unendo la passione e la dinamicità delle escursioni in bicicletta, all’interesse per la cultura e la storia dell’arte che permeavano quel luogo suggestivo.

    L’Appia on Bike era una sua idea. Giulio era una guida turistica di professione, oltre che un biker semi-professionista. Spesso però lavorava per agenzie interinali o cooperative che gestivano le comitive in pullman o che lo dislocavano in musei e mostre, con contratti precari e mal retribuiti, e arrotondava il suo stipendio organizzando questi incontri con altri appassionati. Aveva creato un gruppo on-line e il resto l’aveva fatto il passaparola. Non che ci si arricchisse intendiamoci, ma ci rientrava di qualche spesa. E poi si divertiva.

    Il suo guadagno funzionava così: raccoglieva le quote dei partecipanti prima della partenza, 5 euro per ciascuno, per quella mattina facevano 60 euro e quelli se li mise nel marsupio subito, sorridendo. Poi, davanti alle catacombe di San Sebastiano, verso la fine del percorso, organizzava sempre una sosta per i suoi ciclisti, facendoli fermare dal suo amico egiziano Farouk, che era un ambulante e vendeva acqua e bevande varie con il furgoncino bar e che, a fine giro, gli lasciava una stecca per lui. La giornata era calda e con un po’ di fortuna al pit stop, avrebbe guadagnato altri soldi.

    L’itinerario prevedeva un’iniziale pedalata piuttosto svelta tra la natura e le bellezze di quello che era a tutti gli effetti un museo all’aria aperta; la sgambata frizzante andava dal tempio di Ercole fino a Torre Selce, tra il verde delle colline coperte di piante spontanee e spighe di grano villano. L’aria rinfrescava i volti portando profumo di mentuccia, sambuco e finocchiella, riempiendo gli occhi con affascinati scorci che solo la regina delle vie, donava da secoli.

    Quest’andatura più allegra finiva all’altezza di Capannelle. Il tratto successivo cominciava, infatti, a essere molto più ricco di reperti interessanti, la pedalata era quindi più lenta, turistica per definirla in un modo colorito, e Giulio si fermava molto più spesso a illustrare ai suoi compagni di viaggio le bellezze dei monumenti e la storia che li riguardava. Costeggiavano quindi il Mausoleo di Casal Rotondo, il ninfeo dei Quintili, i tumuli degli Orazi e dei Curazi, superavano la chiesa di Santa Maria Nuova, il sepolcro a piramide, fino ad arrivare in via di Tor Carbone.

    Da lì, tra gli scorci della campagna romana che verdeggiava in pieno centro, visitavano i sepolcri del IV e del V miglio, la torre Capo di Bove, fino a raggiungere la tomba di Cecilia Metella, una delle più famose attrazioni della zona. Costeggiavano poi il Circo di Massenzio e il tempio di Romolo fino ad arrivare proprio alle catacombe di San Sebastiano, dove avveniva il tanto decantato ristoro.

    L’escursione proseguiva poi nel tratto urbano della via. Superando le catacombe di San Callisto, incontravano altri antichi resti molto interessanti: il noto colombario degli Augusti, la chiesa del Domine Quo Vadis, il sepolcro di Geta, quello di Priscilla e quello di Orazio, bellissimi esempi di arte funeraria dell’antica Roma. Ancora poche pedalate e la gita era terminata, la Colonna Miliaria, a porta San Sebastiano, che segnava in realtà da sempre il principio della via Appia, da dove venivano contati appunto i migli, era per loro, al contrario, la conclusione dell’itinerario.

    Quella mattina però quando fecero la loro sosta sullo slargo delle catacombe di San Sebastiano, c’era qualcuno ad aspettarlo. Una pattuglia della polizia si accostò lentamente, a sirene spente, al gruppo di ciclisti intenti a rifocillarsi. Il finestrino si abbassò con un sibilo elettronico e da dentro l’auto spuntarono due sue vecchie conoscenze, gli agenti Ceccarelli e Vitiello del commissariato Tor Carbone. Lui sorrise e scosse la testa. Loro gli fecero cenno di avvicinarsi.

    – Pompei, sei sempre il solito – disse Ceccarelli che stava al volante, – ancora con la storia delle gite turistiche abusive!

    – Ma agente che dice, accompagno solo qualche amico a vedere le bellezze di Roma in bicicletta.

    Ceccarelli vide il furgone di Farouk; l’africano al loro osservare faceva il vago mentre i ragazzi in bici sorseggiavano le bevande fresche.

    – Quello è il tuo compare, vero?

    Giulio annuì mestamente.

    – Spero che abbia tutte le carte in regola per vendere bevande in strada. In caso contrario scatterebbero sanzioni molto salate per lui, lo sai?

    – Certo che lo so.

    – Lo sa, lo sa – disse Vitiello con il suo spiccato accento napoletano, – è già venuto in commissariato parecchie volte per questa storia.

    – Allora, che dobbiamo fare, Pompei? Qui scatta la denuncia.

    – Cerchi di comprendere, agente, è solo un lavoretto. Prendo una mancia qua e là, li faccio divertire, è un modo alternativo di vedere e di vivere la città.

    – Ma quale alternativo e alternativo – gli rispose Vitiello, – è da quando ti cacciavi nei guai al centro sociale che vuoi fare l’alternativo Pompei, ma quando la metti la testa a posto?

    – Adesso devi venire con noi – disse Ceccarelli.

    Giulio si fece piccolo piccolo. – Fatemi finire il giro e salutare i ragazzi, ve lo chiedo per favore, per questa volta chiudete un occhio, non fatemi fare questa figuraccia.

    Ceccarelli sospirò e restò in silenzio.

    – Che facciamo con questo guaglione? Gliela evitiamo sta figura di merda? – chiese Vitiello al collega che era più alto in grado.

    – Finisci rapidamente questa pagliacciata e presentati al commissariato entro mezzogiorno. Dobbiamo farci una bella chiacchierata.

    Se ne andarono.

    Giulio imprecò e saltò di nuovo in sella.

    Se cerchi i guai, i guai prima o poi ti trovano.

    * * *

    Patrizia era riuscita a dormire poco e male. Sapere di doversi svegliare presto con poche ore di sonno a disposizione l’aveva messa in agitazione, quindi si era addormentata ancora più tardi del previsto e nel mezzo del riposo più profondo era sopraggiunta l’alba, e la sveglia aveva interrotto il suo sogno. Non lo ricordava, ma non era piacevole nemmeno quello.

    Aveva versato il succo d’arancia e preparato la bevanda di proteine e vitamine mischiando la polvere alla vaniglia e il latte di soia, poi aveva finito la colazione sgranocchiando una fetta biscottata. Si era vestita cercando sobrietà e comodità, indossando un pantalone elasticizzato nero, gli stivaletti di gomma alla caviglia e una maglia di cotone fino. Poi il giubbino di pelle, e a concludere un cinturino di cuoio e corda legata in vita e una collana etnica con un medaglione di madreperla. Definì le occhiaie con del trucco leggero e diede una spazzolata ai capelli che per fortuna cascavano neri e lisci sulle spalle senza doverli accudire troppo. Una spruzzata di profumo, la fondina ascellare e fu pronta a uscire.

    I preti però non erano stati di grande aiuto.

    L’istituto di beneficenza delle Sorelle Pie di Gesù era sito alle spalle della basilica di San Giovanni in Laterano in un palazzo storico pulito e perfettamente mantenuto.

    Padre Castaldi fu ben disposto ad ascoltare le domande della polizia, ma non seppe dare spiegazioni sull’inquilino dell’appartamento di via del Serafico che ai loro registri risultava sfitto. Sulle questioni operative, ebbe a dire che avevano assegnato la gestione dei locali a diverse associazioni di volontariato che potevano usufruire di locazioni a canone ridotto per l’utilizzo degli appartamenti soprattutto come uffici o studi, in cambio si occupavano anche della manutenzione delle case. Secondo le sue direttive era altamente improbabile che affittassero appartamenti a uso abitativo, ma confessò che non vi era un controllo serrato sull’uso degli immobili. Non c’era modo di sospettare illeciti sulle associazioni di volontariato, del resto si occupavano di disagio sociale e usavano gli appartamenti per tenere in piedi consultori famigliari, Caf e dare aiuto alle persone anziane o ai meno abbienti. Erano persone per bene.

    Il sospetto che qualcuna di queste associazioni si approfittasse della loro fiducia lo rese inquieto. Ma più che altro cominciò a innervosirsi quando iniziò a capire che la polizia avrebbe ficcato il naso in questioni più delicate, visto che c’era di mezzo un omicidio.

    Il prete fu costretto a dare massima disponibilità per lo svolgimento delle indagini e per prima cosa si impegnò a far avere alla polizia le anagrafiche delle associazioni di volontariato che collaboravano con loro per poter indagare sull’ipotesi di reato.

    Poi chiese di poter rimandare ulteriori questioni poiché era impegnato con le sue faccende.

    Sebbene fosse un’opera religiosa le Sorelle Pie di Gesù sembravano gestire fondi d’investimento poco chiari, soprattutto in

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